“Se talvolta inclinassi la bilancia della giustizia, 

fa' che ciò avvenga non sotto il peso dei doni,

ma per un impulso di misericordia” 

(Miguel de Cervantes)
 

"L’attuale sistema ordinamentale dei magistrati amministrativi e le riforme possibilI."

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L’angolo dell’attualità 

Autore: a cura di Roberto Lombardi 31 mar, 2024
Le nostre coscienze sono state scosse non poco dall’ennesima tragedia sul lavoro, compiutasi nel caso di specie a Firenze lo scorso febbraio. Fa sempre un certo effetto pensare che qualcuno, ancora oggi, nel 2024, esca di casa la mattina salutando i suoi cari per andare a lavorare, e poi non torni più. All’interno di un cantiere aperto da tempo per la costruzione di un supermercato con marchio Esselunga è crollata una delle grandi travi portanti del tetto con sopra il solaio, e le macerie hanno investito una squadra di otto operai, di cui tre sono morti sul colpo e un altro è stato trovato, sempre senza vita, dopo lunghe e strazianti ricerche. Subito l’attenzione dell’opinione pubblica si è soffermata sul fatto che la costruzione del nuovo supermercato stesse interessando un notevole numero di imprese in subappalto ; i sindacati hanno inoltre suggerito l’ipotesi dell’applicazione, ad alcuni dei lavoratori coinvolti, del contratto di lavoro sbagliato, ovvero del contratto metalmeccanico al posto del contratto edile. Un dettaglio di non poco contro, in quanto così si “salta” la formazione obbligatoria e specifica e si utilizza un contratto che ha un costo minore per garantire la possibilità di risparmio. Ci sono poi i non rari casi in cui il contratto applicato neanche c’è, perché le prestazioni, specie quelle in subappalto, sono effettuate “in nero”. La polemica sull’abuso di questo istituto giuridico, strumento che rende in teoria più flessibile la realizzazione di opere complesse, ha ovviamente lambito anche la materia dei contratti pubblici , ovvero di quei contratti in cui la stazione appaltante non è un privato ma un’amministrazione statale, regionale o locale. Si potrebbe pensare che la presenza di un ente pubblico e la necessaria intermediazione di una previa gara di appalto con regole rigorose renda in questo caso impermeabile, rispetto ai rischi del settore privato, il ricorso al subappalto, ma purtroppo non è così. In un Paese come il nostro, dove le infiltrazioni malavitose nell’economia sono tutt’altro che infrequenti, dove le imprese sane sono spesso “strozzate” da fisco e burocrazia e la macchina pubblica è lenta e farraginosa nei controlli, l’istituto del subappalto costituisce da sempre un “crocevia” caldo e controverso del dibattito teorico sui massimi sistemi. A tale dibattito corrisponde un legislatore oscillante, che spesso e volentieri non riesce a fare buona sintesi della realtà del Paese, delle esigenze delle stazioni appaltanti e delle richieste che ci provengono dall’Unione europea. E’ accaduto così, senza risalire ancora più indietro, che il codice degli appalti del 2016 – oggi non più vigente, se non per le procedure già in corso di esecuzione al momento della sua abrogazione – aveva originariamente disciplinato il subappalto all’ art. 105 con un semplicissimo precetto: “ E’ ammesso il subappalto secondo le disposizioni del presente articolo ”. Dopo di che, l’articolo di riferimento è cambiato più e più volte. Ma quali erano le principali regole a cui aveva pensato il legislatore del 2016? Innanzitutto, una percentuale massima di prestazioni affidabili in subappalto: l'eventuale subappalto non può superare la quota del 30 per cento dell'importo complessivo del contratto di lavori, servizi o forniture . In secondo luogo, la necessaria preventiva comunicazione, già in sede di gara, di alcuni elementi del subappalto, ai fini della successiva autorizzazione: i lavori o le parti di opere ovvero i servizi e le forniture o parti di servizi e forniture; l'assenza in capo ai subappaltatori dei motivi di esclusione di cui all'articolo 80 . In terzo luogo, l’indicazione obbligatoria della terna di subappaltatori, qualora gli appalti di lavori, servizi o forniture siano di importo pari o superiore alle soglie di cui all'articolo 35 . In quarto luogo, la responsabilità in solido i n capo all'affidatario dell’appalto dell’osservanza integrale, da parte del subappaltatore, del trattamento economico e normativo stabilito dai contratti collettivi nazionali e territoriali in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni . Infine, il divieto di subappalto a cascata : l'esecuzione delle prestazioni affidate in subappalto non può formare oggetto di ulteriore subappalto . In principio, con il d.lgs. n. 56 del 2017 , a correzione dell’iniziale formulazione, è stato previsto il divieto di affidamento del subappalto anche a chi avesse partecipato alla procedura per l'affidamento dell'appalto stesso. Ma il 24 gennaio 2019, la Commissione europea ha trasmesso al Governo italiano una lettera di costituzione in mora nell'ambito della procedura di infrazione n. 2018/2273 , con la quale ha contestato all'Italia l'incompatibilità di alcune disposizioni dell'ordinamento interno (in larga parte contenute nel decreto legislativo n. 50 del 2016) in materia di contratti pubblici, rispetto a quanto disposto dalle direttive europee relative alle concessioni (direttiva 2014/23), agli appalti pubblici nei settori ordinari (direttiva 2014/24) e agli appalti pubblici nei settori speciali (direttiva 2014/25). Successivamente, il 27 novembre 2019, la Commissione europea ha indirizzato all'esecutivo una lettera di costituzione in mora complementare, rilevando che i problemi di conformità sollevati in precedenza non erano ancora stati risolti, e individuando ulteriori disposizioni della legislazione italiana non conformi alle citate direttive. Il Governo italiano ha allora comunicato l'intenzione di apportare modificazioni alla legislazione vigente, al fine di adeguare la disciplina nazionale a quella europea, fornendo elementi di informazione e di chiarimento rispetto a taluni profili di incompatibilità che a suo giudizio non avrebbero necessitato di ulteriori interventi normativi. Nello specifico, all’incompatibilità con la normativa europea eccepita dalla Commissione europea del divieto di subappaltare più del 30 per cento di un contratto pubblico, il legislatore ha risposto con il decreto legge n. 32/2019 (cosiddetto " sbloccacantieri "), che ha innalzato la soglia massima del subappalto dal 30% al 40% fino al 30 giugno 2021, nelle more di una complessiva revisione del codice dei contratti pubblici. Si era previsto, in particolare, che il subappalto dovesse essere indicato dalle stazioni appaltanti nel bando di gara e non potesse superare la quota del 40 per cento dell'importo complessivo del contratto di lavori, servizi o forniture. Tali disposizioni hanno operato in deroga all'articolo 105, comma 2, del codice medesimo, il quale pure prescriveva la necessità di indicare il subappalto nel bando di gara, ma fissava, come visto, la soglia massima del subappalto nella misura del 30 per cento dell'importo complessivo del contratto di lavori, servizi o forniture. Tuttavia, nella messa in mora complementare, la Commissione europea ha osservato che tale modifica non sarebbe stata sufficiente a rendere l'ordinamento nazionale conforme a quello europeo, sia perché si trattava di una modifica solo temporanea, sia perché un limite al subappalto del 40%, pur essendo meno restrittivo, era da considerarsi comunque incompatibile con la giurisprudenza della Corte di Giustizia europea. In effetti, su questo specifico aspetto erano già intervenuti i Giudici europei in sede di pronuncia su una questione pregiudiziale sollevata dal TAR Lombardia, con la sentenza del 26 settembre 2019 nella causa C-63/18 (Vitali SpA contro Autostrade per l'Italia SpA), per chiarire la portata del diritto dell'UE in materia di appalti pubblici, con particolare riferimento al regime del subappalto. Il Tribunale meneghino aveva chiesto alla Corte se i principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui agli articoli 49 e 56 del TFUE , l' articolo 71 della direttiva 2014/24 , il quale non contempla limitazioni quantitative al subappalto, e il principio di diritto dell'Unione europea di proporzionalità , ostino all'applicazione di una normativa nazionale in materia di appalti pubblici, quale quella italiana contenuta nell'articolo 105, comma 2, terzo periodo, del decreto legislativo n. 50/2016, secondo la quale il subappalto non poteva superare la quota del 30 per cento dell'importo complessivo del contratto di lavori, servizi o forniture. La Corte di giustizia dell'Unione europea ha rilevato che la criticità del limite quantitativo del ricorso al subappalto (come regolato dall'ordinamento italiano) si ricollegava alla sua applicazione indipendentemente dal settore economico interessato, dall'appalto di cui trattasi, dalla natura dei lavori o dall'identità dei subappaltatori, e al fatto che la disciplina italiana non lasciava spazi a valutazioni caso per caso da parte della stazione appaltante, e ciò anche qualora questa fosse in grado di verificare l'identità dei subappaltatori interessati. D’altra parte, anche se il contrasto al fenomeno dell'infiltrazione della criminalità organizzata nel settore degli appalti pubblici costituisce un obiettivo legittimo che può giustificare una restrizione alle regole fondamentali e ai principi generali del TFUE che si applicano nell'ambito delle procedure di aggiudicazione degli appalti, e anche supponendo che una limitazione quantitativa al ricorso al subappalto possa essere considerata idonea a contrastare tale fenomeno, una restrizione come quella prevista dal codice dei contratti pubblici del 2016 era da considerarsi, secondo i Giudici europei, “eccedente” rispetto a quanto necessario al raggiungimento dell’obiettivo. Con il decreto legge n. 32 del 2019 il legislatore nazionale ha disposto anche la sospensione transitoria (originariamente fino al 31 dicembre 2020) dell'applicazione del comma 6 dell’art. 105 del codice dei contratti pubblici, ovvero delle disposizioni che stabiliscono l'obbligatorietà della indicazione della terna di subappaltatori in sede di offerta, qualora gli appalti di lavori, servizi e forniture siano di importo pari o superiore alle soglie comunitarie di cui all'articolo 35 del codice dei contratti pubblici o, indipendentemente dall'importo a base di gara, riguardino le attività maggiormente esposte a rischio di infiltrazione mafiosa. La Commissione europea ha in ogni caso osservato che tale sospensione non avrebbe potuto essere considerata una soluzione alla questione sollevata nella lettera di costituzione in mora, in quanto tale sospensione era solo temporanea. Sulla materia è intervenuta infine anche l'Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM) la quale, il 4 novembre 2020, ha inviato una segnalazione sui limiti di utilizzo del subappalto in cui riteneva opportuna una modifica normativa volta a: - eliminare la previsione generale e astratta di una soglia massima di affidamento subappaltabile; - prevedere l'obbligo in capo agli offerenti, che intendano ricorrere al subappalto, di indicare in sede di gara la tipologia e la quota parte di lavori in subappalto, oltre all'identità dei subappaltatori; - consentire alle stazioni appaltanti di introdurre, tenuto conto dello specifico contesto di gara, eventuali limiti all'utilizzo del subappalto che siano proporzionati rispetto agli obiettivi di interesse generale da perseguire e adeguatamente motivati in considerazione della struttura del mercato interessato, della natura delle prestazioni o dell'identità dei subappaltatori. Nelle more dell’approvazione della legge di delegazione europea 2019-2020, il d.l. n. 77/2021 , entrato in vigore il primo giugno 2021 - in occasione della traduzione in norme dei processi di realizzazione dei progetti PNRR e PNC -, ha colto l’occasione per ottemperare ai diktat della Commissione europea e della Corte di Giustizia, prevedendo modifiche importanti all’intera disciplina del subappalto, e sopprimendo la norma del d.l. n. 32 del 2019 che aveva innalzato la soglia massima del subappalto dal 30% al 40%. Successivamente, nella cosiddetta Legge europea 2019-2020 ( L. n. 238 del 2021 ) il comma 6 dell’art. 105 – contenente il principio dell’indicazione della terna di subappaltatori – è stato definitivamente abrogato; contemporaneamente, è venuto meno il divieto di affidamento del subappalto a chi avesse partecipato alla procedura per l'affidamento dell'appalto in questione e si è stabilito che i motivi di esclusione di cui all'articolo 80 a carico del futuro subappaltatore non avrebbero più dovuti essere dimostrati dal concorrente. E’ arrivato infine il nuovo codice degli appalti . Qualche illustre giurista ha detto che si rifiuta di chiamarlo codice, perché i codici un tempo resistevano molto più di soli sette anni, un po’ come le relazioni sentimentali. Forse sarebbe stato meglio chiamarlo testo unico . All’interno delle nuove norme, l’art. 105 è stato integralmente riscritto, e oggi le nuove disposizioni sono contenute nell’ art. 119 del d.lgs. n. 36 del 2023 . Nel nuovo sistema, posta la nullità della cessione del contratto di appalto, il subappalto è sempre ammesso, salvo che specifiche caratteristiche dell'appalto determinino l’amministrazione contraente ad escluderlo, “ in ragione dell'esigenza di rafforzare, tenuto conto della natura o della complessità delle prestazioni o delle lavorazioni da effettuare, il controllo delle attività di cantiere e più in generale dei luoghi di lavoro o di garantire una più intensa tutela delle condizioni di lavoro e della salute e sicurezza dei lavoratori ovvero di prevenire il rischio di infiltrazioni criminali ”. E’ altresì sempre ammesso il subappalto del subappalto (cd. subappalto a cascata , in precedenza vietatissimo), salvo diversa indicazione da parte delle stazioni appaltanti nei documenti di gara, e sempre per motivazioni connesse a controlli della sicurezza del cantiere o alla prevenzione “mafiosa”. Se però si è iscritti nell’apposito elenco di fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativi di infiltrazione mafiosa tenuto dalla prefettura, oppure nell’anagrafe antimafia, si presume l’assenza di rischio, e non è possibile esprimere, per l’amministrazione, alcuna correlativa valutazione di esclusione dal subappalto (e dal subappalto a cascata) per tale motivo. Ma quali sono gli effettivi rischi del subappalto a cascata? Secondo alcuni, il subappalto a cascata non fa altro che moltiplicare i rischi connaturati al subappalto, con la perdita del controllo non solo da parte del committente e del direttore dei lavori ma anche della stessa impresa principale, la difficoltà per l’impresa principale di coordinare le attività tra tutte le imprese subappaltatrici e sub-sub-subappaltatrici e la diluizione delle responsabilità sia nei confronti del committente sia della stessa impresa principale. Un rimedio potrebbe essere allora quello di spostare risorse dai controlli documentali ai controlli sostanziali su tutti gli operatori economici coinvolti nella catena del “cantiere”, verificando che dispongano delle risorse umane e dei mezzi d’opera dichiarati nelle autocertificazioni, che i bilanci siano veritieri e che le eventuali perdite siano ripianate con capitali di provenienza lecita. Resta inoltre la necessitò di accertare incontrovertibilmente che non vi siano opacità nella compagine sociale, per rapporti di quest’ultima con ambienti criminali. La liberalizzazione spinta ci è chiesta dall'Europa. Ma l'Europa ha in mente ben altro sistema di controlli sul rispetto delle norme a tutela dei lavoratori e sulla trasparenza aziendale. Dopo i fatti di Firenze, Bruno Giordano, magistrato di cassazione che è stato per un paio di anni a capo dell 'Ispettorato nazionale sul lavoro , ha denunciato l'attuale sistema di macrosorveglianza del rispetto delle regole nei cantieri. Ci sono da un lato le carenze di organico e gli squilibri regionali di efficienza tra le Asl in giro per l’Italia, dall'altro il limitato numero di ispettori in rapporto alla forza lavoro da tutelare, con un rapporto tra ispettori e lavoratori molto lontano, in senso peggiorativo, rispetto a quello indicato dall’Unione europea (uno ogni diecimila, dice Giordano). La parcellizzazione tra tante esecutrici dei progetti, in un sistema di controlli inefficiente e prevalentemente cartolare , non può che favorire, secondo questa prospettiva, piuttosto che la concorrenza dei "piccoli", la giungla delle prestazioni in nero o, peggio ancora, del clientelismo locale, familiare e criminale. In questo contesto, lasciare semplicemente il cerino in mano alla stazione appaltante, che deve individuare motivatamente i limiti al subappalto del subappalto, può rivelarsi un precetto inutile, a causa del possibile immobilismo dell’amministrazione, a fronte di un rischio da contenzioso altissimo. Occorrerebbe allora necessariamente coniugare l'adozione di rigorosi protocolli di legalità interni all’appalto con l'efficacia del controllo “dal vivo”, anche solo per scongiurare, tra le altre cose, il rischio di un’economia che cresce sulla pelle di chi muore.
Autore: a cura di Roberto Lombardi 04 feb, 2024
(Quest’articolo riprende e sviluppa una nota già pubblicata sul sito, alla luce della recente sentenza della Corte di Giustizia sul “caso Superlega”) In origine fu il caso Bosman . Nel 1993, un oscuro giocatore professionista belga rivoluzionava i meccanismi del calcio mercato dopo avere indotto la Corte di Appello di Liegi a rivolgersi in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Per un anno intero era stato senza giocare perché la società che lo aveva nel frattempo vincolato non aveva poi versato il denaro necessario per il trasferimento effettivo dalla squadra in cui Bosman aveva giocato fino alla stagione precedente. La sentenza epocale che porta il suo nome comincia con queste semplici parole: “ Lo sport di football association — generalmente noto come «giuoco del calcio» —, professionistico o dilettantistico, viene praticato, nella forma organizzata, nell'ambito di società che, in ciascuno degli Stati membri, sono consociate in associazioni nazionali, dette anche federazioni ”. Ma la conclusione è molto più dirompente: il diritto eurounitario osta all'applicazione di norme emanate da associazioni sportive secondo le quali un calciatore professionista cittadino di uno Stato membro, alla scadenza del contratto che lo vincola ad una società, può essere ingaggiato da una società di un altro Stato membro solo se questa ha versato alla società di provenienza un'indennità di trasferimento, di formazione o di promozione. Altresì, viene dichiarata in contrasto con il diritto UE la limitazione per le società calcistiche europee di schierare solo un numero limitato di calciatori professionisti cittadini di altri Stati membri. Dopo trent'anni, un altro terremoto fa tremare le gerarchie del calcio. La premessa stavolta è che tutte le federazioni nazionali aderiscono alla Fédération internationale de football association («FIFA»), associazione di diritto svizzero che organizza il gioco del calcio a livello mondiale. La FIFA è poi suddivisa in confederazioni continentali, i cui regolamenti sono soggetti alla sua approvazione. La confederazione competente per l'Europa è l'UEFA, anch'essa associazione di diritto svizzero. La FIFA è un organismo di diritto privato il cui statuto stabilisce, tra gli altri, i seguenti obiettivi: «organizzare le proprie competizioni internazionali» e «controllare ogni tipo di pratica calcistica prendendo misure adeguate per prevenire violazioni allo Statuto, ai regolamenti o alle decisioni adottate dalla FIFA o alle Regole di gioco». Le federazioni nazionali e le confederazioni regionali calcistiche, inclusa la UEFA nella regione europea, sono affiliate alla FIFA, mentre i club professionistici sono membri indiretti della FIFA. L’ articolo 20 dello statuto della FIFA prevede espressamente che « le leghe o qualsiasi altro gruppo di club affiliati ad un’affiliata della FIFA dovranno essere subordinate a tale affiliata e da quest’ultima riconosciuti ». L’ articolo 73 dello statuto della FIFA vieta alle federazioni, leghe e club affiliati alle federazioni membri di aderire a un’altra federazione membro o di partecipare a competizioni nel territorio di tale federazione, salvo in circostanze eccezionali e previa autorizzazione della FIFA e delle confederazioni o della confederazione regionale competenti. La FIFA e le confederazioni regionali, come l’UEFA, hanno dunque il monopolio di fatto dell’autorizzazione e organizzazione delle competizioni internazionali di calcio professionistico, oltre che un potere sanzionatorio o disciplinare nei confronti dei club e giocatori che partecipano alle competizioni calcistiche. A fronte di tale stato dell’arte, è stata recentemente fondata la European Superleague Company, S.L. , che è una società a responsabilità limitata i cui soci sono i seguenti club fondatori: Real Madrid club de fútbol, Associazione Calcio Milan, Fútbol Club Barcelona, Club Atlético de Madrid, Manchester United Football Club, Football Club Internazionale Milano S.p.A., Juventus Football club, The Liverpool Football Club and Athletic Grounds Limited, Tottenham Hostpur Football Club, Arsenal Football Club, Manchester City Football Club e Chelsea FC Plc. L’ESLC è l’unica proprietaria della Superlega , che mira a diventare la prima competizione europea al di fuori della UEFA a svolgersi con cadenza annuale e con la partecipazione di calciatori e club di altissimo livello sportivo, compresi i club membri permanenti della Superlega e altri club che avranno ottenuto la “classificazione” per disputare tale competizione. Quest’ultima non impedirebbe ai club partecipanti di prendere parte alle rispettive competizioni e campionati nazionali. A partire dal lancio della cosiddetta Superlega (a inizio 2021), però, per tutta reazione, la UEFA ha minacciato a più riprese di punire i club che avevano deciso di aderire al progetto e i loro giocatori, con una sospensione dalle competizioni UEFA e FIFA, oltre alla potenziale impossibilità, per i calciatori, di essere convocati in rappresentanza delle Nazionali. E’ nato inoltre un crescente dibattito sulla specificità del modello sportivo europeo, che sarebbe stato tale da giustificare la posizione sanzionatoria assunta dall’UEFA e il rifiuto del modello proposto dalla Superlega. Nel novembre del 2021, inoltre, il Parlamento, la Commissione ed il Consiglio Europeo hanno adottato distinte risoluzioni sulla politica sportiva dell’Unione, affermando la volontà politica e la necessità di allineare la cultura sportiva europea ai valori unionali di solidarietà, sostenibilità ed inclusività, manifestando una univoca preferenza per le competizioni aperte, fondate sul merito sportivo e sull’equità. Si era insomma coalizzata, ad alto livello istituzionale, una ferma opposizione alle “competizioni separatiste e chiuse”. Conseguentemente, la società ESL (European Super League) ha chiesto al Tribunale commerciale di Madrid protezione legale (un’ingiunzione) per impedire a UEFA e FIFA di utilizzare i propri ampi poteri sanzionatori al fine di fermare l’iniziativa. Nello stesso procedimento, l’ESL ha chiesto al Tribunale Commerciale di Madrid anche di presentare un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Ue in merito alla compatibilità degli statuti UEFA e FIFA con il TFUE (Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea). L’obiettivo era di accertare che l’Unione Europea delle Federazioni Calcistiche (UEFA) e la Fédération internationale de football association (FIFA), opponendosi all’organizzazione della Superlega europea, condurrebbero pratiche concordate e abuserebbero della loro posizione dominante nel mercato relativo all’organizzazione di competizioni internazionali di club calcistici in Europa e nel mercato della commercializzazione dei diritti connessi a tali competizioni. E’ stata così incardinata presso la Corte di Giustizia dell’Unione europea la causa C-333/21 , e nel dicembre del 2022, l’Avvocato generale, nelle sue conclusioni, ha evidenziato di non ravvisare un contrasto tra le norme europee in materia di concorrenza e le disposizioni UEFA e FIFA che prevedono che la creazione di una nuova competizione calcistica paneuropea tra club sia subordinata a un sistema di autorizzazione preventiva, in quanto, tenuto conto delle caratteristiche della competizione prevista, e degli effetti restrittivi derivanti da tale competizione, tale sistema appare inerente e proporzionato al conseguimento dei legittimi obiettivi perseguiti da UEFA e FIFA, che sono legati alla specificità dello sport. In particolare, secondo l’Avvocato generale, il mancato riconoscimento da parte della FIFA e dell'UEFA di una competizione sostanzialmente chiusa come l'ESL avrebbe cercato di preservare il principio di partecipazione basato sui risultati sportivi, sulle pari opportunità e sulla solidarietà su cui si fonda la struttura piramidale del calcio europeo. Tuttavia, posto che non sarebbero vietate, ai sensi del diritto dell’Unione, le minacce di sanzioni contro i club affiliati alle federazioni calcistiche esistenti, quando questi ultimi partecipano a un progetto per creare un nuovo calcio paneuropeo - introducendo una concorrenza tra società che rischierebbe di pregiudicare gli obiettivi legittimamente perseguiti dalle suddette federazioni di cui fanno parte -, le sanzioni di esclusione nei confronti dei giocatori, pur non avendo costoro alcun coinvolgimento nel progetto in questione, sarebbero state sproporzionate, specie con riferimento alla paventata esclusione dalle rispettive selezioni nazionali. Sembrava un gol probabilmente decisivo nella disputa giuridica Fifa/Uefa - Superlega. Secondo l’Avvocato generale, la Eslc avrebbe potuto liberamente istituire il torneo, ma con ciò, contestualmente, non avrebbe più permesso ai club professionistici che ne sono soci di continuare a partecipare a Champions League, Uefa Europa League e Conference League, così come alle altre manifestazioni calcistiche, in mancanza di una preventiva autorizzazione da parte di Fifa e Uefa. Tradotto, al di là degli aspetti tecnici, ci saremmo trovati al cospetto di un mero "vincolo di esclusiva" del circus calcistico attualmente vigente. O fuori o dentro. Il massimo organismo calcistico continentale aveva commentato il parere "raccomandando" in tempi brevi una "sentenza della Corte di Giustizia a sostegno della sua missione centrale di governare il calcio europeo, proteggere la piramide e sviluppare il gioco del calcio in tutta Europa, garantendo il mantenimento dell’attuale struttura di governance dinamica e democratica del Palazzo calcistico europeo". Il calcio made in UE rimaneva insomma unito e fermamente contrario alla Superlega, o a qualsiasi proposta separatista, che avrebbe in tesi minacciato l’intero “ecosistema pallonaro” del Vecchio Continente. Analogamente, anche la Fifa aveva accolto con favore l'opinione espressa dall'Avvocato generale, sostenendo che la stessa avrebbe confermato la posizione e la legittimità della Fifa e della Uefa nell'approvare qualsiasi nuova competizione calcistica. La Fifa si era detta inoltre felice del riconoscimento in suo favore dei diritti esclusivi per il mercato delle competizioni internazionali organizzate sotto la sua guida. In realtà, il parere dell’Avvocato generale precisava come Uefa e Fifa costituiscano a tutti gli effetti un regime monopolistico, il quale, però, non viola gli articoli 101 e 102 del TFUE in tema di concorrenza in ambito UE, trattandosi di un "monopolio propositivo", in quanto mirato a garantire e migliorare lo sviluppo della disciplina calcistica, anche dal punto di vista economico e di marketing commerciale. D’altronde, pesava sulla Superlega l’etichetta giuridica di "competizione chiusa", nonostante la società "A22 Sport Managment", che gestisce il "contenitore Superlega", avesse provato a far passare il messaggio opposto, ovvero quello del torneo aperto, a cui si accede (anche se residualmente) per meriti di campo. Il parere dell’Avvocato generale non è stato però – a sorpresa - integralmente recepito nel provvedimento decisorio e definitivo dei giudici della Corte di Giustizia. Anzi. Il massimo organo giudiziario UE ha infatti portato fino alle estreme conseguenze il ragionamento svolto nelle conclusioni della parte “pubblica” del processo, dando rilievo ad una esigenza ineludibile di conciliazione tra il monopolio di fatto di FIFA e UEFA e un principio del professionismo agonistico molto rilevante, ovvero quello secondo cui i club e i giocatori devono poter conoscere in anticipo e con assoluta certezza quali siano le condizioni imposte per partecipare a determinate competizioni, a cui consegue la necessità che le sanzioni adottate da chi detiene il monopolio devono essere sufficientemente chiare e proporzionate, per evitare qualsiasi rischio di decisioni arbitrarie e implicitamente vessatorie per gli atleti coinvolti. Sintetizzando al massimo la decisione della Corte di Giustizia, di estremo interesse sono sicuramente i chiarimenti forniti in ordine all’ applicabilità del diritto comunitario allo sport e all'attività delle associazioni sportive , esclusa in radice la possibilità che l’ articolo 165 TFUE (secondo cui, tra l'altro... L'Unione contribuisce alla promozione dei profili europei dello sport, tenendo conto delle sue specificità, delle sue strutture fondate sul volontariato e della sua funzione sociale ed educativa...) , che precisa gli obiettivi assegnati all’azione dell’Unione nel settore dello sport e i mezzi che possono essere utilizzati per contribuire al raggiungimento di tali obiettivi, possa essere considerato una norma speciale che esenta lo sport dalle disposizioni di diritto primario dell’Unione che possono essergli applicate, o una norma richiedente un trattamento speciale per lo sport nell’ambito di tale applicazione. D’altra parte, quanto al profilo dell’applicabilità del diritto comunitario allo sport, posto che le questioni sottoposte alla Corte vertevano sull'interpretazione degli articoli 45, 49, 56, 63, 101 e 102 TFUE nell'ambito di una controversia riguardante norme adottate da due enti aventi, secondo i rispettivi statuti, la qualità di associazioni di diritto privato preposte all'organizzazione e al controllo del calcio a livello mondiale ed europeo, nonché relative alla previa approvazione delle competizioni calcistiche internazionali interclub e allo sfruttamento dei diversi diritti relativi a tali competizioni, la Corte ha innanzitutto ricordato che la pratica dello sport, in quanto costituente un'attività economica, è soggetta alle disposizioni del diritto dell'Unione applicabili a tale attività. Invero, si tratta di un principio che la Corte di Giustizia aveva già stabilito in passato e da cui deriva che l’ordinamento UE e le regole che governano il funzionamento del mercato interno abbracciano anche il fenomeno sportivo, ogni qual volta che il medesimo finisce per essere connotato come fenomeno economico. Conseguentemente, occorre verificare caso per caso se la limitazione dell’attività imprenditoriale (come avviene ad esempio in caso di applicazione delle norme antidoping) sia da considerarsi ragionevole e giustificabile anche alla luce degli artt. 101 e 102 sopra citati, e se prevalga pertanto, in quel caso, la funzione sociale ed educativa dello sport e la tutela dell’integrità delle competizioni e della salute degli sportivi. In realtà, dice la Corte, solo alcune norme specifiche, adottate esclusivamente per ragioni non economiche e che riguardano questioni di interesse esclusivo dello sport in quanto tale, devono essere considerate estranee a qualsiasi attività economica. Normalmente, invece, le norme adottate dalle associazioni sportive per disciplinare il lavoro retribuito o la prestazione di servizi da parte di giocatori o che comunque hanno impatto indiretto su tale lavoro e prestazione, possono rientrare nell'ambito di applicazione degli articoli 45 e 56 TFUE, dell’articolo 49 TFUE e dell’articolo 63 TFUE, con ricadute del comportamento delle associazioni medesime anche nell'ambito di applicazione delle disposizioni del Trattato FUE in materia di diritto della concorrenza e necessità, quando vanno a “colpire” i singoli, di rispettare i principi generali del diritto dell’Unione, con particolare riferimento ai principi di non discriminazione e di proporzionalità . Ne consegue che sono soggette al diritto eurounitario sia le norme relative all'esercizio dei poteri di autorizzazione preventiva delle competizioni sportive da parte di un'associazione sportiva, la cui organizzazione e commercializzazione costituiscono un'attività economica per le imprese che vi partecipano o intendono parteciparvi, sia le norme adottate dalla FIFA e dall’UEFA per istituire un quadro per la partecipazione dei club e dei giocatori di calcio professionistici alle competizioni calcistiche internazionali interclub . Parimenti, hanno natura economica, e ancora una volta rientrano nel campo di applicazione della disciplina UE, le norme adottate dalla FIFA per disciplinare lo sfruttamento dei diversi diritti relativi alle competizioni calcistiche internazionali, posto che tali norme condizionano le scelte imprenditoriali in tale materia. Nel merito, la Corte ha dovuto accertare se le regole FIFA e UEFA esaminate costituiscano un ostacolo alla libera circolazione dei lavoratori, e, nel caso positivo, se tale ostacolo è giustificato, necessario e proporzionato rispetto a determinati obiettivi che possono essere considerati legittimi, e che dipendono a loro volta dalle caratteristiche specifiche dello sport interessato. La risposta è stata in sé inequivocabile, anche se probabilmente non definitiva, residuando uno spazio di valutazione importante al Giudice del rinvio. In pratica, è stato detto che costituisce abuso di posizione dominante e ostacolo alla libera concorrenza il fatto che le associazioni di calcio di vertice europeo e mondiale – monopoliste di fatto nel settore - abbiano adottato e applicato regole che subordinano alla loro autorizzazione preventiva la creazione di una nuova competizione di calcio tra club da parte di un’impresa terza, e la possibilità che le stesse infliggano sanzioni a squadre e giocatori che vogliono partecipare a tale nuova competizione, senza che l’esercizio di questi poteri unilaterali sia assoggettato a criteri sostanziali e a modalità procedimentali dal carattere trasparente, oggettivo, non discriminatorio e proporzionato . Quanto poi alla possibilità che FIFA e UEFA possano giustificare l'applicabilità e la compatibilità con il mercato di riferimento delle proprie regole di rigida appartenenza al sistema (o dentro o fuori), spetterà al Tribunale nazionale – in questo caso quello madrileno – accertare, tra l'altro, se l’obbligo di autorizzazione preventiva e la disciplina in materia di sanzioni creino un vantaggio competitivo alle differenti categorie di utilizzatori del sistema stesso. Si tratta di un mondo variegato, che va dalle federazioni nazionali, alle squadre professionistiche e amatoriali e ai loro giocatori, fino ai ragazzi in erba (i c.d. vivai) e più in generale agli spettatori e telespettatori. Non basta però che tali regole possano apparire legittime nei loro principi e obiettivi, nel momento in cui contribuiscono a garantire il rispetto dei valori sottesi al calcio professionistico, quali il carattere aperto e meritocratico delle relative competizioni e la redistribuzione solidale degli introiti. Occorrerà altresì verificare se il perseguimento di tali obiettivi si traduce in concreto anche in vantaggi competitivi reali e quantificabili , che siano altresì in grado di compensare le storture della concorrenza oggettivamente create dal sistema oggi esistente. In altri termini, spetterà al Giudice interno maneggiare e risolvere una materia così incandescente e complessa, e decidere sulle sorti della Superlega, con la consapevolezza, però, che i fragili steccati con cui era stato delimitato il campo dei “padroni” del calcio sono adesso finalmente in una terra libera dove i coloni (giocatori) e le loro fazioni di appartenenza (club) possono fare rivendicazioni senza essere zittiti prima ancora di proporre teorie fino ad oggi considerate eretiche. E noi spettatori del calcio? Sarebbe in ultima analisi lecito chiedersi se chi alimenta davvero lo sport professionistico pagando per assistere alle partite (che ciò avvenga dallo stadio o dalla televisione) abbia un reale interesse a una tale disputa, voglia lasciare tutto com’è o sia guidato al contrario da una bulimia “partecipativa”, dove più calcio c’è e meglio è. Certamente, non fanno mai bene allo sport le affermazioni manichee che tendono a soffocare ogni cambiamento, specie quando mascherano esclusivamente l'intento di non indebolire posizioni di potere consolidate.
Autore: a cura di Francesco Tallaro 08 gen, 2024
( Nota estratta dal commento breve (*) alla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, Grande Sezione, 5 giugno 2023, nella causa n. C-204/21, Commissione c. Polonia ) Le elezioni politiche tenutesi in Polonia il 15 ottobre 2023 e la successiva nomina a primo ministro di Donald Tusk, esponente di orientamento europeista e già presidente del Consiglio europeo, promettono di smorzare le acute tensioni che negli ultimi anni si sono manifestate tra l’ordinamento europeo e quello nazionale polacco, causate dalle forti torsioni contrarie al principio di legalità sostanziale che quest’ultimo ha subito negli anni più recenti. Se l’augurio del giurista è, evidentemente, quello del ripristino integrale della rule of law in Polonia, nondimeno le pronunzie della Corte di Giustizia dell’Unione europea sul caso polacco, ed in particolare sul profilo dell’indipendenza degli organi giurisdizionali, mantengono forti implicazioni sistematiche. In questa sede, in particolare, si prende lo spunto dalla recente sentenza della Grande Sezione del 5 giugno 2023, nella causa n. C-204/21, Commissione c. Polonia , per focalizzare l’attenzione su due punti di importanza strategica, nel processo storico – avviatosi sin dal 1951 – di interazione e integrazione tra i sistemi giuridici nazionali e l’ordinamento sovranazionale che promana dai Trattati europei. (...) Il primo attiene all’individuazione di quei valori che sono (o, piuttosto, dovrebbero essere) comuni alle giurisdizioni dei vari Stati membri e che sono indispensabili per la creazione di uno spazio di sicurezza, libertà e giustizia ( art. 67 ss. TFUE ). Invero, con l’avanzare dell’integrazione europea si sono moltiplicati i rapporti transfrontalieri, sicché, dal lato dei rapporti tra privati, è sorta la necessità di garantire ai cittadini la possibilità di adire affidabili organi giurisdizionali in tutti gli Stati membri e assicurare che le decisioni di tali organi siano rispettate in tutta l’Unione; dal lato della repressione penale, è evidente il bisogno che gli effetti delle pronunzie giurisdizionali si producano sull’intero territorio dell’Unione europea. Presupposto di tutto ciò è la fiducia nelle istituzioni giudiziarie dei Paesi membri, che deriva dall’osservanza di quei valori comuni sulla cui essenza la Corte di Giustizia si è pronunziata nella sentenza in commento. La Corte, sul punto, ha ripetutamente sottolineato che l’Unione europea riunisce Stati che hanno liberamente e volontariamente aderito ai valori comuni del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Sono tenuti a rispettarli e si impegnano a promuoverli, tanto più che la fiducia reciproca, in particolare tra i giudici degli Stati membri, si basa sulla premessa fondamentale secondo cui gli Stati membri condividono tali valori comuni. L’ art. 2 TUE (...) enuncia i valori comuni (...). Il loro rispetto da parte di uno Stato membro costituisce una condizione per il godimento di tutti i diritti derivanti dall’applicazione dei trattati a tale Stato membro: infatti, il rispetto di tali valori non può essere ridotto a un obbligo cui uno Stato candidato è tenuto al fine di aderire all’Unione e al quale potrebbe sottrarsi dopo la sua adesione. Dal canto suo, l’ articolo 19 TUE concretizza il valore dello Stato di diritto , principio generale di diritto dell’Unione che deriva dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, per cui spetta agli Stati prevedere un sistema di rimedi giurisdizionali e di procedimenti che garantisca ai singoli il rispetto del diritto a una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione. La Corte di Giustizia ha chiarito che, al fine di garantire che gli organi giurisdizionali chiamati a statuire su questioni connesse all’applicazione o all’interpretazione del diritto dell’Unione siano in grado di garantire la tutela giurisdizionale effettiva richiesta da tale disposizione, è di primaria importanza preservare l’ indipendenza dei medesimi. Le garanzie d’accesso ad un giudice indipendente, imparziale e precostituito per legge, e in particolare quelle che ne stabiliscono la nozione e la composizione, rappresentano la pietra angolare del diritto all’equo processo. Quindi, nella scelta del proprio rispettivo modello costituzionale, gli Stati membri sono tenuti a osservare, in particolare, il requisito di indipendenza dei giudici . Le garanzie di indipendenza e di imparzialità presuppongono l’esistenza di regole relative alla composizione dell’organo giurisdizionale, alla nomina, alla durata delle funzioni nonché alle cause di astensione, di ricusazione e di revoca dei suoi membri, che consentano di fugare qualsiasi legittimo dubbio che i singoli possano nutrire in merito all’impermeabilità di detto organo nei confronti di elementi esterni e alla sua neutralità rispetto agli interessi contrapposti. (...) Il secondo punto focale attiene all’individuazione della Corte, o delle Corti, cui spetta il compito ultimo di garantire i valori dell’indipendenza dell’autorità giudiziaria . La questione, nello specifico «caso Polonia», ha portato a un forte contrasto tra la posizione della Corte di Giustizia e quella della Corte costituzionale polacca (Trybunał Konstytucyjny). L’occasione del contrasto è stata fornita dall’ ordinanza dell’8 aprile 2020 nella causa C 791/19 R , con cui la Corte di Giustizia, basandosi sull’articolo 4, paragrafo 3, seconda frase, TUE (« Gli Stati membri adottano ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l'esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell'Unione »), in combinato disposto con l’articolo 279 TFUE, ha ingiunto alla Repubblica di Polonia di sospendere l’applicazione della legge sulla Corte Suprema, destinata ad essere dichiarata, con la successiva sentenza del 15 luglio 2019, già citata, contrastante con il diritto europeo. Ebbene, la Corte costituzionale polacca, con sentenza resa il 14 luglio 2021 (procedimento P 7/20), ha dal canto suo dichiarato il portato precettivo di ordinanza a sua volta incompatibile con diverse disposizioni della Costituzione Polacca. Quindi, invocando le disposizioni dell’ articolo 4, paragrafi 1 e 2, e dell’articolo 5, paragrafo 1, TUE che, in particolare, affermano il principio di attribuzione delle competenze dell’Unione e l’obbligo di quest’ultima di rispettare l’identità nazionale degli Stati membri, il giudice costituzionale polacco ha qualificato la statuizione della Corte di Giustizia ultra vires . Di conseguenza, rispetto all’ordinanza della Corte di Giustizia dell’8 aprile 2020 non sarebbero pertinenti i principi del primato e dell’applicabilità diretta del diritto dell’Unione, pur enunciati all’articolo 91, paragrafi da 1 a 3, della Costituzione polacca. D’altra parte, secondo la Corte costituzionale polacca, in caso di conflitto tra le sue decisioni e quelle della Corte, ad essa spetta l’«ultima parola» nelle controversie di principio relative all’ordinamento costituzionale polacco. La Corte di Giustizia, dal canto suo, ha rivendicato la competenza esclusiva a fornire l’interpretazione definitiva del diritto dell’Unione, e dunque anche a precisare la portata del principio del primato del diritto dell’Unione alla luce delle disposizioni pertinenti di tale diritto. Tale portata non può dunque dipendere dall’interpretazione di disposizioni del diritto nazionale, né dall’interpretazione di disposizioni del diritto dell’Unione seguita da un giudice nazionale che non corrisponda a quella della Corte. Piuttosto, spetta, al giudice nazionale modificare la propria giurisprudenza che sia incompatibile con il diritto dell’Unione. Ora, l’aspro conflitto sull’individuazione dell’organo, la Corte di Giustizia o la corte costituzionale nazionale, cui spetta l’ultima parola sull’assetto ordinamentale si presta, nel «caso polacco», ad essere inquadrato nel contesto degli effetti delle forze centrifughe che l’orientamento politico sovranista-autoritario - sino a poco tempo fa dominante in Polonia - ha impresso alla giurisdizione. Tuttavia, esso si inserisce, in realtà, anche in un sommerso, ma potente e diffuso movimento tettonico, causato dal forte contrasto tra corti sovranazionali e corti supreme nazionali sul ruolo primaziale nella tutela dei diritti fondamentali e, più in generale, nella definizione dell’assetto dei valori fondamentali, nonché nell’individuazione delle regole di integrazione degli ordinamenti. Il pensiero non può che correre immediatamente alla pozione del Bundesverfassunghericht , la Corte costituzionale della Repubblica Federale di Germania, sul programma PSPP di quantitative easing adottato dalla Banca centrale europea (BCE). Tralasciando i dettagli, connotati di elevata tecnicalità, è stato deciso il ricorso con cui alcuni cittadini tedeschi aveva sostenuto che le istituzioni nazionali, non opponendosi all’approvazione ed alle successive proroghe del piano di acquisti di titoli di debito pubblico degli Stati membri sul mercato secondario, avessero violato le disposizioni costituzionali che impediscono di assoggettare i cittadini tedeschi ad un potere privo di legittimazione democratica. La Corte costituzionale tedesca aveva richiesto alla Corte di Giustizia di pronunziarsi in via pregiudiziale, chiarendo se la BCE avesse leso la sfera di sovranità di cui gli Stati membri dispongono con riguardo alle scelte di politica economica e di bilanci. Tuttavia, pur avendo ricevuto una risposta negativa ( sentenza della Corte di giustizia, Grande Sezione, dell’11 dicembre 2018, causa C-493/17, Weiss ), con la sentenza del 5 maggio 2020 il Bundesverfassunghericht ha statuito che, limitando il proprio sindacato al controllo sull’errore manifesto, la Corte europea non avesse esercitato in maniera piena i poteri ad essa spettanti, finendo così per esentare gli atti della BCE da un effettivo controllo giurisdizionale. In sostanza, non vi era stata un’adeguata verifica volta a stabilire, alla luce del principio di proporzionalità, se, nel caso di specie, la BCE avesse travalicato i confini della politica monetaria e invaso la sfera di competenza riservata agli Stati nazionali. Per tali ragioni, la pronuncia pregiudiziale è stata ritenuta emessa ultra vires ¸ in quanto tale non vincolante per l’ordinamento tedesco e i suoi giudici. Indipendentemente dalla condivisibilità delle argomentazioni che hanno portato il giudice tedesco a decidere nel senso sintetizzato, è evidente come esso abbia inteso sottrarsi alla vincolatività delle decisioni del giudice europeo su un aspetto ritenuto decisivo nell’assetto ordinamentale. A distanza temporale di meno di un anno, un altro giudice supremo di un Paese fondatore delle Comunità europee, il Conseil d’État francese, con la sentenza del 21 aprile 2021, ha palesemente disatteso, seppure attraverso un’operazione interpretativa, la giurisprudenza della Corte di Giustizia, che anche qui si era espressa in via pregiudiziale su richiesta dal medesimo giudice supremo amministrativo. La questione, rinveniente dal ricorso di alcune associazioni attive nel campo della protezione dei dati personali, riguardava la conformità del regime francese di accesso, trattamento e conservazione dei dati di connessione da parte dei servizi di informazione alla normativa europea in materia, ed aveva visto la pronuncia della Corte di Giustizia, Grande Sezione, del 6 ottobre 2020, nelle cause riunite C-511/18, C-512/18 e C-520/18, La Quadrature du Net . La Corte europea aveva ritenuto incompatibile con l’ordinamento europeo, che protegge i dati personali, la disciplina francese che impone la conservazione generalizzata e indifferenziata dei dati di connessione e consente ai sevizi di sicurezza l’accesso in tempo reale agli stessi. Nondimeno, il Consiglio di Stato ha ritenuto che l’obiettivo di salvaguardia della sicurezza nazionale , ben più importante di quelli di lotta alla criminalità in generale e di tutela della sicurezza pubblica, può portare una deroga alla disciplina europea. D’altra parte, come chiarito dalla stessa Corte di Giustizia, la presenza di una minaccia “grave”, “reale e attuale o prevedibile” può giustificare misure di conservazione preventiva dei dati. L’applicazione del diritto europeo, pertanto, osta unicamente alla previsione di un obbligo di conservazione generalizzata dei dati sensibili per esigenze diverse (e minori) quali, ad esempio, il perseguimento di illeciti penali. Non meno determinata è stata la Corte costituzionale italiana, allorché la sentenza della Corte di Giustizia, Grande Sezione, dell’8 settembre 2015, nella causa C-105/14, Taricco , ha affermato l'obbligo per il giudice nazionale di disapplicare la disciplina in materia di prescrizione , ove ritenga che tali disposizioni, fissando un limite massimo al corso della prescrizione, impediscano allo Stato italiano di adempiere all'obbligo di effettiva tutela degli interessi finanziari dell'Unione nei casi di frodi tributarie di rilevante entità altrimenti impunite in un numero considerevole di casi. La tecnica adoperata dal giudice costituzionale italiano, però, è stata diversa e di tipo collaborativo. Infatti, con l'ordinanza 26 gennaio 2017, n. 24, la Corte costituzionale ha a sua volta sollevato nuova questione pregiudiziale, chiarendo, però, che nell’ordinamento costituzionale italiano la prescrizione ha natura non processuale, ma sostanziale, sicché essa è pienamente assoggettata al principio di legalità, non solo con riferimento al divieto di retroattività ma anche alla sufficiente determinatezza della norma relativa al regime di punibilità, dovendo la relativa disciplina essere analiticamente descritta, al pari del reato e della pena, da norme vigenti al tempo di commissione del fatto. Il giudice delle leggi ha quindi affermato che la legalità in materia penale rappresenta, ai sensi dell'art. 25, comma 2, Cost., «principio supremo dell'ordinamento», posto a presidio «dei diritti inviolabili dell'individuo», sicché l’attuazione del dictum della sentenza Taricco si sarebbe risolto in un vulnus che la Corte costituzionale non avrebbe potuto accettare e che avrebbe, pertanto, comportato l’applicazione della c.d. teoria dei controlimiti , con conseguente dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge di ratifica del TFUE nella parte in cui consente l’introduzione nell’ordinamento nazionale dell’obbligo prefigurato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia. Anche la Corte di Giustizia, dal canto suo, ha adottato un approccio dialogante, pronunciandosi con la sentenza della Grande Sezione del 5 dicembre 2017, nella causa C-42/17, M.A.S. , con cui, pur ribadendo la propria precedente ricostruzione, ha specificato che la disapplicazione delle norme sulla prescrizione non deve aver luogo se «comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile, o dell’applicazione retroattiva di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato». La breve rassegna testé riportata non è intesa a giustificare, evidentemente, l’assai criticabile posizione della Corte costituzionale polacca. Tuttavia, lo sforzo del giurista non può che essere anche quello di cogliere, nel mondo in cui è immerso, le linee di sviluppo giuridico. Ora, se è innegabile che negli ultimi decenni vi sia stata un’integrazione sempre maggiore tra ordinamenti nazionali e diritto europeo, ebbene, altrettanto innegabile è che tale integrazione comporti la rottura di consolidati equilibri storici, che vedono in ogni tradizione ordinamentale delle Corti poste a vertice e a chiusura del sistema e a presidio dei valori dell’ordinamento. Ora, il ruolo di tali Corti viene messo in gioco, o forse addirittura in crisi, dalla nuova articolazione multilivello degli ordinamenti , che comporta, altresì, una diversificazione delle forme di tutela dei valori fondamentali. Ciò reca inevitabilmente con sé tentativi di dialogo e momenti di contrasto, alla ricerca di un equilibrio che, per quanto provvisorio come tutte le costruzioni umani, possa essere soddisfacente. Dove possa collocarsi il punto di equilibrio è domanda a cui non è data, al momento, risposta, ma le nuove tappe del percorso non tarderanno ad aggiungersi.
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Diritto e società


Autore: a cura di Federico Smerchinich 11 feb, 2024
La semplificazione e la liberalizzazione amministrativa hanno comportato l’introduzione di strumenti per rendere più snelli i procedimenti amministrativi, consentendo ai privati di ottenere il soddisfacimento dei propri interessi legittimi pretensivi con il semplice decorso del tempo o senza che l’Amministrazione si attivi esplicitamente. Questi strumenti hanno trovato il loro campo di elezione principale nell’ambito dell’ edilizia , dove il legislatore richiede al privato di fornire, già in sede di avvio del procedimento, tutto il "materiale" necessario per consentire la formazione del titolo edilizio indipendentemente dall’attività provvedimentale dell’Amministrazione. Tuttavia, non è sempre facile utilizzare strumenti come la CILA o la SCIA, visti gli orientamenti giurisprudenziali ondivaghi in materia e la poca certezza riguardo alle possibilità e alle tempistiche con cui l’Amministrazione può esercitare poteri repressivi, inibitori o solo sanzionatori. Di recente, la II Sezione del Tribunale amministrativo regionale per la Calabria (Catanzaro), con la sentenza n. 1602 del 2023 ha affrontato alcuni importanti aspetti della materia, con l’obiettivo di portarvi chiarezza, e soffermandosi sui profili che ancora risultano oscuri nella normativa di settore, per fornire infine una soluzione che parrebbe coerente con l’intenzione del legislatore. Tutto nasce quando un condominio presenta al Comune una comunicazione di inizio lavori asseverata (CILA) per l’esecuzione di interventi di manutenzione straordinaria di efficientamento energetico, nell’ambito del cosiddetto superbonus ; la comunicazione viene peraltro dichiarata inefficace dall’ente locale, dato che alcune delle unità abitative interessate dalla CILA sarebbero state prive del titolo edilizio. Successivamente, in sede di autotutela, il Comune riesamina la pratica e conferma la sua precedente determinazione, mostrando così di trattare la CILA come una qualsiasi istanza di avvio del procedimento, sulla quale effettuare un controllo puntuale e correlativo di legittimità. Il condominio decide così di adire il TAR competente, impugnando il provvedimento di diniego, e sostenendo che la presentazione della CILA non richiederebbe alcuna fase di controllo da parte dell’Amministrazione, con la conseguenza che il Comune non disporrebbe di alcun potere inibitorio nei confronti della comunicazione asseverata. Dopo che già in sede cautelare il TAR aveva anticipato il proprio orientamento favorevole alla tesi del privato, secondo cui l’Amministrazione non avrebbe alcun potere inibitorio o repressivo, salvo i casi di edificazione abusiva a cui segue una sanzione, il Giudice di prime cure accoglie il ricorso anche nel merito, cimentandosi in una interessante ricostruzione degli orientamenti giurisprudenziali in materia, che meritano di essere citati per le conseguenze che in concreto possono avere sulle aspettative degli interessati. Secondo la prima posizione ermeneutica, l’attività assoggettata a CILA non solo è libera, come la SCIA, ma non è nemmeno sottoposta a un controllo sistematico da parte dell’Amministrazione, la quale deve solo accertare se l’intervento richiesto sia di modesto impatto sul territorio. Quindi, per semplificare, mentre a fronte della SCIA il Comune ha un potere repressivo, inibitorio, conformativo o di autotutela rispetto alla richiesta fatta con la SCIA stessa, come previsto espressamente dall’ art. 19 l. n. 241/1990 , e nei limiti anche temporali ivi previsti, nel caso di CILA l’Amministrazione può soltanto sanzionare, una volta accertato l’abuso. In altri termini, alla luce di questo orientamento, l’Amministrazione non potrebbe incidere sulla CILA, annullandola o inibendola, ma solamente sull’eventuale abuso conseguente alla comunicazione del privato, sanzionandolo. In quest’ottica, diversamente dalla SCIA, l’Amministrazione potrebbe sempre intervenire per sanzionare l’abuso e reprimerlo, senza limiti di tempo . Secondo un diverso orientamento, la CILA è uno strumento di semplificazione regolato da leggi di settore, ma non dalla legge sul procedimento amministrativo generale. Secondo l’intento legislativo, lo scopo della CILA sarebbe quello di responsabilizzare il privato nel fornire una pratica completa in tutti i suoi elementi ed esente da abusi, con il solo placet del tecnico asseverante. Quindi, il privato risulterebbe in prima persona garante della comunicazione asseverata che presenta. Per questa posizione giurisprudenziale, la CILA avrebbe il difetto di non prevedere un momento di controllo amministrativo, a seguito del quale il provvedimento stesso si stabilizza e trova legittimazione. In altre parole, in questa prospettiva, la CILA avrebbe l'unico effetto di "attirare l’attenzione dell’Amministrazione", esponendo il privato a sanzioni soltanto qualora l’intervento sfoci in un abuso. Sanzioni peraltro precluse allorquando invece, con riferimento alla SCIA, l’Amministrazione non abbia esercitato i poteri repressivi ed inibitori entro i termini di cui all’art. 19 l. n. 241/1990. Così ragionando, pertanto, solo nel caso della CILA il privato rischierebbe di essere esposto senza limiti di tempo ad un eventuale potere amministrativo sanzionatorio, ma siccome tale comunicazione condividerebbe con la SCIA "l'intima natura giuridica”, l'orientamento giurisprudenziale in discorso assimila anche normativamente i due regimi, tanto da ritenere applicabili alla comunicazione asseverata gli stessi limiti di tempo e di motivazione di cui all’art. 19 l. n. 241/1990 in materia di SCIA. Il TAR, nel caso di specie, si distanzia da quest’ultima posizione ermeneutica e conferma la tesi seguita in sede cautelare, aderendo al primo dei due orientamenti rappresentati, secondo cui non vi sarebbe alcun potere di controllo sistematico da parte dell’Amministrazione, ma solo un eventuale potere sanzionatorio a posteriori limitato ai casi di accertamento dell’abuso, senza alcun limite temporale. Secondo il TAR, bisogna cercare le ragioni di tale interpretazione nella scelta del legislatore nel 2016 di prevedere un nuovo regime di interventi edilizi, accanto a quelli già noti della SCIA. Assimilare CILA e SCIA quanto a regime giuridico svilirebbe la differenziazione voluta dal legislatore che, in quel momento storico, voleva creare uno strumento ulteriore e diverso rispetto alla SCIA. Inoltre, la CILA, a differenza della SCIA, richiede un quid pluris , cioè una asseverazione da parte di un tecnico che attesta, sotto la propria responsabilità, la conformità dei lavori richiesti. Proprio questo maggiore onere richiesto al privato dovrebbe, secondo il TAR, trovare una giustificazione nell’assenza in capo all’Amministrazione di un potere sistematico di controllo della CILA. Orbene, il legislatore ha previsto, per il caso di accertamenti non conformi che fanno specifico riferimento alla CILA ancorata al c.d. Superbonus (art. 119 del d.l. n. 34/2020), una serie di sanzioni, pecuniarie e finanche penali, in capo ai soggetti che rilasciano attestazioni e asseverazioni infedeli. Lo scopo sarebbe quello di sostituire il controllo amministrativo a valle, assicurando l’asseverazione a monte. Tanto più che, nel caso di specie, una asseverazione non conforme farebbe venire meno anche i privilegi fiscali derivanti dal superbonus. Dunque, secondo il TAR, il legislatore ha previsto in questo specifico caso poteri repressivi a posteriori sulle attività non conformi attuate, ma non poteri inibitori sulla CILA, dal momento che "nessun cenno viene fatto al potere inibitorio dell’intervento edilizio, né a un possibile intervento in autotutela dell’amministrazione". Secondo il TAR calabrese, dunque, il Comune non avrebbe potuto inibire la CILA presentata dal condominio, avendo rispetto a tale comunicazione soltanto un potere repressivo sugli eventuali abusi edilizi. L’annullamento degli atti impugnati consegue ad una motivazione che si distingue per la chiarezza con cui, in poche pagine, il Collegio giudicante riesce a ricostruire la materia, dando atto dei diversi orientamenti giurisprudenziali esistenti al momento della decisione. La soluzione scelta dal giudice è basata su un percorso logico condivisibile, laddove distingue CILA e SCIA sulla base delle intenzioni legislative e della differente costruzione delle due discipline. Bisogna, infatti, considerare che, nell’ultimo periodo normativo, il legislatore stia sempre più responsabilizzando il privato nella fase di avvio del procedimento, al fine di alleggerire l’attività amministrativa ed evitare una eccessiva burocratizzazione, che sfocerebbe nello svolgere due volte una stessa attività: una prima volta da parte del privato, una seconda da parte dell’Amministrazione. Proprio per questo motivo, come rilevato dal TAR, il legislatore richiede al privato di dotarsi di tecnici in grado di asseverare la comunicazione di inizio lavori, e quindi di dare un rilevante contributo con valenza accertativa alla pratica amministrativa, di modo da ridurre gli oneri a carico dell’Amministrazione. Sarebbe, infatti, un controsenso, rafforzare gli oneri a carico del privato in fase di avvio del procedimento, se, poi, all’Amministrazione sarebbe comunque richiesto di svolgere ulteriori controlli prima della formazione del titolo edilizio. Una scelta a favore dell’asseverazione che è condivisa anche da altre materie, come ad esempio quella dell’affidamento delle concessioni, dove è richiesta la presentazione di piani industriali e piani economico-finanziari asseverati da tecnici e società specializzate. Ciò, per dotare di maggiori garanzie le proposte presentate all’Amministrazione. Di conseguenza, è coerente con il modello amministrativo e normativo che si sta affermando ammettere il controllo amministrativo con funzione inibitoria e repressiva laddove l’attività del privato sia libera, ovvero non supportata da asseverazioni, ma limitare il potere dell’Amministrazione a quello sanzionatorio nei casi di comunicazione asseverata, dove già un tecnico ha dato il suo placet all’attività, assumendosene tutte le responsabilità del caso. L’aspetto che potrebbe sollevare dei dubbi rispetto all’orientamento condiviso dal TAR è che, portandolo alle sue estreme conseguenze, si rischierebbe una deresponsabilizzazione dell’Amministrazione, la quale potrebbe sempre addurre di aver fatto affidamento sull’asseverazione, accertando l’abuso dopo molto tempo ed incidendo sugli interessi del privato quando ormai il bene è stato realizzato e l’interesse pubblico leso. Proprio per tale motivo, sarebbe da valorizzare la questione-tempo , chiedendosi se l’Amministrazione, anche in caso di CILA, non possa rilevare le irregolarità solo entro precisi termini temporali, analogamente a quanto avviene nella SCIA, come indicato dall’orientamento superato dal TAR nella controversia esaminata, e magari assumendo una posizione mediana rispetto alle due diverse impostazioni, quanto meno de iure condendo . In altre parole, pur condividendosi la soluzione scelta dal TAR in questo caso, occorrerebbe valutare se non sia più opportuno fare una sintesi dei due orientamenti e ammettere per l’Amministrazione solo un potere sanzionatorio in caso di CILA, definendone comunque dei precisi termini temporali. Difatti, guardando la questione dal lato del privato, lo stesso rischierebbe di trovarsi dopo molto tempo a poter essere ancora sanzionato a seguito di una lavorazione eseguita in virtù di una comunicazione asseverata consegnata all’Amministrazione e nella disponibilità della stessa. In altre parole, ci si dovrebbe chiedere, nell’ottica della certezza dell'attività amministrativa, se non sia il caso di stabilire che l’Amministrazione possa sanzionare e segnalare l’abuso solo entro un certo periodo di tempo, così da responsabilizzare la stessa P.A. ad agire con il massimo di efficacia e tempestività possibile, pur evitando di attribuirle un vero e proprio potere repressivo ed inibitorio, che, come visto, pare esulare dalle intenzioni del legislatore. Di certo, resta il dato ineludibile secondo cui, a fronte di una maggiore fiducia nell' onestà del privato - e di conseguente "sburocratizzazione" dell'attività da lui avviata - si affievolisce necessariamente l'affidamento che il privato stesso può riporre nel consolidamento della legittimità del suo operato, sulla base del mero trascorrere del tempo, e in conseguenza di un "avallo" che deriva direttamente dall'interessato medesimo, senza alcuna intermediazione amministrativa di convalida .
Autore: a cura di Vittorio Russo, avvocato e consulente parlamentare 02 nov, 2023
PREMESSA Agli albori della nuova legislatura è stato presentato il disegno di Legge costituzionale n. 13 , che prevedeva un solo articolo destinato a modificare l’ articolo 33 della Costituzione , con l’aggiunta, in coda al testo vigente, di una importante affermazione sul riconoscimento del valore educativo, sociale e di promozione del benessere psicofisico, da parte della Repubblica, dell’attività sportiva in tutte le sue forme. Con tale disegno è stata confermata la volontà - già espressa nella passata legislatura e non concretizzatasi per la fine anticipata di essa - di affidare esplicitamente allo Stato il compito di promuovere e diffondere lo sport nella sua specificità, quale essenziale strumento formativo e di crescita individuale. Il 13 ottobre 2022 il disegno di legge è stato presentato alla Presidenza del Senato, il 14 novembre 2022 è stato assegnato alla Commissione Affari Costituzionali e il 12 dicembre successivo l'esame è stato concluso con il passaggio del testo all'Aula per la votazione. Il 13 dicembre 2022 l'Aula del Senato ha approvato in prima lettura con 145 favorevoli, 0 contrari e 4 astenuti il testo di modifica dell'art. 33 della Costituzione. Arriviamo dunque al 20 settembre 2023, data storica per lo Sport italiano . Con la seconda e ultima deliberazione da parte della Camera dei Deputati, è terminato l’iter legislativo per l’approvazione del disegno di legge costituzionale che inserisce lo sport in Costituzione. La Camera ha approvato all’unanimità la modifica all’art. 33 della Costituzione, introducendo il seguente nuovo comma: « La Repubblica riconosce il valore educativo, sociale e di promozione del benessere psicofisico dell’attività sportiva in tutte le sue forme ». Si tratta di un percorso normativo e istituzionale che parte da lontano e di cui si darà conto più avanti. Certamente, si può considerare il tentativo di mettere al centro dei nostri pilastri ordinamentali lo sport nella sua accezione più ampia, riconoscendolo come importante strumento formativo d’integrazione sociale e di diffusione di valori universali positivi, oltre che veicolo di inclusione, partecipazione e aggregazione sociale. [1] Non è un caso che il precetto vada ad inserirsi tra norme costituzionali in materia di salute e in materia di istruzione, accanto a cultura e arte, a dimostrazione della stretta correlazione dello sport con la concezione più moderna di benessere psicofisico integrale della persona. Occorrerà adesso vedere quali e quante conseguenze avrà nell'immediato e nel lungo termine questa riforma - che resta comunque una modifica costituzionale "di contorno" -; da mera dichiarazione di principio la norma programmatica dovrà necessariamente trasformarsi in un forte stimolo per il Legislatore di promuovere attivamente l'attività sportiva (ad esempio valorizzando lo sport nelle scuole e rendendolo accessibile ad alti livelli anche alle categorie sociali più povere), anche per evitare che aumenti il contenzioso nei Tribunali per questioni di legittimità costituzionale su leggi in ambito sportivo, nell'ipotesi in cui il principio dello sport come pratica educativa appaia non rispettato. STORIA E FILOSOFIA DELLO SPORT Ma la prima domanda che occorre porsi è questa: cosa significa l’espressione “attività sportiva”? Cos’è essenzialmente lo sport? Molti studiosi si sono messi alla prova negli ultimi decenni per cercare di comprendere sostanzialmente come è possibile pervenire ad una definizione unitaria o quanto meno oggettiva del termine sport, le sue funzioni sociali ed il suo impatto emotivo-formativo sul progresso generale. Mettersi alla prova significa esplorare spazi mai percorsi, ambiti di speculazione mai oltrepassati, terreni di riflessione poco battuti. Quindi, fino a poco tempo fa si discuteva di una materia che tutti (o quasi) conoscono, che tanti praticano, ma sfuggente dal punto di vista dell'origine ontologica e dunque pure della sua classificazione o caratterizzazione giuridica. In soccorso di chi si è posto " la questione irrisolta dell'esegesi (anche normativa) dello sport " sono giunti, per vie accidentali, innumerevoli trattati di psicologia cognitiva, pedagogia e di biologia evoluzionistica che hanno aiutato enormemente a capirlo e a delineare un quadro concettuale più o meno solido su che cosa intendiamo nella universalità dei casi, quando parliamo dello sport e dei suoi presupposti sociologici. Ma se ci poniamo degli interrogativi sulla base esplicativa dei principi sociali, non possiamo fare a meno di porci delle domande di diritto e delle sue fonti “abiogenetiche”. L'identificazione dello sport come attività che coinvolga le abilità umane basilari fisiche e mentali - esercitandole con costanza per migliorare ed usarle in maniera più proficua - permette di tracciarne un collegamento storico con lo sviluppo dell' intelligenza umana . Già per le civiltà primordiali, l'attività fisica, sia pur priva dei connotati agonistici che l'avrebbero caratterizzata in seguito, era un modo pratico ed utile per approfondire la conoscenza della natura ed applicare una maggiore padronanza su di essa. Il secolare avanzamento civile ha permesso via via la razionalizzazione e dunque la "normalizzazione" di tali manifestazioni fisiologiche istintuali umane. Infine, la contestuale regolamentazione ne ha concluso il processo naturale d'utilizzo, tanto da farne un meccanismo pubblico adattabile a diversi scopi od obiettivi. Si pensi ad esempio alle potenzialità correlate al fatto che la diffusione della pratica sportiva nella maggioranza delle società contemporanee sia indice dell'importanza che la stessa assume in senso educazionale-sociale, ma anche economico-politico, fino al punto da contribuire a cementare la cultura "imperante" di un popolo intero, legandosi indissolubilmente ai "cardini storici collettivi" che la contraddistinguono; forgiare una disciplina che concorra ad affermare la forza identitaria, "interna ed esterna" di uno Stato, serve a definire i confini, con volontà didattiche e talvolta anche con finalità legislative, politiche ed etiche, del c.d. "sport nazionale", appunto. Emblematico il caso dei gloriosi Springboks del rugby per il Sudafrica. Esaminiamone le basi gnoseologiche attraverso l'analisi di una materia che solo da poco suscita la curiosità intellettuale dei ricercatori: la filosofia e la storia dello sport. Una disciplina che indaga il complesso e variegato universo sportivo, cercando di analizzare le implicazioni metafisiche, etico-morali, antropologico-filosofiche, pedagogico-educative e socio-politiche dello sport, inteso come attività antropologica positivistica. Anche se la filosofia dello sport è un settore di studio giovane e ancora in fase di evoluzione, il legame tra sport e filosofia è molto antico e profondo ed è sancito dal comune luogo di origine. L’antica Grecia, infatti, otre ad essere stata il teatro del passaggio decisivo dal mythos al logos, è stata protagonista anche dell’istituzionalizzazione dello sport agonistico, ospitando i Giochi Olimpici antichi fin dal 776 a.C.. Il rapporto tra sport e filosofia non si riduce, però, semplicisticamente alla condivisione del contesto storico di origine, ma affonda le radici nei principi cardine della civiltà greca: l’uguaglianza e la libertà. Proprio per questo possiamo azzardare che la filosofia classica è nata con lo sport; vale a dire con quella cultura “agonale” del dialogo e del confronto equo tra pari che ispirava le antiche competizioni greche. Proprio tra gli antichi filosofi greci possiamo trovare le prime considerazioni di carattere filosofico intorno all’attività fisica, lodata principalmente per il suo grande potenziale educativo e per la sua capacità di favorire uno sviluppo armonico della persona, come conferma questo passo della Repubblica di Platone: « Dopo la musica i giovani vanno formati con la ginnastica […] Bisogna dunque che anche con questa siano accuratamente allevati per tutta la vita, cominciando fin da bambini ». Il barone Pierre De Coubertin era un pedagogista ed uno storico francese, che recepì il mito di Olimpia , integrandolo nel suo progetto educativo universalistico. « Riformatore sociale, mosso da aspirazioni pedagogiche, De Coubertin ha affidato le sue speranze allo sport. Esso gli è parso la scuola delle nazioni moderne ». Il pensatore francese propose di ristrutturare la società e promuovere l’interazione tra paesi e culture diverse attraverso lo sport, elemento innovativo e contemporaneamente antico, trovando ispirazione nel modello greco. De Coubertin, consapevole della vocazione universale, multiculturale ed educativa dello sport, aveva l’obiettivo di allontanarlo da una concezione particolaristica, locale, strumentale, e renderlo occasione di incontro e confronto tra realtà eterogenee e lontane. Il nucleo concettuale dell’Olimpismo è riassunto nella Carta Olimpica , documento ufficiale pubblicato per la prima volta nel 1908 dal Comitato Olimpico Internazionale (CIO), che era stato fondato da De Coubertin nel 1894. La Carta Olimpica, oltre a contenere il regolamento per l’organizzazione dei Giochi Olimpici e l’ordinamento del governo del CIO, presenta i principi fondamentali del movimento, che riassumono l’insieme di teorie e riflessioni che prendono il nome di “filosofia dell’Olimpismo”. Il Movimento Olimpico proponeva di « mettere ovunque lo sport a servizio dello sviluppo armonico dell’uomo, per favorire l’avvento di una società pacifica », dove regnino la pace, la collaborazione, il rispetto reciproco e l’accoglienza delle diversità. Nella Carta Olimpica è esplicitamente affermato che la « pratica dello sport è un diritto dell’uomo » e, dunque, la partecipazione alle competizioni, spazi privilegiati di incontro e di dialogo, ma anche occasioni di festa e di condivisione, deve essere garantita a tutti. L’ Olimpismo ha unito i valori dello sport a quelli della solidarietà, del dialogo, della pace e dell’integrazione, ponendo lo sport stesso come strumento privilegiato per la formazione fisica, morale e sociale. Le riflessioni elaborate in seno al Movimento Olimpico, in particolare quelle relative al ruolo dello sport nella vita individuale e sociale, al dilettantismo, all’atteggiamento agonistico, ai valori che devono animare le competizioni, rappresentano un presupposto irrinunciabile per un qualsiasi tentativo di ricerca in ambito filosofico-sportivo. L’Olimpismo, infatti, non presenta una struttura teorica coerente e sistematica, e proprio per la sua propensione ad inglobare elementi diversi è stato definito eclettico . Lo sforzo di conciliare molteplici sistemi, alcuni apparentemente contraddittori, può generare critiche, ma, forse, proprio la flessibilità filosofica dell’Olimpismo può spiegare il duraturo successo dei Giochi Olimpici su scala planetaria. Dunque, i Giochi Olimpici moderni hanno favorito e accelerato il processo di diffusione e affermazione dello sport, anche a livello popolare, e proprio il passaggio da attività elitaria a fenomeno di massa è stato l’evento che ha fornito l’occasione alla critica per una sfida intellettuale. L’evoluzione dello sport e la sua eccezionale diffusione a livello mondiale, avvenuta tra XIX e XX secolo, hanno stimolato l’interesse degli intellettuali nei confronti della pratica sportiva, sia nella sua dimensione ludico-ricreativa e pedagogico-formativa, sia nella sua declinazione agonistica (dilettantistica, amatoriale e professionistica). Le prime riflessioni intorno allo sport sono arrivate da pensatori appartenenti a diversi settori disciplinari, come quello pedagogico, sociologico e storico, e, in particolare, si sono sviluppate nel contesto della tradizione analitica anglosassone di matrice nordeuropea e nordamericana e nell’ambito della riflessione ermeneutico fenomenologica tedesca. [2] In questo clima culturale, si creano i presupposti per l’elaborazione della filosofia dello sport, la cui nascita si fa coincidere con la pubblicazione, nel 1969, dell’opera di Paul Weiss, Sport: A philosophic Inquiry . Weiss, professore di Filosofia all’università di Yale, è stato uno dei primi pensatori contemporanei a sottolineare la necessità di una riflessione filosofica intorno allo sport e a contribuire alla diffusione di questa “nuova” disciplina. Weiss, infatti, è stato anche il primo presidente della International Association for the Philosophy of Sport ( IAPS ), fondata nel 1972 . Le riflessioni di Weiss intorno alle tematiche sportive hanno contribuito a dare quasi immediata credibilità allo studio filosofico dello sport, ponendo le basi per le maggiori linee di ricerca: la definizione di sport, il rapporto tra mente e corpo, le potenzialità formativo-pedagogiche dell’attività sportiva, la relazione tra dilettantismo e agonismo e il ruolo delle donne nello sport. L’istituzione della IAPS è stata seguita dalla nascita del Journal of the Philosophy of Sport nel 1974, nonché dalla fondazione delle prime due società nazionali di ricerca della materia: la Japanese Society for Philosophy of Sport and Physical Education , nel 1978, e la British Philosophy of Sport Association nel 2002. Grazie alle iniziative e all’impegno della IAPS, la filosofia dello sport è stata inserita nei programmi di studio di diverse facoltà di Scienze Motorie, soprattutto in Università nordamericane e inglesi, e ha avuto una grande diffusione. Nonostante ciò, la filosofia dello Sport non ha raggiunto ancora una vera e propria autonomia e non è riuscita a sganciarsi dall’influenza di altre discipline, in particolare dalla pedagogia, che anzi tende a inglobarla nuovamente nel suo ambito. La IAPS è il nucleo centrale di questo processo, protagonista dell’organizzazione di conferenze e meeting in Nord America e in Europa, primi fra tutti l’ International Congress on Sport Science and Physical Education e il Congresso Mondiale di Filosofia dello sport . Alla fine degli anni Ottanta risalgono, invece, le prime opere atte a sistematizzare la disciplina e i vari ambiti di ricerca, soprattutto con l’obiettivo di fornire una guida introduttiva agli studenti. [3] Negli studi condotti in ambito politico-sportivo si colloca l’analisi di problemi sociali e educativi come la discriminazione, la pace, il dialogo interculturale, il rapporto tra uomo e ambiente, i principi della solidarietà, della reciproca comprensione e del fair play . L’ambito etico è senza dubbio la sfera di studio privilegiata dagli studiosi di filosofia dello sport, che si concentrano su questioni come il doping, l’inganno, la violenza, il rischio dell’abuso di nuove tecnologie (bioetica). In questo campo di ricerca devono essere discussi i confini tra legalità e moralità nello sport; gli effetti e le conseguenze di pratiche illecite/immorali sia sulle persone sia sullo sport stesso; la validità dei fini e degli obiettivi; la delimitazione delle responsabilità delle varie figure coinvolte; la valutazione del rischio di traumi e infortuni. L’ etica dello sport si occupa, inoltre, di analizzare le implicazioni economiche dell’attività sportiva, ormai coinvolta nel processo si mercificazione che interessa i vari ambiti della società contemporanea. In tale contesto, l’essenza dello sport è stata snaturata dalla spasmodica ricerca della prestazione e dei record disumani, inquadrata in un’ottica del profitto ottenibile con ogni mezzo. Infine, un tema a metà strada tra la dimensione socio-politica e la dimensione etico-morale è sicuramente quello relativo all’educazione, dato il potenziale pedagogico riconosciuto allo sport, difficile da gestire e preservare dalle contaminazioni del professionismo e della ricerca esasperata del risultato. Di fronte alle questioni poste dalla pratica sportiva è evidente la necessità di un ripensamento dello sport, di uno sforzo di comprensione, che parta dalle discipline umanistiche (ed in particolare dalla filosofia), volto alla ricerca del valore umano dello sport. Se nel contesto accademico anglosassone e americano, la filosofia dello sport sembra essere in continuo sviluppo, in altre realtà accademiche l’evoluzione di questa disciplina è molto lenta e faticosa, se non addirittura completamente bloccato. [4] D’altra parte, un dialogo tra sport e filosofia non è solo possibile ed auspicabile, ma assolutamente necessario per osservare lo sport da una prospettiva diversa e fornire un’interpretazione razionale di un fenomeno unico e travolgente, ma sempre più a servizio della realtà economica e commerciale. ORGANIZZAZIONE SPORTIVA E ORDINAMENTO. RIFLESSIONI CONCLUSIVE Sotto l'aspetto istituzionale, e dunque quello giuridico-legislativo, l'organizzazione sportiva internazionale è una costruzione articolata e complessa dove si intersecano e si intrecciano le competenze dei soggetti che la compongono, i quali, comunque, perseguono fini propri. La caratteristica originale che contraddistingue tutta la costruzione è quella che vuole gli organi direttivi, ai diversi livelli, 'eletti' dai propri amministrati e non piuttosto 'nominati' da potentati politici o da lobby economiche. Altra peculiarità, rispetto ad altre strutture extranazionali (ONU, UNESCO, OMS, FAO ecc.), riguarda l'assoluta mancanza di sovvenzioni per gli organismi sportivi internazionali. Questi devono procurarsi i mezzi per operare e realizzare i compiti istituzionali tramite i ritorni economici della propria attività, i cui principali flussi viaggiano sul doppio binario delle sponsorizzazioni e delle concessioni televisive. L' organizzazione sportiva internazionale può essere paragonata a un edificio piramidale, il cui vertice è rappresentato dal Comitato olimpico internazionale . A partire da questo, scendendo, si hanno i Comitati organizzatori dei Giochi Olimpici, i Comitati olimpici nazionali, le Federazioni sportive internazionali, le Federazioni sportive nazionali, le Società sportive e infine la solida base costituita dagli atleti (a fianco dei quali operano i tecnici e i giudici). L'insieme di tutti questi soggetti costituisce il Movimento Olimpico. Secondo quanto previsto dalla Carta Olimpica (la completa raccolta dei principi cui devono conformarsi tutti gli aderenti e la cui ultima versione è stata elaborata nel corso della Sessione del CIO tenutasi l'11 dicembre 1999), l'obiettivo principale che il Movimento Olimpico persegue è la costruzione di un mondo migliore, " educando i giovani alla pratica sportiva senza discriminazione e nel segno dell'ideale olimpico che pretende amicizia, solidarietà e fair play ". In base a tali dettami, l'olimpismo può essere definito come una filosofia di vita, in grado di esaltare, combinandole, le migliori qualità del corpo, della volontà e dello spirito. Per di più, esso pretende di essere 'internazionale e democratico' rifiutando ogni forma di disparità o di preclusione, sia tra le diverse discipline sportive sia tra i singoli praticanti. [5] All'universo sportivo che non fa riferimento al Movimento Olimpico appartiene lo sport di squadra statunitense di matrice professionistica (quello di natura olimpica si inquadra, di norma, nell'ambito delle high schools e delle università). Si tratta di un fenomeno del tutto particolare che, pur muovendo grandi interessi sportivi ed economici, resta per lo più racchiuso entro i confini nazionali degli Stati Uniti. Organizzato con ferree logiche di mercato (gli stipendi ai giocatori non superano in nessun caso il 55% del fatturato, vale a dire ammontano a circa il 10-15% in meno di quanto percepiscono i calciatori professionisti europei) e sostenuto da un larghissimo favore popolare, gode di enormi profitti derivanti, per lo più, dai diritti delle riprese televisive e dalla commercializzazione dei marchi. [6] Ben più arretrata è l'organizzazione dello sport italiano invece, che attualmente, in attesa di una 'Legge-quadro' di riordino generale della materia, annunciata da decenni da governi di ogni tendenza ma mai concretamente perseguita, vede ancora il CONI in posizione di centralità rispetto alle altre realtà che agiscono nel microcosmo sportivo nazionale: Federazioni sportive, enti di promozione, enti locali, scuola, forze armate ecc.. La struttura si configura dunque come una costruzione virtuale al vertice della quale opera il CONI, mentre la base è costituita dalle circa 70.000 società sportive. In posizione mediana si pongono le Federazioni nazionali che fungono da raccordo fra CONI e società sportive. Non è quindi sorprendente che proprio sul CONI si siano appuntate, a più riprese, le attenzioni del legislatore, a partire dal 16 febbraio 1942, quando venne decretata la legge istitutiva dell'organismo ( Legge 426/42 ), che ne definiva i compiti e ne sanciva l'ordinamento quale 'Federazione delle Federazioni sportive', concentrando in esso tutta l'attività sportiva italiana, a qualunque livello e titolo svolta (anche se il regolamento di attuazione sarebbe stato emanato più di quarant'anni dopo, con il d.p.r. n. 157 del 28 marzo 1986 ). Nel merito, la legge imponeva al CONI di " incrementare e proteggere l'olimpismo e lo sport dilettantistico, nonché di incoraggiare e sviluppare l'educazione fisica, morale e culturale della gioventù del paese per migliorarne il carattere, la salute e il senso civico ". Negli ultimi anni della sua trentennale gestione, il CONI subì però gli effetti frenanti della Legge. n. 70 del 20 marzo 1975 che lo inserì quale 'ente preposto ad attività sportive' nel riordino del Parastato , inceppandone la funzionalità amministrativa, sino ad allora caratterizzata da notevole dinamismo e autonomia (si ricordino, al riguardo, le due edizioni dei Giochi Olimpici di Cortina del 1956 e di Roma del 1960, organizzate quasi integralmente a carico del CONI e con il ricorso a modesti contributi pubblici). Di fatto, l'ingresso del CONI nel comparto parastatale innescò una spirale di successive riforme e di parziali interventi legislativi che, alla lunga, hanno finito con il modificare il quadro originario, riducendo progressivamente la capacità imprenditoriale dell'intero settore sportivo. Malgrado le notevoli disponibilità prodotte dal Totocalcio negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta, per il CONI e le Federazioni i tempi nuovi imponevano esigenze di ammodernamento, purtroppo disattese dai vertici che si sono avvicendati nel corso degli anni. Tra le opportunità mancate, al primo posto figura l'improvvida cessione, avvenuta nel 1996, del concorso Enalotto (la cui gestione era stata inizialmente affidata al CONI), trasformato da altri soggetti nel ricchissimo SuperEnalotto, con un disastroso effetto boomerang sugli stessi concorsi Totocalcio. Le trasformazioni in atto nella pratica sportiva, pur con gli squilibri tra sport olimpico e sport professionistico, imponevano comunque un riordino della intera materia che, mancata dagli 'sportivi', venne affrettatamente imposta dai 'politici' con una riforma legislativa che si può ritenere non ancora conclusa. Il primo atto è stato il Decreto Legislativo del 23 luglio 1999, n. 242 , emanato dal ministro Melandri, che abrogava la legge del 1942. Nelle intenzioni del legislatore esso avrebbe dovuto dare attuazione al riordino del CONI, introducendo nelle 'stanze' del potere sportivo una consistente rappresentanza dei tecnici e degli atleti, in quota non inferiore al 30% dei componenti dei consigli di amministrazione delle Federazioni e dello stesso CONI. Nello stesso tempo, i presidenti delle Federazioni, cui era stata da sempre affidata la gestione collegiale del CONI, venivano allontanati dagli organi direttivi. In buona sostanza, il provvedimento, se non avviò a soluzione i problemi dell'intera organizzazione, produsse l'effetto deleterio di tranciare di netto il legame che per novant'anni e con successo aveva caratterizzato il rapporto tra CONI e Federazioni. [7] Come atto conclusivo, il CONI si vedeva costretto a elaborare un nuovo Statuto (predisposto il 26 gennaio 2000 dalla riunione n. 166 del suo Consiglio nazionale), approvato con d.m. del 19 aprile 2000 e in via definitiva con d.m. del 28 dicembre 2000. In base al dettato di riordino, gli organi centrali del CONI (che durano in carica quattro anni) sono attualmente: Consiglio Nazionale, Giunta Nazionale, Presidente, Segretario Generale, Comitato nazionale dello sport per tutti, Collegio dei revisori dei conti. Completano la struttura gli organi periferici, che sono i 20 Comitati Regionali, i 104 Comitati Provinciali e i Fiduciari locali. Dopo il d.l. n. 242, un successivo intervento legislativo ( d.l. 8 luglio 2002, n. 138 , emanato dal ministro dell'Economia e delle Finanze Tremonti), ha affiancato al CONI una società per azioni ‒ 'CONI Servizi spa' ‒ con il compito di gestire tutte le sue attività economiche: impianti, immobili, personale ecc.. Di competenza del CONI 'pubblico' restano i compiti conformi ai principi dell'ordinamento sportivo internazionale: preparazione olimpica, indirizzo e controllo delle Federazioni, diffusione della pratica sportiva, prevenzione e repressione del doping. Nello stesso tempo è stata decisa la ridefinizione, a partire dal 1° luglio 2003, anche degli scenari economici: la gestione dei concorsi Totocalcio e assimilati passò dal CONI all'Agenzia dei Monopoli dello stesso Ministero dell'Economia, il quale contribuirà al finanziamento con una quota parte degli incassi, da stabilire secondo appositi 'piani industriali', il primo dei quali predisposto dal CONI per il triennio 2003-2005. Il vento del cambiamento in atto ha investito anche gli organismi di base dello sport nazionale: le società, sia professionistiche (quelle di calcio in prima fila) sia dilettantistiche. Per il settore professionistico (già interessato dalla l. n. 91 del 23 marzo 1981) un primo intervento è stato l'emanazione della L. 18 novembre 1996, n. 586 , che sanciva il 'fine di lucro' per le società sportive professionistiche, consentendo loro di trasformarsi in società di capitali. Da tale provvedimento dovevano principalmente trarre vantaggi (anche tramite la possibile quotazione in borsa) i 38 club calcistici di serie A e B, ma i possibili effetti sono stati vanificati da una dissennata gestione economica che, malgrado un aumento esponenziale delle risorse provenienti dalle TV, ha creato in otto anni un indebitamento collettivo superiore a 1.300 milioni di euro, così elevato da convincere il Parlamento ad approvare, nel febbraio 2003, un decreto che consentiva alle stesse società di rateizzare in 10 anni di bilancio la svalutazione del proprio patrimonio. Ma tutto questo susseguirsi di norme che facevano gli interessi "di quella o questa bottega" mancavano di una "visione" più complessa, più profonda; mancava in particolare un riconoscimento legislativo ordinamentale che rappresentasse sintesi e peso valoriale specifico in termini di principi culturali intoccabili ed immodificabili. L'attuale maggioranza ha inteso disciplinare finalmente l'annosa questione giuridico-culturale. Sulla base di un assunto di principio che ha trovato largo consenso parlamentare, che si è erto su tale pilone concettuale: " Lo sport in tutte le sue forme, praticato a livello agonistico e dilettantistico, rappresenta un importante strumento formativo d’integrazione sociale e di dialogo culturale, nonché un volano per la diffusione di valori fondamentali quali la lealtà, l’impegno, lo spirito di squadra e il sacrificio. La diffusione della pratica sportiva nel mondo contemporaneo è il segno evidente dell’importanza che lo sport ha assunto anche da un punto di vista civile, sociale e culturale. " Per anni nella Costituzione italiana l’unico riferimento allo sport è stato posto all’ articolo 117 comma 3 , che inseriva l’Ordinamento Sportivo (già presente nella legislazione ordinaria) tra le materie di legislazione concorrente . La Costituzione non annoverava però alcun riferimento specifico all’attività sportivo-agonistica o allo sport in generale. L’idea di inserire lo sport all’interno della nostra Carta Costituzionale arriva tuttavia da lontano. Già nel 2009 (XVI legislatura), con la proposta di legge dell’on. Di Centa (campionessa olimpica) come prima firmataria, si sottopose il tema all’attenzione delle Camere. Successivamente, sia durante la XVII che la XVIII legislatura, sono state presentate delle proposte di legge col medesimo intento, senza riuscire a scalfire il fortino armato dell'indifferenza alla "istituzionalizzazione" dello sport, che bombardava sistematicamente la necessità o quanto meno l'importanza dell'intervento in Costituzione. Possiamo certamente dire che lo Sport in Costituzione rappresenta la prima tappa di un percorso che concentra, in poche parole, un significato profondo e un valore inestimabile, che possiamo sintetizzare nell'auspicio dello ‘ sport per tutti e di tutti ’, parte delle indispensabili ‘difese immunitarie sociali’ e importante contributo per migliorare la qualità della vita delle persone e delle comunità. Dentro questa sintesi c'è tutta la forza programmatica delle attività che dobbiamo svolgere, a ogni livello e nel rispetto dei ruoli, per trovare un equilibrio tra la soddisfazione delle vittorie, che spesso rappresentano l'unico metro di valutazione dell'efficienza del sistema sportivo, e l'allargamento della base dei praticanti e, comunque, l'aumento del beneficio di fare attività motoria, di promuovere la cultura del movimento, che invece nel nostro Paese non è stata ancora pienamente garantita. La Costituzione da oggi riconosce il valore e determina un diritto in astratto indispensabile, ma sarà responsabilità precipua della classe dirigente, quella politica, ma anche quella sportiva, trasformare il riconoscimento del valore in un diritto sostanziale, da garantire a tutti, partendo dalle persone più in difficoltà e dalle periferie urbane e sociali. Dunque, la norma di rango costituzionale in questo caso ha reso corpo materiale non strumentalizzabile, ha obiettivizzato in concezione "assoluta" la definizione di sport. In tutta sostanza, ha sanato un vulnus , ha coperto un vacuum iuris più che una vacatio . Ne ha rafforzato i connotati, ne ha solidificato i confini, ne ha cristallizzato le ambizioni e gli orizzonti. Meglio tardi che mai, verrebbe da dire. L'auspicio è che tale fonte normativa, ancorandolo, assicurandolo a bene giuridico di misura costituzionale, serva a tutelarlo, a proteggerlo da una cultura dell'antisportività dilagante nel nostro Paese, spesso sostenuta da presunti professionisti della materia. Ma questa è un'altra storia, che merita un approfondimento a parte. [1] A livello europeo la normativa è sempre più protesa a dare rilevanza allo sport, strumento di contrasto di tutte le forme di esclusione sociale, riconoscendo un’intima connessione tra sport e diritti sociali, cioè quei diritti che sono di interesse della collettività. In questo senso è orientato il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea che, all’articolo 165, afferma che « L’Unione contribuisce alla promozione dei profili europei dello sport, tenendo conto delle sue specificità, delle sue strutture fondate sul volontariato e della sua funzione sociale ed educativa » e, con la sua azione, mira tral’altro a « sviluppare la dimensione europea dello sport, promuovendo l’equità e l’apertura nelle competizioni sportive e la cooperazione tra gli organismi responsabili dello sport e proteggendo l’integrità fisica e morale degli sportivi, in particolare dei più giovani tra di essi » [2] Lo storico olandese Johan Huizinga è stato uno dei primi pensatori ad affrontare questo argomento nella celeberrima opera Homo Ludens e si è interrogato sulla natura della relazione esistente tra gioco e sport. In un capitolo, intitolato Gioco e gara come funzioni creatrici di cultura, Huizinga analizza il rapporto tra sport e gara, tra gioco e agon , chiedendosi in prima istanza se la competizione possa essere considerata un gioco e, dopo aver risposto affermativamente a tale interrogativo, si concentra sulle caratteristiche dell’agon, categoria nella quale rientrano anche i giochi sportivi. Vent’anni dopo, anche il sociologo francese Roger Caillois, nell’opera I giochi e gli uomini, include lo sport nella sua classificazione delle pratiche ludiche, confermando l’esistenza di un rapporto molto stretto tra gioco e sport. Nel 1967 viene pubblicato dal filosofo Bernard Suits l’articolo What Is a Game? , seguito nel 1988 da The Tricky Triad : Games, Play and Sport, dove l’autore analizza più da vicino i punti di contatto tra gioco e sport, delineando i contorni della pratica sportiva agonistica e non. Sempre nel 1967 Howard Slusher collega la riflessione sul fenomeno sportivo all’Esistenzialismo nel testo Man, Sport and Existenc e, fornendo alla filosofia dello sport uno strumento determinante per lo sviluppo successivo: gli approcci fenomenologico ed esistenzialista saranno tra i più usati dai pensatori dediti alle ricerche sullo sport. [3] A tale proposito occorre citare il contributo dato dal testo di William J. Morgan e Klaus Meier, Philosophic Inquiry in Sport. , pubblicato nel 1988. Da questi studi emergono tre settori principali della filosofia dello sport: metafisico, politico ed etico. L’obiettivo fondamentale delle ricerche metafisiche è stabilire quali sono il senso e il ruolo dello sport nell’esistenza umana, soprattutto in quanto attività ludica e agonistica. Alla riflessione metafisica appartengono anche la questione relativa alle regole, che avranno un risvolto importantissimo in ambito morale e sociale; la complessa questione mente-corpo; il rapporto tra sport e arte. [4] In Italia, per esempio, nonostante la presenza del Professor Emanuele Isidori, che è uno dei più importanti filosofi dello sport a livello mondiale, le ricerche e gli studi in questo ambito non sono molto sviluppati. Come afferma lo stesso Isidori, la ricerca filosofico-sportiva in Italia è stata rallentata in primo luogo dalla presenza di una tradizione idealistica fortemente improntata all'apoteosi del particulare , che ha contribuito a creare un clima di diffidenza verso i temi della corporeità e della pratica sportiva; in seconda istanza, dall’assenza di un approccio scientifico allo sport in ambito accademico, dato che la facoltà di Scienze motorie in Italia è stata istituita nel 1998, mentre nel resto d’Europa già esistevano dei curricula universitari specializzati nello sport. [5] Il CIO fu fondato alla Sorbona nel corso del Congrès International Athlétique de Paris , in programma dal 16 al 23 giugno 1894. Al congresso presero parte una decina di membri del comitato promotore e 78 delegati in rappresentanza di 37 organismi sportivi, in massima parte francesi. Gli stranieri, provenienti da otto paesi, non furono più di una ventina. Tra loro figurava il trentaquattrenne conte napoletano Ferdinando Lucchesi Palli (1860-1922), un diplomatico che si trovava a Parigi come viceconsole del Regno e che divenne il primo membro italiano del CIO, anche se non restò in carica più di tre mesi: tanto bastò, tuttavia, a fare dell'Italia uno dei paesi fondatori dell'organismo internazionale. [6] Gli sport coinvolti sono i quattro più seguiti dall'americano medio: la pallacanestro (organizzato nella National basket association), lo hockey su ghiaccio (nella National hockey league), il baseball (nella Major league baseball) e il football americano (nella National football league). I criteri sportivi sono più o meno analoghi. Le squadre vengono ammesse nelle Leghe in base a severi parametri che privilegiano sostanzialmente la solidità economica. Non ci sono retrocessioni e l'acquisto dei giocatori risponde a precise regole tendenti a non sfavorire i club meno ricchi e, di conseguenza, a mantenere un sostanziale equilibrio sportivo. Lo svolgimento dei campionati, considerata la dimensione del paese, si articola in sezioni geografiche ( conferences o divisions ) con finali nazionali disputate con il sistema dei play-off. I club appartengono di norma a importanti imperi economici. Un parametro significativo per comprendere l'entità finanziaria posta in gioco è fornito dagli stipendi annui percepiti dai migliori giocatori di basket, quasi mai inferiori ai 20 milioni di dollari. [7] Il decreto era stato emanato in virtù della delega contenuta nell'art. 11 della l. 15 marzo 1997, n. 59 (cosiddetta 'Legge Bassanini'), la quale affidava al governo il compito di riordinare gli enti pubblici operanti in settori diversi, imponendogli di trasformare in associazioni di diritto privato gli enti per il cui funzionamento non appariva necessaria la personalità di diritto pubblico. In tal modo il fenomeno della privatizzazione investiva il comparto pubblico dell'organizzazione sportiva, con la conseguenza di trasformare le Federazioni da organi del CONI in associazioni di diritto privato. Contemporaneamente veniva confermata la personalità giuridica di diritto pubblico del CONI, che passava sotto la vigilanza del Ministero per i Beni e le attività culturali, con la conseguente sottrazione delle funzioni di vigilanza sullo sport alla Presidenza del Consiglio dei ministri. A seguito di tale trasformazione il CONI poteva definirsi ente pubblico costituito da 'persone giuridiche private'.
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Sistema giustizia


Autore: a cura di Silvana Bini 18 mar, 2024
PREMESSA (a cura di Roberto Lombardi) Si potrebbe dire che il Comune di Milano cerca disperatamente di contenere i danni derivanti dalla modernità, di cui pure rappresenta un avamposto, difendendosi con uno strumentario giuridico tutto da definire. La morte nell’agosto dello scorso anno di una giovane di 28 anni colpita da un camion, mentre percorreva in bicicletta una strada centrale in città, ha scosso la collettività e si è incasellata in coda ad altre tragedie simili e recenti. La bicicletta è finita sotto le ruote del Tir e nonostante i rapidi soccorsi le lesioni subite dalla ciclista sono risultate fatali. Inevitabile l’aumento della polemica per l’assenza di sicurezza in città, anche per ciò che riguarda la circolazione stradale. Prima ancora, nel 2023, le cronache ci raccontano di altri quattro episodi mortali che hanno coinvolto ciclisti: una mamma di 38 anni falciata in Piazzale Loreto, una sua coetanea schiacciata sotto un mezzo pesante davanti alla centralissima biblioteca Sormani, un operaio di origini cinesi trascinato per centinaia di metri da un camion mentre si recava a lavoro e una signora più in là con gli anni investita da una betoniera. A fronte di questi accadimenti oggettivi, uno studio del Politecnico di Milano ha indicato, in via generale, un preoccupante incremento del tasso di incidentalità ciclistica nella città negli ultimi anni. E il Comune come ha deciso di arginare questa scia abbastanza impressionante di morti? Tanto per cominciare, un tavolo tecnico con invito “allargato” sul tema della sicurezza stradale e della visibilità limitata dei conducenti dei veicoli pesanti. Successivamente, un’istruttoria che ha portato a una deliberazione di Giunta comunale e a un’ordinanza sindacale nel luglio del 2023. Risultato: divieto di circolazione in città dal lunedì al venerdì (nei confini della cosiddetta area B) e dalle 7.30 alle 19.30 per i veicoli di categoria M2, M3, N2 e N3 (mezzi pesanti e pesantissimi) che non siano muniti di adesivi di segnalazione dell’ angolo cieco (cioè la porzione del campo visivo nascosta al guidatore) e di sistemi avanzati capaci di rilevare la presenza di pedoni e ciclisti e di emettere un segnale sonoro di allerta. Lo strumento giuridico utilizzato, posta l’esistenza di un Regolamento UE che ha già reso obbligatorio per un certo tipo di veicoli “pericolosi” l’equipaggiamento con sistemi avanzati di sicurezza alla guida, è stato quello del sempre verde codice della strada , in particolare l’ art. 7, comma 9 di tale complesso normativo. Secondo questa disposizione, i Comuni, con deliberazione della Giunta, provvedono a “delimitare” le aree pedonali e le zone a traffico limitato tenendo conto, tra l’altro, degli effetti del traffico sulla sicurezza della circolazione. E’ lo strumento giusto? Lo hanno chiesto alcune imprese di trasporti con un ricorso al TAR. Secondo i Giudici di primo grado non lo è, secondo il Giudice di appello lo è. Resta però una considerazione amara. Dall’istruttoria effettuata dall’amministrazione comunale meneghina l’incidenza causale dell’aumento delle morti di ciclisti sarebbe da attribuire essenzialmente a due fattori: la diffusione senza precedenti dell’uso, in ambito urbano, di mezzi di trasporto più agili e meno inquinanti, ma anche meno sicuri per il conducente, di quelli tradizionali ( biciclette e monopattini ), come conseguenza delle politiche per il contrasto all’inquinamento atmosferico e per favorire il distanziamento sociale da pandemia; il rilevante incremento in ambito urbano della circolazione di mezzi d’opera diretti ai diversi cantieri aperti nei condomini a seguito dell’introduzione dei bonus edilizi . In altri termini, i mezzi di contrasto alla crisi sociale ed economica determinata da alcuni importanti mali moderni (in particolare, pandemie e inquinamento) avrebbero generato un conflitto mortale sulle sedi stradali. L’angolo cieco della modernità, verrebbe da dire sorridendo, se non fosse per la realtà delle singole tragedie umane. IL TIR E L'ELEFANTE (a cura di SIlvana Bini) Il Comune di Milano, con la nobile finalità di prevenire incidenti spesso mortali, in cui sono coinvolti i c.d. utenti deboli della strada, ha adottato una serie di disposizioni, in base alle quali alcune categorie di veicoli (che in questa sede chiameremo, per semplificare, TIR) devono dotarsi di un sistema di rilevazione, che sia in grado di segnalare la presenza di pedoni e ciclisti in coincidenza con il cd. angolo cieco , cioè la fascia spaziale che sfugge alla visibilità da parte del guidatore. In assenza di detti dispositivi i veicoli ingombranti di categoria M2, M3, N2 e N3 non possono circolare nelle aree B e C, istituite dal Comune ai sensi dell’art. 7, comma 1, lett. b) del d.lgs. n. 285 del 1992, ai fini di limitare la circolazione nel centro abitato. Il divieto è circoscritto a determinate fasce ore dei giorni feriali e oggetto di parziali deroghe. Quasi contemporaneamente, nella gestione concreta di una vicenda certamente più “leggera”, l’amministrazione comunale meneghina si è dovuta occupare, nell’ambito del rilascio dell’autorizzazione a detenere animali al fine di potere svolgere una manifestazione circense, della rimozione di alcune criticità connesse alla detenzione e alla custodia degli animali, e in particolare della necessità, per lo svolgimento della manifestazione circense, che non fosse detenuto “in solitaria” un singolo elefante. La vicenda giudiziaria conseguente a quest'ultima fattispecie viene approfondita in altro articolo di questo sito. L’elemento comune dei due casi sembra essere, a una prima superficiale analisi, quello del divieto sia per l’elefante che per i Tir di entrare nel territorio comunale o in alcune parti di esso, ma in realtà, anche ad osservare le vicende giudiziarie che si sono sviluppate in seguito, il vero trait d’union è rappresentato dal fatto che in ambo i casi si pone un problema di potere normativo/regolamentare del Comune. Quanto alla questione della circolazione dei TIR in città, Il Tar ha accolto il ricorso, riconoscendo l’incompetenza del Comune ad adottare gli atti adottati, e ritenendo al contrario che vi fosse la competenza degli organi statali, trattandosi di circolazione stradale. Il Tribunale ha premesso che “ la disciplina della circolazione stradale corrisponde ad una pluralità di competenze legislative esclusive dello Stato, tra le quali primeggia l’ordine pubblico e la sicurezza (art. 117, secondo comma, lett. h Cost.), in ragione della finalità di prevenire reati colposi afferenti all’impiego dei veicoli. In aggiunta, e a seconda degli scopi dell’intervento di volta in volta spiegato, si profilano le competenze legislative esclusive statali in tema di ordinamento civile (art. 117, secondo comma, lett. l Cost.) e di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema (art. 117, secondo comma, lett. s Cost.). come da giurisprudenza costituzionale costante a partire dalla sentenza n. 428 del 2004 (in seguito, sentenze n. 223 del 2010; n. 77 del 2013; n. 129 del 2021; n. 69 del 2023). Ne consegue che compete alla fonte primaria statale non soltanto disciplinare la materia, ma anche allocare le relative funzioni amministrative al più idoneo livello di governo, secondo i criteri di cui all’art. 118 Cost. ”. Il Tribunale ha ricordato poi che è il codice della strada che ha demandato agli organi centrali l’omologazione e l’approvazione sia dei dispositivi di controllo e regolazione del traffico (artt. 45 del d.lgs. n. 285 del 1992; art. 192 del regolamento di esecuzione n. 495 del 1992), sia dei dispositivi ulteriori di marcia, che la normativa dello Stato elenca in modo non tassativo, posto che compete al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti imporne di “supplementari” (art. 72, comma 6, del d.lgs. n. 285 del 1992). Proprio questa norma introdurrebbe una clausola generale di chiusura che non prevede alcuna competenza regolatoria in capo ai Comuni, così come non vi sarebbe alcuna previsione statale che consente ai Comuni l’esercizio di una potestà amministrativa in materia di circolazione stradale. Da sottolineare come nella sentenza siano ben definite le competenze di Stato, Regioni e Comune. Lo Stato ha competenza esclusiva in materia di circolazione stradale, in cui rientra l’omologazione e l’approvazione dei dispositivi di controllo e regolazione del traffico (artt. 45 del d.lgs. n. 285 del 1992; art. 192 del regolamento di esecuzione n. 495 del 1992). “ Ove anche possa profilarsi uno spazio di intervento per il legislatore regionale nell’ambito della tutela della salute (art. 117, terzo comma, Cost.), esso non può spingersi fino all’approvazione di strumenti di regolazione e marcia che non siano stati oggetto di intesa con i competenti organi statali (Corte costituzionale, sentenza n. 69 del 2023, in relazione alla legge lombarda n. 8 del 2022) ”. L’art. 7, comma 1, lett. b) del d. lgs. n. 285 del 1995, sul quale si è basata l’azione del Comune di Milano, permette invece all’ente locale di istituire aree a traffico limitato nei centri abitati (aree B e C di Milano nel caso di specie) per “ esigenze di prevenzione degli inquinamenti e di tutela del patrimonio artistico, ambientale e naturale ”. Non può essere quindi questa norma, sulla quale secondo i Giudici di primo grado si sarebbe basata l’azione del Comune di Milano, ad abilitare un potere di intervento in materia di sicurezza pubblica e privata. Infatti un dispositivo volto a scongiurare incidenti in danno di pedoni e ciclisti risponde ad un’esigenza di ordine pubblico e sicurezza, del tutto estranea a componenti incidenti sull’ambiente e i beni culturali. Il TAR ha poi escluso che la competenza del Comune possa fondarsi sul regolamento n. 2019/2144/UE , il cui art. 4, paragrafo 5, prescrive che i veicoli di categoria M, N e O (art. 2) possano essere immatricolati solo se dotati, a partire dal 7 luglio 2024 (data rinvenibile nell’Allegato II), di dispositivi a tutela degli “utenti vulnerabili della strada”, tra i quali “ciclisti e pedoni” (art. 3, n. 1). L’attuazione del diritto dell’Unione spetta, infatti, al livello di governo individuato dagli Stati membri, salvo casi peculiari estranei alla presente questione (Corte costituzionale, sentenza n. 126 del 1996). Pertanto, non potrà che essere la normativa statale a determinare gli organi deputati ad assicurare l’effettività delle prescrizioni unionali recate dal regolamento prima citato, e dal regolamento delegato della Commissione n. 2022/1398/UE. Il Giudice d’appello non ha però condiviso la linea interpretativa del TAR; e ha riformato la sentenza di primo grado, con una decisione che ha preliminarmente individuato un'altra fonte normativa del potere esercitato dal Comune di Milano. Non l'art. 7, comma 1, ma l’ art. 7 comma 9 del d. lgs. n. 285 del 1992 , espressamente richiamato nella deliberazione n. 971 del 2023. Mentre infatti con la lett. b) del comma 1 dell’art. 7 del d. lgs. n. 285 del 1992 si permette all’ente locale di istituire aree a traffico limitato nei centri abitati per “esigenze di prevenzione degli inquinamenti e di tutela del patrimonio artistico, ambientale e naturale” (conformemente alle direttive impartite dal Ministro delle infrastrutture e dei trasporti e sentiti il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e il Ministro per i beni culturali e ambientali), ai sensi dell’art. 7 comma 9 del d. lgs. n. 285 del 1992 "i comuni, con deliberazione della Giunta, provvedono a delimitare le aree pedonali e le zone a traffico limitato tenendo conto degli effetti del traffico sulla sicurezza della circolazione, sulla salute, sull'ordine pubblico, sul patrimonio ambientale e culturale e sul territorio”. Secondo il Giudice d’appello il divieto imposto dal Comune con i provvedimenti gravati, riguardanti l’accesso e la circolazione in una zona della città, in determinati orari e giorni della settimana e per determinati veicoli, costituisce una modalità di istituzione di una zona a traffico limitato ai sensi dell’art. 7 comma 9 del d. lgs. n. 285 del 1992. Esso è infatti introdotto al fine di “fare tutto il possibile per ridurre considerevolmente l’incidentalità”, atteso che si “ si registrano sinistri, anche mortali, che vedono coinvolti utenti deboli della strada e mezzi ingombranti, anche articolati, riconducibili all’assenza di sistemi avanzati in grado di rilevare la presenza di pedoni e ciclisti situati in prossimità immediata del veicolo stesso ”. Il tema della sicurezza della circolazione e conseguentemente dell’ incolumità personale è quindi centrale nel giustificare l’adozione dei provvedimenti gravati. Sicché il Comune ha esercitato il potere allo stesso conferito dal comma 9 dell’art. 7 del d. lgs. n. 285 del 1992 e non il potere di limitare la circolazione per motivi di inquinamento e di tutela del patrimonio artistico, ambientale e naturale conferito con il comma 1 lett. b) dell’art. 7 del d. lgs. n. 285 del 1992. Il Giudice d’appello ha riconosciuto al Comune il potere “ non solo di delimitare le zone a traffico limitato ma anche di conformare il contenuto di detta limitazione, che altrimenti dovrebbe sussistere una disciplina (uniforme) delle zone a traffico limitato, laddove invece proprio la normativa richiamata intesta agli enti di maggior prossimità al cittadino di conformarle in base alle esigenze locali, al fine di perseguire una pluralità di interessi (sicurezza della circolazione, salute, ordine pubblico, patrimonio ambientale e culturale e territorio), la cui tutela richiede di per sé una diversa modulazione della limitazione stradale", non rinvenendosi i presupposti per confinare il potere comunale "alla sola delimitazione delle zone a traffico limitato, il cui ordinamento sarebbe altrove stabilito, dovendosi invece riconoscere agli enti locali il potere di conformarle. Detto potere è un potere avente un contenuto discrezionale, potendo essere attuato attraverso plurime e diverse prescrizioni, dettate non solo da necessità tecniche o comunque dall’esercizio di una discrezionalità tecnica, ma anche da scelte amministrative: i provvedimenti limitativi della circolazione veicolare all’interno dei centri abitati sono espressione di scelte latamente discrezionali, che coprono un arco esteso di soluzioni possibili, incidenti su valori costituzionali spesso contrapposti, che vanno contemperati secondo criteri di ragionevolezza la cui scelta è rimessa all’autorità competente” (Cons. St., sez. V, 9 gennaio 2024 n. 282) ”. Pertanto è “legittima la diversità del regime circolatorio in base al tipo, alla funzione e alla provenienza dei mezzi di trasporto, sicché la tipologia dei limiti (divieti, diversità temporali o di utilizzazioni, subordinazione a certe condizioni) viene articolata dalla pubblica autorità tenendo conto di vari elementi (diversità dei mezzi impiegati, impatto ambientale, situazione topografica o dei servizi pubblici, conseguenze pregiudizievoli) ”. A sostegno di questa soluzione è stata richiamata la giurisprudenza formatasi sull’art. 7 comma 9 del d. lgs. n. 285 del 1992, che ha riconosciuto che “tale previsione attribuisce espressamente alla giunta comunale un potere generale di regolazione delle limitazioni del traffico veicolare urbano e d’individuazione di specifiche aree da pedonalizzare, in considerazione del generale impatto sul territorio, corrispondendo ad un obiettivo programmatorio generale del traffico veicolare. La giunta comunale può, dunque, imporre specifici divieti, integrali e non, di circolazione e sosta, contestualmente a una considerazione di sistema delle esigenze di regolamentazione del traffico e della distribuzione di ragione urbanistica delle funzioni (residenziale, commerciale, ecc.) e di salvaguardia dei centri storici o comunque delle zone da opportunamente pedonalizzare o semipedonalizzare” (Cons. St., sez. II, 27 ottobre 2021 n. 7185 e sez. V, 21 ottobre 2019 n. 7129). In applicazione a questo orientamento, è stato riconosciuto legittimo il provvedimento del Comune di Milano, che “ ha determinato la creazione di una zona a traffico limitato, non introducendo invece un divieto “totale” di circolazione (...), che comunque avrebbe potuto introdurre: la circostanza che il Comune di Milano abbia circoscritto l’ambito temporale di applicazione del divieto (istituto dal lunedì al venerdì, in una determinata fascia oraria) costituisce un’ulteriore declinazione del potere di limitare, e non di escludere, l’accesso alla zona di riferimento. Pertanto, declinando in tal modo il divieto (e prevedendo delle deroghe, su cui infra) con i provvedimenti gravati è stata regolamentata la zona a traffico limitato denominata “Area B”, istituita con deliberazione n. 1366 del 2018, che già richiama l’art. 7 comma 9 del d. lgs. n. 285 del 1992, e le cui limitazioni sono fatte salve nella delibera n. 971 del 2023 (“ferme le limitazioni previste dall’Allegato n. 3 della deliberazione di Giunta Comunale n. 1366/2018”), mentre con deliberazione di giunta comunale n. 1617 del 2018 la disciplina dell’”Area C” è stata “resa coerente con la disciplina viabilistica della Zona a Traffico Limitato (ZTL) denominata “Area B” .” D'altra parte, sempre secondo il Consiglio di Stato, l’amministrazione avrebbe così esercitato i “ poteri conferiti ai comuni in quanto enti locali di maggiore prossimità al cittadino ”, in applicazione all’art 118 Cost., iscrivendosi il potere intestato ai Comuni dall’art. 7 comma 9 del d. lgs. n. 285 del 1992 nell’ambito delle potestà in ordine alle prerogative di viabilità, sicurezza e incolumità pubblica di cui il Comune può fare uso in quanto si riverberino sul territorio di riferimento. Ed è un fatto pacifico che la sicurezza urbana “ può venire esercitata a livello decentrato, se tale da potere essere collegata, nel rispetto della legge dello Stato, a funzioni di interesse regionale o locale ” (Corte cost. 13 aprile 2023 n. 69). Laddove quindi emergano, nell’ambito del territorio comunale, esigenze di regolazione del traffico veicolare e di contenimento delle ricadute negative sulla sicurezza e incolumità pubblica, il Comune è dotato del potere di soddisfarle con gli strumenti allo stesso offerti dal codice della strada. La sentenza di appello si sofferma poi ad esaminare tutti i rapporti tra la potestà comunale di regolamentare la circolazione stradale e le diverse e fondamentali libertà personali (in particolare, la libertà di circolazione e le libertà economiche, escludendo qualsiasi profilo di incostituzionalità del divieto sia con l’art. 16 Cost. che “non preclude alla legge di adottare, per ragioni di pubblico interesse, misure che influiscano sul movimento della popolazione” (Corte cost. 29 gennaio 2005 n. 66), sia con le libertà economiche, che non “soverchiano le ragioni dell’incolumità e della sicurezza e ciò non solo in ragione del principio di tutela della persona umana che connota la Costituzione italiana ma anche in una prospettiva eurounitaria”. Assume inoltre rilievo sulla competenza legittima del Comune l’ultima parte dello stesso comma 9 dell’art. 7 del d. lgs. n. 285 del 1992, che si occupa espressamente della facoltà comunale di prevedere una specifica tipologia di deroga ai divieti nascenti dall'istituzione di zone a traffico limitato, subordinata al pagamento di una somma di denaro. In tal caso è lo stesso legislatore a stabilire che le tipologie dei comuni che possono avvalersi di tale facoltà, le modalità di riscossione del pagamento, le categorie dei veicoli esentati, nonché, previa intesa in sede di Conferenza unificata di cui all'art. 8 del d. lgs. n. 281 del 1997, i massimali delle tariffe siano stabiliti “con decreto del Ministro delle infrastrutture e della mobilità sostenibili” (in base alla modifica apportata al comma 9 dall’art. 7 comma 1 lett. 0a) del d.l. n. 68 del 2022, modificato dalla legge n. 108 del 2022, in precedenza “con direttiva emanata dall'Ispettorato generale per la circolazione e la sicurezza stradale”, introdotto con l’art. 5 comma 1 lett. e) del d. lgs. n. 360 del 1993). Al di fuori di questo caso, pertanto, è lo stesso Comune a definire le deroghe alle limitazioni di circolazione. Non è quindi richiesta una specifica base normativa che consenta al Comune di prevederle, poiché, secondo i giudici d’appello, basterebbe in tal senso il riconoscimento del potere conformativo dell’Amministrazione. I Giudici, infine, partendo dalla consapevolezza che “i provvedimenti impugnati non rappresentano un atto necessitato, né nell’ an , né nel contenuto, e che la scelta discrezionale del Comune si muove in una prospettiva non diffusa sul territorio nazionale e la cui implementazione porta con sé elementi di novità, anche di natura concreta”, hanno esaminato ulteriori profili di interesse generale. Una volta individuata la norma primaria di attribuzione della competenza, la decisione di utilizzare i poteri conformativi relativi alla configurazione delle zone a traffico limitato per il raggiungimento di obiettivi volti alla più ampia tutela della persona, nel solco del principio personalistico che informa l’ordinamento costituzionale, spetta esclusivamente al Comune. Così come resta affidata all'amministrazione comunale il potere di gestire, anche interagendo con gli organi istituzionali coinvolti, le eventuali problematiche relative all’integrazione delle deroghe e le ricadute sulla portata del divieto posto, " così potendo valutare la compatibilità del concreto atteggiarsi di quest’ultimo con gli obiettivi perseguiti, nell’ambito dei termini (sopra indicati) di esercizio del potere conformativo di cui all’art. 7 comma 9 del d. lgs. n. 285 del 1992 ". In altri termini, il Consiglio di Stato - a differenza della visione molto più ristrettiva del Giudice di primo grado - ha riconosciuto un potere fortissimo in capo ai Comuni, e ha contemporaneamente affidato loro il compito di dosare proporzionalmente tale potere, in una prospettiva che peraltro sembra prescindere da profili di automatica illegittimità ma che va semplicemente nella direzione della sussistenza di una responsabilità politica dell'ente. Con l'ulteriore conseguenza - per la verità poco rilevante per il diritto - che le modalità individuate per rispondere alle esigenze della collettività di riferimento costituiranno mero oggetto di valutazione di opportunità da parte dei cittadini, "nell’ambito dell’ordinaria dinamica democratica tipica degli organi elettivi".
Autore: dalla Redazione 14 gen, 2024
Una curiosa e non molto edificante vicenda ha consentito alla Corte di Cassazione di offrire dei chiarimenti sui limiti di esigibilità del lavoro dei magistrati, con particolare riferimento al danno da disservizio [1] . Al di là della presenza in udienza, delle camere di consiglio decisorie e dei profili organizzativi, l'impegno richiesto a questi ultimi consiste essenzialmente nel deposito di provvedimenti giurisdizionali (decreti, ordinanze o, più spesso, sentenze). E la misura formale del buon andamento del servizio giustizia , al di là dell'inattaccabile profilo sostanziale relativo alla qualità del lavoro complessivamente svolto – salvo i profili di abnormità -, sta nella quantità e puntualità dei provvedimenti redatti. Come tutti i pubblici dipendenti, d'altra parte, anche i magistrati possono incorrere, oltre che in responsabilità penale, civile e disciplinare, anche nella responsabilità amministrativo-contabile , ovvero nella responsabilità patrimoniale derivante da inosservanza dolosa o colposa degli obblighi di servizio, da cui sia conseguito un danno economico alla pubblica amministrazione. La responsabilità amministrativo-contabile del pubblico dipendente non differisce strutturalmente dall’ordinaria responsabilità civile (art. 2043 cod. civ.), se non per la particolare qualificazione del soggetto autore del danno (pubblico dipendente o soggetto legato alla P.A. da rapporto di servizio), per la natura del soggetto danneggiato (ente pubblico e assimilati) e per la causazione del danno nell’esercizio di pubbliche funzioni o in circostanze legate da occasionalità necessaria con lo svolgimento di pubbliche funzioni. La responsabilità si configura non solo a fronte di danni diretti subiti dall’amministrazione, ma anche quando il danno sia stato subito indirettamente dall’amministrazione chiamata innanzi al giudice, ordinario o amministrativo, a risarcire, ai sensi dell’art. 28 Cost., il terzo danneggiato. Tale responsabilità trova la sua unitaria e fondamentale disciplina nella legge 14 gennaio 1994, n. 20, come modificata dal decreto-legge 23 ottobre 1996, n. 543 . In base a tale normativa “ la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o con colpa grave, ferma restando l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali ”. L’illecito erariale si connota per la combinazione di elementi restitutori e di deterrenza, e la conformazione della responsabilità amministrativa risente dell’opera di progressiva specificazione, precisazione e tipizzazione degli obblighi di servizio, nonché di un sempre più diffuso utilizzo di qualificazioni legali tipiche, nelle quali le violazioni delle regole giuscontabili sono direttamente qualificate dal legislatore come fonte di responsabilità amministrativa, erariale o contabile. Così, ad esempio, nelle pubbliche amministrazioni incluse nell’elenco adottato dall’ISTAT, il funzionario che adotta provvedimenti che comportano impegni di spesa ha l’obbligo di accertare preventivamente che il programma dei conseguenti pagamenti sia compatibile con i relativi stanziamenti di bilancio e con le regole di finanza pubblica, e la violazione di tale obbligo di accertamento comporta, per espressa previsione, responsabilità amministrativa ( art. 9 del d.l. n. 78 del 2009 ). Analogamente, il comma 7-bis all’art. 53 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 inquadra tra le ipotesi di responsabilità erariale l’ omesso versamento del compenso percepito dal dipendente pubblico per attività extraistituzionale non autorizzata. L’evoluzione del sistema è frutto anche dell’elaborazione, ad opera della giurisprudenza della Corte dei conti, di figure di responsabilità amministrativa in cui il nesso tra il pregiudizio e le casse erariali è meno immediato che nelle ipotesi tradizionali, dandosi rilievo alla lesione di interessi pubblici generali riferibili indistintamente alla collettività amministrata. Nella sua struttura essenziale e tradizionale, la sfera della responsabilità amministrativa risulta perimetrata a quelle fattispecie in cui il danno, quale diretta o indiretta conseguenza dell’atto o del comportamento del pubblico dipendente, si materializza in un indebito esborso di denaro pubblico o nella mancata percezione di somme spettanti all’amministrazione . La giurisprudenza contabile ha progressivamente ampliato la nozione di danno pubblico, sino a ricomprendervi la compromissione di interessi pubblici di carattere generale connessi all’equilibrio economico e finanziario dello Stato. Ma in quale fattispecie specifica di danno erariale si inquadra il grave e reiterato ritardo nel deposito delle sentenze ? Nel caso affrontato dalla Corte di Cassazione, un professore che aveva prestato servizio come magistrato non togato presso il Consiglio di giustizia per la Regione siciliana (peculiare organo di secondo grado di esclusiva rilevanza regionale, che giudica sugli appelli alle sentenze amministrative di primo cure emesse sul territorio siciliano), era stato accusato dalla Procura regionale della Corte dei Conti di avere provocato, in virtù della sua scarsissima “diligenza lavorativa”, un danno da disservizio al sistema giustizia per un ammontare di oltre trecentomila euro. Tale danno era stato determinato in via equitativa in un importo pari al 20% delle risorse finanziarie che risultavano essere state stanziate ed utilizzate dall’Amministrazione del Consiglio di Stato per retribuire il magistrato nell’arco temporale considerato. La contestazione, che aveva retto il vaglio di primo e secondo grado della giustizia contabile, era di avere arrecato una significativa lesione del rapporto sinallagmatico intercorrente tra il magistrato e l'amministrazione di appartenenza, nel senso che quest'ultima aveva remunerato il giudice senza ottenere come contropartita una prestazione lavorativa adeguata alle esigenze di tempestività, efficienza ed efficacia richieste dall'ordinamento. Secondo il Giudice contabile, poi, il particolare status di indipendenza del magistrato, garantito (anche) dalla L. n. 117 del 1998 , non sarebbe stato scalfito, nel caso di specie, dalla possibilità di sottoporre il magistrato stesso a responsabilità amministrativo-contabile, rientrandosi in una delle fattispecie in cui il responsabile illecitamente lucra emolumenti retributivi, con disservizio all'organizzazione e al funzionamento dell'amministrazione di appartenenza. Tali casi rientrerebbero nell'ipotesi più generale di indebita sottrazione di valori di pertinenza pubblica . D’altra parte, il danno da disservizio presuppone una distorsione dell’azione pubblica rispetto al fine cui l’azione stessa deve essere indirizzata, e si verifica quando il pubblico servizio è “desostanziato”, per l’utenza, delle sue intrinseche qualità: si è di fronte a un pregiudizio sofferto dalla collettività in ragione dell’esercizio sviato della funzione amministrativa. Il diritto vivente vi ha fatto ad esempio rientrare, quali ipotesi contrassegnate da uno sviamento della funzione o da una rilevante alterazione della prestazione: - l’illecita cancellazione in cambio di denaro, da parte di un funzionario dell’Agenzia fiscale, di alcuni carichi fiscali pendenti per omessi versamenti di imposte dovute; - l’assenteismo nel settore della scuola: - l’esercizio distorto di potestà pubbliche e l’asservimento del servizio da parte di un finanziere condannato per collusione in contrabbando. Fattispecie peculiari di danno da disservizio sono anche l’utilizzo improprio di beni strumentali della pubblica amministrazione, consistente nella connessione alla rete internet per navigare su siti proibiti, con conseguente trasmissione di virus alla rete locale, o le “anticipazioni” sui temi concorsuali ai candidati da parte di un commissario. Posto che non vi è dubbio che la giurisdizione della Corte dei Conti in materia di responsabilità amministrativa può “colpire” anche i magistrati - come confermato altresì da esplicite disposizioni di legge (cfr. art. 172 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia , approvato con il d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, e art. 5, comma 4, della legge 24 marzo 2001, n. 89 ) -, dinanzi al giudice contabile si possono instaurare giudizi diversi e ulteriori rispetto a quello previsto dall’ art. 7 della legge n. 117 del 1988 , che attribuisce al giudice ordinario la cognizione dell’azione di rivalsa che il Presidente del Consiglio dei ministri ha l’obbligo di esercitare nei confronti del magistrato nel caso di diniego di giustizia, ovvero nei casi in cui sussista la violazione manifesta della legge e del diritto dell’Unione europea, ovvero in cui il travisamento del fatto o delle prove sono stati determinati da dolo o negligenza inescusabile. La stessa legge n. 117 del 1988, d’altra parte, distingue tra azione di rivalsa , riservata allo Stato e da proporre davanti alla giurisdizione ordinaria, e azione di regresso in caso di reato , da esercitare secondo le norme ordinarie relative alla responsabilità dei pubblici dipendenti. Più in generale, dinanzi alla Corte dei conti il magistrato può essere chiamato a rispondere sia per i danni causati nell’esercizio di funzioni amministrative (ad es.: uso non istituzionale di beni detenuti per ragioni di servizio), sia per il danno scaturito dall’esercizio delle funzioni giudiziarie, fermi restando l’insindacabilità nel merito dei provvedimenti giudiziari e il limite della indipendenza funzionale. Ed è un danno direttamente causato allo Stato anche quello all’ immagine della P.A. per delitti commessi in pregiudizio della stessa nell’esercizio delle funzioni (art. 51 del codice di giustizia contabile). Quanto al ritardo nello svolgimento dell’esercizio delle funzioni giudiziarie tipiche, lo stesso incide sotto plurimi aspetti. In primo luogo, nel caso di irragionevole durata dei processi , l’obbligo risarcitorio stabilito a carico dello Stato dalla legge n. 89 del 2001, in modo tendenzialmente oggettivo, si riverbera nel giudizio (di rivalsa) sul comportamento del magistrato dinanzi alla Corte dei conti, giudizio in cui rileva il dolo o la colpa grave dell’autore del ritardo, dovendosi fare applicazione delle regole sostanziali e processuali che disciplinano la responsabilità amministrativa, con verifica necessaria delle eventuali plurime funzioni esercitate dal magistrato e del suo complessivo carico di lavoro. In secondo luogo, il ritardo può avere rilievo disciplinare ; sia per i magistrati ordinari che per i magistrati amministrativi – i primi in virtù di disposizione di legge ad hoc e i secondi sulla base di normativa adottata in forma di “autovincolo” – si presume non grave il ritardo che non eccede il triplo dei termini previsti dalla legge per il compimento dell’atto. In terzo luogo, il ritardo del magistrato, e non solo il rifiuto o l’omissione, nel compimento di atti del suo ufficio, costituisce diniego di giustizia quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell’atto, la parte abbia presentato istanza per ottenere il provvedimento e siano decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria. D’altra parte, l’inosservanza, anche ripetuta e grave, da parte del magistrato, dei termini di deposito delle sentenze non integra, di per sé sola, il reato di rifiuto di atti d'ufficio per ragioni di giustizia di cui all’art. 328, comma primo, cod. pen. , se non sussiste una indifferibilità dell’atto omesso, la quale non può essere desunta dalla mera esigenza di andamento regolare dell’attività giudiziaria, ma presuppone che il ritardo determini un pericolo concreto di pregiudizio per le parti interessate, derivante dalla mancata definizione dell’assetto regolativo degli interessi coinvolti nel procedimento. Si prospetta così la responsabilità del magistrato per fatti costituenti reato ( art. 13 della legge n. 117 del 1988 ), ora in virtù della commissione del delitto di cui all’ art. 328, comma 1 c.p. (vero e proprio rifiuto), ora in conseguenza della condotta di cui all’ art. 328, comma 2 c.p. (mera omissione), nell’ipotesi di manifestazione di un legittimo interesse ulteriormente qualificata dalla richiesta del provvedimento (diffida), ove la protratta inerzia non sia un elemento rappresentativo del rifiuto. D’altra parte, la responsabilità amministrativa dei magistrati ha dei profili di specificità dovuti alla particolarità della funzione giudiziaria e al rapporto con l’autonomia e l’indipendenza , intese come pre-condizioni essenziali per l’esercizio di una attività indirizzata alla tutela dei diritti individuali. Invero, l’elemento unificante della funzione giudiziaria risiede nella particolare posizione di indipendenza degli organi giudiziari nel sistema politico-istituzionale, tanto che la pluralità di gravi ritardi, da parte di un magistrato, nel deposito dei provvedimenti, dà luogo ad una figura di illecito disciplinare, rimessa alla valutazione esclusiva dell’organo di governo autonomo della magistratura, a cui corrisponde la contrarietà a una condotta che non deve considerarsi soltanto parte integrante dell’osservanza da parte del magistrato dei doveri inerenti al suo status , ma anche a guisa di garanzia dell’imparzialità e dell’indipendenza della giurisdizione. Imparzialità e indipendenza che si nutrono dell’idea comune della figura del magistrato come esempio di probità e diligenza personale, ai fini della trasformazione del potere derivante dalla funzione giudiziaria in un servizio pubblico in favore degli utenti e più in generale della comunità. L’espletamento della predetta funzione con standard qualitativi inferiori a quanto dovuto in relazione al rispetto dei termini per il deposito dei provvedimenti – come accaduto nel caso del professore “prestato” alla Sezione giurisdizionale siciliana del Consiglio di Stato – non è peraltro assimilabile a una condotta del magistrato derivante da reato, né aveva causato il risarcimento del danno da parte dello Stato a terzi per l’irragionevole durata del processo, e nemmeno era riconducibile ad un vero e proprio diniego di giustizia. Al di fuori di questi schemi, un’ipotesi di ordinaria violazione del dovere di diligenza del magistrato (deposito con sistematico ritardo, di circa 200 giorni, delle sentenze e dei provvedimenti di competenza del magistrato), integrerebbe, a dire della Cassazione, soltanto una figura di illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni, come tale rimessa alla valutazione dell’organo di governo autonomo della magistratura di appartenenza. Sempre secondo i Giudici di legittimità, il disservizio che in concreto è stato arrecato all’amministrazione di appartenenza, che non ha potuto conseguire i migliori standard di efficienza e di efficacia, non rientra nel concetto di danno erariale perseguibile nella sua sede propria giurisdizionale dalla Corte dei conti. E’ una valutazione che chiaramente entra nel merito dei limiti stessi della definizione di danno da disservizio, in quanto la Cassazione va a stabilire che il perimetro della responsabilità amministrativo-contabile per tale tipologia di danno non può essere esteso fino a ricomprendervi un’ipotesi di ordinaria violazione del dovere di diligenza del magistrato. Costituirebbe, in altri termini - quella del mero ritardo nel deposito dei provvedimenti da parte del magistrato -, una semplice figura di illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni, come tale rimessa soltanto alla valutazione dell’organo di governo autonomo della magistratura (in questo caso, amministrativa). Viene così delineata una sorta di fragile linea di confine tra responsabilità per il ritardo ordinario “funzionale” e vera e propria responsabilità erariale per lo stesso fatto, che si delineerebbe, a questo punto, in aggiunta a quella disciplinare stessa, soltanto laddove vi sia un quid pluris rispetto al ritardo, allorquando, cioè, la condotta del magistrato si ponga “oltre” la fattispecie di rilievo disciplinare, creando così un effettivo danno da disservizio. D’altra parte, verrebbe da dire, il ritardo genera responsabilità disciplinare soltanto quando è reiterato, grave e ingiustificato, per cui resta difficile capire quando il medesimo ritardo è tale da creare anche disservizio contabilmente rilevante , posto che già la gravità di esso è una qualificazione in termini di disfunzionalità dell’operato del magistrato rispetto all'attività giudiziaria dallo stesso svolta. Resta una scelta – quella di ritenere configurato anche il danno erariale – basata su circostanze frutto di libera interpretazione e che si pone ai confini dell’ abnormità della condotta lavorativa del magistrato. L’esempio di tale abnormità è presto fatto dalla stessa Corte di Cassazione, con il riferimento a un precedente giudiziario in cui era stato rinvenuto il danno da disservizio. In quel caso, le condotte dannose non si erano esaurite nel mancato rispetto dei termini per il deposito dei provvedimenti da parte del giudice civile, ma avevano riguardato anche l’assenza ingiustificata dal servizio del magistrato, la caotica gestione dei fascicoli d’ufficio, l’omessa risposta a plurimi tentativi vani di contatti telefonici e l’omesso recupero del lavoro accumulato, nonostante l’esonero temporaneo da ulteriori carichi concesso a tali fini. Risulta peraltro forse contraddittorio, e bisognevole di ulteriore riflessione, inserire l’alterazione delle tempistiche procedimentali tra le possibili cause di danno da disservizio (ovvero di un danno di “chiusura”, che ha il suo tratto unificante nell’espletamento di una attività della pubblica amministrazione in modo inefficiente, con standard qualitativi inferiori al dovuto e conseguente non pieno soddisfacimento dell’utenza) e contemporaneamente sottrarre le condotte del magistrato, ordinario o amministrativo, che tali tempistiche alterano, in violazione dei doveri di diligenza e di laboriosità, alla perseguibilità, dinanzi al giudice contabile, di una responsabilità per danno diretto erariale da disservizio. Perché se è vero che vi è la devoluzione tendenziale del giudizio su tali condotte all’organo di governo autonomo, secondo quanto prescritto dalla stessa Costituzione, è altresì chiaro che il principio di buon andamento , riferibile pure agli organi dell’amministrazione della giustizia, dovrebbe trovare per tutti di dipendenti pubblici (ivi compresi i magistrati) un ulteriore presidio nella responsabilità contabile, senza che ciò venga vista come una duplicazione di giudizi per lo stesso fatto. Invero, si tratta di due effetti diversi derivanti da una condotta plurioffensiva che, da un lato, rompe il vincolo fiduciario tra istituzione/potere e funzione svolta, e, dall’altro, rende ingiustificata la remunerazione piena di un’attività lavorativa che ha senz’altro indebolito sia qualitativamente che quantitativamente il complessivo “servizio giustizia”. [1] Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 2370, pubblicata il 25 gennaio 2023
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