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Difetto assoluto di giurisdizione e autodichìa

19 marzo 2021

Il difetto assoluto di giurisdizione postula l’impossibilità per un giudice nazionale di pronunciarsi nel merito di una pretesa avanza da un soggetto.

Il caso più “immediato” concerne la richiesta al potere giurisdizionale di accertamento di posizioni individuali che non costituiscono né diritti soggettivi né interessi legittimi (ad esempio, interessi diffusi o adespoti).

Rientrerebbe in questa tipologia, più in generale, la “non giustiziabilità della pretesa dinanzi agli organi della giurisdizione statale”, ma la Corte di Cassazione ha precisato, in più occasioni – con particolare riferimento alle questioni rimesse agli organi di giustizia sportivi – che la questione della configurabilità, o meno, di una situazione giuridicamente rilevante e tutelabile non rientra tra le questioni di giurisdizione, costituendo, invece, questione di merito.

Il secondo caso si verifica quando un giudice nega la propria giurisdizione perché ritiene che un atto rientri nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa, e, quanto al potere esecutivo, nella misura in cui venga contestata l’opportunità delle scelte operate, non sussistano figure sintomatiche dell’eccesso di potere e non esistano norme – come, ad esempio, l’art. 134 c.p.a. – che estendano la cognizione al merito nelle controversie.

Il terzo caso si verifica quanto un giudice nega la propria giurisdizione sul presupposto che la materia non possa formare oggetto in assoluto di cognizione giurisdizionale.

Nel nostro ordinamento, un primo esempio di difetto assoluto di giurisdizione è costituito dalle ipotesi di autodichia degli organi costituzionali.

Per autodichia si intende, comunemente, la capacità di una istituzione - ed in particolar modo degli organi costituzionali che siano già muniti di autonomia organizzativa e contabile - di decidere direttamente, con giudizio dei propri organi, ogni controversia attinente all'esercizio delle proprie funzioni senza che istituzioni giurisdizionali esterne possano esercitare sui relativi atti controlli e sindacati di sorta, applicando la disciplina normativa che gli stessi organi si sono dati nelle materie trattate.

Ci sono ipotesi di autodichia che trovano diretto fondamento nella Costituzione, cui si accompagna la speculare carenza assoluta di giurisdizione dei giudici ordinari ed amministrativi - come quella prevista dall'art. 66 della Carta in base al quale ciascuna Camera ha il potere di giudicare dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità - mentre per altre forme di autodichia il fondamento nella Costituzione è solo indiretto, come accade per la giurisdizione domestica nelle controversie di impiego dei dipendenti del Parlamento, della quale entrambe le Camere si sono munite nell'esercizio del potere regolamentare loro attribuito dall'art. 64 Cost., comma 1, adottando per il funzionamento di tale giurisdizione interna regolamenti minori.

Ci sono inoltre altre ipotesi che rinvengono la loro disciplina – in termini di difetto assoluto di giurisdizione – dalla connessione con altri istituti sicuramente attratti nell’autodichìa.

Ad esempio, le controversie relative all'entità del trattamento di reversibilità del vitalizio originariamente erogato ad un ex parlamentare defunto, spettano alla cognizione degli organi di autodichìa della Camera di appartenenza dell'ex parlamentare al pari di quelle concernenti gli assegni vitalizi, in quanto il suddetto trattamento ha pur sempre la sua fonte nell'indennità di carica goduta dal parlamentare in relazione all'esercizio del proprio mandato.

I suddetti organi di autodichìa svolgono un'attività obiettivamente giurisdizionale, che, per un verso, li legittima a sollevare questioni di legittimità costituzionale delle norme di legge a cui le fonti di autonomia effettuino rinvio, mentre, per altro verso, comporta l'ammissibilità di uno strumento di carattere non impugnatorio qual è il regolamento preventivo di giurisdizione.

Invero, gli assegni vitalizi per gli ex parlamentari derivano dall'indennità parlamentare, di modo che le controversie relative alle condizioni di attribuzione e alla misura di tali assegni vitalizi, al pari di quelle relative all'indennità parlamentare, non possono che essere decise dagli organi dell'autodichìa, la cui previsione risponde alla indicata finalità di garantire la particolare autonomia del Parlamento, e quindi rientra nell'ambito della normativa di "diritto singolare" costituita dalla L. n. 1261 del 1965, artt. 1 e 8 (Determinazione dell'indennità spettante ai membri del Parlamento), posta a presidio della peculiare posizione di autonomia riconosciuta dagli artt. 64, comma 1, 66 e 68 Cost., la cui applicazione consente il superamento anche del principio dell'unicità della giurisdizione, in base al quale il giudice ordinario è dotato della giurisdizione generale e i giudici speciali previsti dalla Costituzione operano in via meramente derogatoria e sulla base di previsioni legislative (si è pronunciata recentemente, in questi termini, la Corte di Cassazione).

Non sussiste invece autodichia, con riguardo alle controversie originate dalla rimodulazione in riduzione dell'assegno vitalizio erogato a consiglieri regionali cessati dalla carica.

Sempre afferente ad una ipotesi di autodichia è la questione se spetti o meno al giudice comune conoscere dell'impugnazione, da parte di un senatore della Repubblica, del provvedimento di espulsione dal gruppo parlamentare di appartenenza.

Al riguardo, occorre premettere che l’attività dei gruppi parlamentari va collocata su una duplicità di piani: al profilo costituzionale-parlamentare, in relazione al quale i gruppi costituiscono gli strumenti necessari per lo svolgimento delle funzioni proprie del Parlamento, come previsto e disciplinato dalle norme della Costituzione, dalle consuetudini costituzionali, dai regolamenti delle Camere e dai regolamenti interni dei gruppi medesimi, si affianca l'aspetto privatistico, che giustifica una assimilazione ai partiti politici.

Su tali basi, si è riconosciuta la giurisdizione del giudice ordinario in ordine alla controversia originata dalla domanda di pagamento di somme a titolo di compenso per prestazioni professionali asseritamente eseguite per conto e su incarico di un gruppo parlamentare e costituite da attività di promozione e di sensibilizzazione in favore di aziende produttrici di latte, prevalentemente delle regioni settentrionali, in ordine alla concreta praticabilità di iniziative giudiziarie (ricorsi al TAR, al giudice di pace, eventualmente denunce penali) da intraprendere sulla questione delle quote-latte assegnate ai singoli allevatori dalle autorità comunitarie, trattandosi di ragione di credito pretesamente attinente, appunto, soltanto al versante strettamente politico della funzione e dell'attività del gruppo parlamentare.

Allo stesso modo, si è statuito che la giurisdizione in ordine alle controversie concernenti il rapporto di lavoro dei dipendenti dei gruppi parlamentari della Camera dei deputati spetta al giudice ordinario, e non alla Camera in sede di autodichia, non esistendo nell'ordinamento una norma avente fondamento costituzionale, sia pure indiretto attraverso il regolamento parlamentare, che autorizzi la deroga al principio della indefettibilità della tutela giurisdizionale davanti ai giudici comuni e non potendosi estendere, perché norma eccezionale di stretta interpretazione, l'art. 12 del regolamento della Camera riguardante i dipendenti della stessa Camera, anche in considerazione della natura politica, oltre che strettamente parlamentare, dell'attività svolta dai suddetti gruppi.

In linea con questo medesimo indirizzo, si è risolto in favore del giudice ordinario, anziché dell'autodichia del Senato, il dubbio sulla giurisdizione in una controversia vertente sull'impugnazione proposta dal dipendente di un gruppo parlamentare del Senato contro una delibera del Consiglio di Presidenza incidente sul rapporto di lavoro, e ciò sul rilievo che il rapporto di lavoro fa capo esclusivamente al gruppo parlamentare, che, nei confronti del proprio dipendente, non si atteggia ad organo dell'istituzione, ma ad associazione non riconosciuta.

Per quanto invece riguarda l'impugnazione del provvedimento di espulsione del parlamentare eletto dal gruppo senatoriale di appartenenza, viene in rilievo un rapporto che si svolge tutto all'interno del piano di attività parlamentare del gruppo stesso, nella sua configurazione di associazione necessaria di diritto pubblico strumentale all'esercizio della funzione legislativa e al funzionamento del Senato della Repubblica: si verte, pertanto, in una sfera che, attenendo ad una articolazione fondamentale dell'Assemblea parlamentare, non sfugge al cono d'ombra che gli interna corporis e il diritto parlamentare frappongono alla giustiziabilità delle situazioni giuridiche individuali dinanzi al giudice comune dei diritti soggettivi.

La tutela "reintegratoria" richiesta da un senatore che aziona la domanda di nullità o di annullamento del provvedimento espulsivo dinanzi al giudice ordinario, è infatti idonea ad incidere sulla compagine numerica del Gruppo parlamentare a cui tale senatore apparteneva e, quindi, sulla sua attività di organismo politico del Senato e di soggetto necessario al funzionamento dell'Assemblea parlamentare.

L'esclusione, in siffatta evenienza, dell'ammissibilità del ricorso alla giurisdizione del giudice comune, è in linea con le indicazioni che emergono dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, che ha evidenziato (sentenza n. 379 del 1996) l'esistenza di limiti all'intervento della giurisdizione su attività e procedure interamente riconducibili all'ordinamento parlamentare, sottolineando che l'autonomia degli organi costituzionali "non si esaurisce nella normazione, bensì comprende - coerentemente - il momento applicativo delle norme stesse, incluse le scelte riguardanti la concreta adozione delle misure atte ad assicurarne l'osservanza".



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