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Danno da disservizio, ritardi nel deposito delle sentenze e buon andamento del servizio giustizia

dalla Redazione • 14 gennaio 2024

Una curiosa e non molto edificante vicenda ha consentito alla Corte di Cassazione di offrire dei chiarimenti sui limiti di esigibilità del lavoro dei magistrati, con particolare riferimento al danno da disservizio [1].

Al di là della presenza in udienza, delle camere di consiglio decisorie e dei profili organizzativi, l'impegno richiesto a questi ultimi consiste essenzialmente nel deposito di provvedimenti giurisdizionali (decreti, ordinanze o, più spesso, sentenze).

E la misura formale del buon andamento del servizio giustizia, al di là dell'inattaccabile profilo sostanziale relativo alla qualità del lavoro complessivamente svolto – salvo i profili di abnormità -, sta nella quantità e puntualità dei provvedimenti redatti.

Come tutti i pubblici dipendenti, d'altra parte, anche i magistrati possono incorrere, oltre che in responsabilità penale, civile e disciplinare, anche nella responsabilità amministrativo-contabile, ovvero nella responsabilità patrimoniale derivante da inosservanza dolosa o colposa degli obblighi di servizio, da cui sia conseguito un danno economico alla pubblica amministrazione.

La responsabilità amministrativo-contabile del pubblico dipendente non differisce strutturalmente dall’ordinaria responsabilità civile (art. 2043 cod. civ.), se non per la particolare qualificazione del soggetto autore del danno (pubblico dipendente o soggetto legato alla P.A. da rapporto di servizio), per la natura del soggetto danneggiato (ente pubblico e assimilati) e per la causazione del danno nell’esercizio di pubbliche funzioni o in circostanze legate da occasionalità necessaria con lo svolgimento di pubbliche funzioni.

La responsabilità si configura non solo a fronte di danni diretti subiti dall’amministrazione, ma anche quando il danno sia stato subito indirettamente dall’amministrazione chiamata innanzi al giudice, ordinario o amministrativo, a risarcire, ai sensi dell’art. 28 Cost., il terzo danneggiato.

Tale responsabilità trova la sua unitaria e fondamentale disciplina nella legge 14 gennaio 1994, n. 20, come modificata dal decreto-legge 23 ottobre 1996, n. 543.

In base a tale normativa “la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o con colpa grave, ferma restando l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali”.

L’illecito erariale si connota per la combinazione di elementi restitutori e di deterrenza, e la conformazione della responsabilità amministrativa risente dell’opera di progressiva specificazione, precisazione e tipizzazione degli obblighi di servizio, nonché di un sempre più diffuso utilizzo di qualificazioni legali tipiche, nelle quali le violazioni delle regole giuscontabili sono direttamente qualificate dal legislatore come fonte di responsabilità amministrativa, erariale o contabile.

Così, ad esempio, nelle pubbliche amministrazioni incluse nell’elenco adottato dall’ISTAT, il funzionario che adotta provvedimenti che comportano impegni di spesa ha l’obbligo di accertare preventivamente che il programma dei conseguenti pagamenti sia compatibile con i relativi stanziamenti di bilancio e con le regole di finanza pubblica, e la violazione di tale obbligo di accertamento comporta, per espressa previsione, responsabilità amministrativa (art. 9 del d.l. n. 78 del 2009). Analogamente, il comma 7-bis all’art. 53 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 inquadra tra le ipotesi di responsabilità erariale l’omesso versamento del compenso percepito dal dipendente pubblico per attività extraistituzionale non autorizzata.

L’evoluzione del sistema è frutto anche dell’elaborazione, ad opera della giurisprudenza della Corte dei conti, di figure di responsabilità amministrativa in cui il nesso tra il pregiudizio e le casse erariali è meno immediato che nelle ipotesi tradizionali, dandosi rilievo alla lesione di interessi pubblici generali riferibili indistintamente alla collettività amministrata.

Nella sua struttura essenziale e tradizionale, la sfera della responsabilità amministrativa risulta perimetrata a quelle fattispecie in cui il danno, quale diretta o indiretta conseguenza dell’atto o del comportamento del pubblico dipendente, si materializza in un indebito esborso di denaro pubblico o nella mancata percezione di somme spettanti all’amministrazione. La giurisprudenza contabile ha progressivamente ampliato la nozione di danno pubblico, sino a ricomprendervi la compromissione di interessi pubblici di carattere generale connessi all’equilibrio economico e finanziario dello Stato.

Ma in quale fattispecie specifica di danno erariale si inquadra il grave e reiterato ritardo nel deposito delle sentenze?

Nel caso affrontato dalla Corte di Cassazione, un professore che aveva prestato servizio come magistrato non togato presso il Consiglio di giustizia per la Regione siciliana (peculiare organo di secondo grado di esclusiva rilevanza regionale, che giudica sugli appelli alle sentenze amministrative di primo cure emesse sul territorio siciliano), era stato accusato dalla Procura regionale della Corte dei Conti di avere provocato, in virtù della sua scarsissima “diligenza lavorativa”, un danno da disservizio al sistema giustizia per un ammontare di oltre trecentomila euro. 

Tale danno era stato determinato in via equitativa in un importo pari al 20% delle risorse finanziarie che risultavano essere state stanziate ed utilizzate dall’Amministrazione del Consiglio di Stato per retribuire il magistrato nell’arco temporale considerato.

La contestazione, che aveva retto il vaglio di primo e secondo grado della giustizia contabile, era di avere arrecato una significativa lesione del rapporto sinallagmatico intercorrente tra il magistrato e l'amministrazione di appartenenza, nel senso che quest'ultima aveva remunerato il giudice senza ottenere come contropartita una prestazione lavorativa adeguata alle esigenze di tempestività, efficienza ed efficacia richieste dall'ordinamento.

Secondo il Giudice contabile, poi, il particolare status di indipendenza del magistrato, garantito (anche) dalla L. n. 117 del 1998, non sarebbe stato scalfito, nel caso di specie, dalla possibilità di sottoporre il magistrato stesso a responsabilità amministrativo-contabile, rientrandosi in una delle fattispecie in cui il responsabile illecitamente lucra emolumenti retributivi, con disservizio all'organizzazione e al funzionamento dell'amministrazione di appartenenza.

Tali casi rientrerebbero nell'ipotesi più generale di indebita sottrazione di valori di pertinenza pubblica.

D’altra parte, il danno da disservizio presuppone una distorsione dell’azione pubblica rispetto al fine cui l’azione stessa deve essere indirizzata, e si verifica quando il pubblico servizio è “desostanziato”, per l’utenza, delle sue intrinseche qualità: si è di fronte a un pregiudizio sofferto dalla collettività in ragione dell’esercizio sviato della funzione amministrativa.

Il diritto vivente vi ha fatto ad esempio rientrare, quali ipotesi contrassegnate da uno sviamento della funzione o da una rilevante alterazione della prestazione:

- l’illecita cancellazione in cambio di denaro, da parte di un funzionario dell’Agenzia fiscale, di alcuni carichi fiscali pendenti per omessi versamenti di imposte dovute;

- l’assenteismo nel settore della scuola:

- l’esercizio distorto di potestà pubbliche e l’asservimento del servizio da parte di un finanziere condannato per collusione in contrabbando.

Fattispecie peculiari di danno da disservizio sono anche l’utilizzo improprio di beni strumentali della pubblica amministrazione, consistente nella connessione alla rete internet per navigare su siti proibiti, con conseguente trasmissione di virus alla rete locale, o le “anticipazioni” sui temi concorsuali ai candidati da parte di un commissario.

Posto che non vi è dubbio che la giurisdizione della Corte dei Conti in materia di responsabilità amministrativa può “colpire” anche i magistrati - come confermato altresì da esplicite disposizioni di legge (cfr. art. 172 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, approvato con il d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, e art. 5, comma 4, della legge 24 marzo 2001, n. 89) -, dinanzi al giudice contabile si possono instaurare giudizi diversi e ulteriori rispetto a quello previsto dall’art. 7 della legge n. 117 del 1988, che attribuisce al giudice ordinario la cognizione dell’azione di rivalsa che il Presidente del Consiglio dei ministri ha l’obbligo di esercitare nei confronti del magistrato nel caso di diniego di giustizia, ovvero nei casi in cui sussista la violazione manifesta della legge e del diritto dell’Unione europea, ovvero in cui il travisamento del fatto o delle prove sono stati determinati da dolo o negligenza inescusabile.

La stessa legge n. 117 del 1988, d’altra parte, distingue tra azione di rivalsa, riservata allo Stato e da proporre davanti alla giurisdizione ordinaria, e azione di regresso in caso di reato, da esercitare secondo le norme ordinarie relative alla responsabilità dei pubblici dipendenti.

Più in generale, dinanzi alla Corte dei conti il magistrato può essere chiamato a rispondere sia per i danni causati nell’esercizio di funzioni amministrative (ad es.: uso non istituzionale di beni detenuti per ragioni di servizio), sia per il danno scaturito dall’esercizio delle funzioni giudiziarie, fermi restando l’insindacabilità nel merito dei provvedimenti giudiziari e il limite della indipendenza funzionale.

Ed è un danno direttamente causato allo Stato anche quello all’immagine della P.A. per delitti commessi in pregiudizio della stessa nell’esercizio delle funzioni (art. 51 del codice di giustizia contabile).

Quanto al ritardo nello svolgimento dell’esercizio delle funzioni giudiziarie tipiche, lo stesso incide sotto plurimi aspetti.

In primo luogo, nel caso di irragionevole durata dei processi, l’obbligo risarcitorio stabilito a carico dello Stato dalla legge n. 89 del 2001, in modo tendenzialmente oggettivo, si riverbera nel giudizio (di rivalsa) sul comportamento del magistrato dinanzi alla Corte dei conti, giudizio in cui rileva il dolo o la colpa grave dell’autore del ritardo, dovendosi fare applicazione delle regole sostanziali e processuali che disciplinano la responsabilità amministrativa, con verifica necessaria delle eventuali plurime funzioni esercitate dal magistrato e del suo complessivo carico di lavoro.

In secondo luogo, il ritardo può avere rilievo disciplinare; sia per i magistrati ordinari che per i magistrati amministrativi – i primi in virtù di disposizione di legge ad hoc e i secondi sulla base di normativa adottata in forma di “autovincolo” – si presume non grave il ritardo che non eccede il triplo dei termini previsti dalla legge per il compimento dell’atto.

In terzo luogo, il ritardo del magistrato, e non solo il rifiuto o l’omissione, nel compimento di atti del suo ufficio, costituisce diniego di giustizia quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell’atto, la parte abbia presentato istanza per ottenere il provvedimento e siano decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria.

D’altra parte, l’inosservanza, anche ripetuta e grave, da parte del magistrato, dei termini di deposito delle sentenze non integra, di per sé sola, il reato di rifiuto di atti d'ufficio per ragioni di giustizia di cui all’art. 328, comma primo, cod. pen., se non sussiste una indifferibilità dell’atto omesso, la quale non può essere desunta dalla mera esigenza di andamento regolare dell’attività giudiziaria, ma presuppone che il ritardo determini un pericolo concreto di pregiudizio per le parti interessate, derivante dalla mancata definizione dell’assetto regolativo degli interessi coinvolti nel procedimento.

Si prospetta così la responsabilità del magistrato per fatti costituenti reato (art. 13 della legge n. 117 del 1988), ora in virtù della commissione del delitto di cui all’art. 328, comma 1 c.p. (vero e proprio rifiuto), ora in conseguenza della condotta di cui all’art. 328, comma 2 c.p. (mera omissione), nell’ipotesi di manifestazione di un legittimo interesse ulteriormente qualificata dalla richiesta del provvedimento (diffida), ove la protratta inerzia non sia un elemento rappresentativo del rifiuto.

D’altra parte, la responsabilità amministrativa dei magistrati ha dei profili di specificità dovuti alla particolarità della funzione giudiziaria e al rapporto con l’autonomia e l’indipendenza, intese come pre-condizioni essenziali per l’esercizio di una attività indirizzata alla tutela dei diritti individuali.

Invero, l’elemento unificante della funzione giudiziaria risiede nella particolare posizione di indipendenza degli organi giudiziari nel sistema politico-istituzionale, tanto che la pluralità di gravi ritardi, da parte di un magistrato, nel deposito dei provvedimenti, dà luogo ad una figura di illecito disciplinare, rimessa alla valutazione esclusiva dell’organo di governo autonomo della magistratura, a cui corrisponde la contrarietà a una condotta che non deve considerarsi soltanto parte integrante dell’osservanza da parte del magistrato dei doveri inerenti al suo status, ma anche a guisa di garanzia dell’imparzialità e dell’indipendenza della giurisdizione.

Imparzialità e indipendenza che si nutrono dell’idea comune della figura del magistrato come esempio di probità e diligenza personale, ai fini della trasformazione del potere derivante dalla funzione giudiziaria in un servizio pubblico in favore degli utenti e più in generale della comunità.

L’espletamento della predetta funzione con standard qualitativi inferiori a quanto dovuto in relazione al rispetto dei termini per il deposito dei provvedimenti – come accaduto nel caso del professore “prestato” alla Sezione giurisdizionale siciliana del Consiglio di Stato – non è peraltro assimilabile a una condotta del magistrato derivante da reato, né aveva causato il risarcimento del danno da parte dello Stato a terzi per l’irragionevole durata del processo, e nemmeno era riconducibile ad un vero e proprio diniego di giustizia.

Al di fuori di questi schemi, un’ipotesi di ordinaria violazione del dovere di diligenza del magistrato (deposito con sistematico ritardo, di circa 200 giorni, delle sentenze e dei provvedimenti di competenza del magistrato), integrerebbe, a dire della Cassazione, soltanto una figura di illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni, come tale rimessa alla valutazione dell’organo di governo autonomo della magistratura di appartenenza.

Sempre secondo i Giudici di legittimità, il disservizio che in concreto è stato arrecato all’amministrazione di appartenenza, che non ha potuto conseguire i migliori standard di efficienza e di efficacia, non rientra nel concetto di danno erariale perseguibile nella sua sede propria giurisdizionale dalla Corte dei conti.

E’ una valutazione che chiaramente entra nel merito dei limiti stessi della definizione di danno da disservizio, in quanto la Cassazione va a stabilire che il perimetro della responsabilità amministrativo-contabile per tale tipologia di danno non può essere esteso fino a ricomprendervi un’ipotesi di ordinaria violazione del dovere di diligenza del magistrato.

Costituirebbe, in altri termini - quella del mero ritardo nel deposito dei provvedimenti da parte del magistrato -, una semplice figura di illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni, come tale rimessa soltanto alla valutazione dell’organo di governo autonomo della magistratura (in questo caso, amministrativa).

Viene così delineata una sorta di fragile linea di confine tra responsabilità per il ritardo ordinario “funzionale” e vera e propria responsabilità erariale per lo stesso fatto, che si delineerebbe, a questo punto, in aggiunta a quella disciplinare stessa, soltanto laddove vi sia un quid pluris rispetto al ritardo, allorquando, cioè, la condotta del magistrato si ponga “oltre” la fattispecie di rilievo disciplinare, creando così un effettivo danno da disservizio.

D’altra parte, verrebbe da dire, il ritardo genera responsabilità disciplinare soltanto quando è reiterato, grave e ingiustificato, per cui resta difficile capire quando il medesimo ritardo è tale da creare anche disservizio contabilmente rilevante, posto che già la gravità di esso è una qualificazione in termini di disfunzionalità dell’operato del magistrato rispetto all'attività giudiziaria dallo stesso svolta.

Resta una scelta – quella di ritenere configurato anche il danno erariale – basata su circostanze frutto di libera interpretazione e che si pone ai confini dell’abnormità della condotta lavorativa del magistrato.

L’esempio di tale abnormità è presto fatto dalla stessa Corte di Cassazione, con il riferimento a un precedente giudiziario in cui era stato rinvenuto il danno da disservizio.

In quel caso, le condotte dannose non si erano esaurite nel mancato rispetto dei termini per il deposito dei provvedimenti da parte del giudice civile, ma avevano riguardato anche l’assenza ingiustificata dal servizio del magistrato, la caotica gestione dei fascicoli d’ufficio, l’omessa risposta a plurimi tentativi vani di contatti telefonici e l’omesso recupero del lavoro accumulato, nonostante l’esonero temporaneo da ulteriori carichi concesso a tali fini.

Risulta peraltro forse contraddittorio, e bisognevole di ulteriore riflessione, inserire l’alterazione delle tempistiche procedimentali tra le possibili cause di danno da disservizio (ovvero di un danno di “chiusura”, che ha il suo tratto unificante nell’espletamento di una attività della pubblica amministrazione in modo inefficiente, con standard qualitativi inferiori al dovuto e conseguente non pieno soddisfacimento dell’utenza) e contemporaneamente sottrarre le condotte del magistrato, ordinario o amministrativo, che tali tempistiche alterano, in violazione dei doveri di diligenza e di laboriosità, alla perseguibilità, dinanzi al giudice contabile, di una responsabilità per danno diretto erariale da disservizio.

Perché se è vero che vi è la devoluzione tendenziale del giudizio su tali condotte all’organo di governo autonomo, secondo quanto prescritto dalla stessa Costituzione, è altresì chiaro che il principio di buon andamento, riferibile pure agli organi dell’amministrazione della giustizia, dovrebbe trovare per tutti di dipendenti pubblici (ivi compresi i magistrati) un ulteriore presidio nella responsabilità contabile, senza che ciò venga vista come una duplicazione di giudizi per lo stesso fatto.

Invero, si tratta di due effetti diversi derivanti da una condotta plurioffensiva che, da un lato, rompe il vincolo fiduciario tra istituzione/potere e funzione svolta, e, dall’altro, rende ingiustificata la remunerazione piena di un’attività lavorativa che ha senz’altro indebolito sia qualitativamente che quantitativamente il complessivo “servizio giustizia”.



[1] Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 2370, pubblicata il 25 gennaio 2023


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