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ESPROPRIAZIONE, SERVITU’ COATTIVA E GIUDICATO RESTITUTORIO

7 marzo 2021

Il GIUDICATO RESTITUTORIO (AMMINISTRATIVO O CIVILE, E SCATURENTE O MENO DA UNA PROCEDURA ESPROPRIATIVA ILLEGITTIMA O DA UN CONTRATTO ANNULLATO), SE SI LIMITA A STABILIRE IL SOLO OBBLIGO DI RESTITUIRE AL PROPRIETARIO UN’AREA OCCUPATA SINE TITULO DALL’AMMINISTRAZIONE, NON PRECLUDE LA SUCCESSIVA ADOZIONE DI UN ATTO DI IMPOSIZIONE DI UNA SERVITU’ DI PASSAGGIO SULLA STESSA AREA, IN QUANTO TALE ATTO PRESUPPONE IN OGNI CASO IL MANTENIMENTO DEL DIRITTO DI PROPRIETA’ IN CAPO AL SUO TITOLARE (Adunanza plenaria n. 5 del 2020)


L’art. 42-bis del d.P.R. n. 327/2001 (norma che regola la fattispecie del provvedimento di acquisizione di un bene utilizzato senza titolo per scopi di interesse pubblico) è applicabile, secondo l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, anche al di fuori dei casi in cui vi sia stato un procedimento espropriativo e questo non si sia concluso, o si sia concluso con un provvedimento poi annullato dal giudice amministrativo.

In particolare, la stessa formulazione letterale dell’art. 42- bis induce a ritenere che questa disposizione, lungi dal poter trovare applicazione solo nei casi in cui “la P.A. agisce nella sua veste di autorità, sia pure senza un valido titolo”, deve essere invece intesa come una “disposizione di chiusura” del sistema.

Dal comma 1 della norma in discorso si evince che i presupposti fondanti il potere di acquisizione siano unicamente due, e cioè l’avvenuta modifica del bene immobile e la sua utilizzazione per scopi di interesse pubblico, senza che assumano alcun rilievo le circostanze che hanno condotto alla occupazione sine titulo e alla riconducibilità di tali circostanze a vicende di natura privatistica o pubblicistica.

La natura di “norma di chiusura”, propria dell’art. 42-bis del testo unico sulle espropriazioni, rende evidente la finalità di ricondurre nell’alveo legale del sistema tutte le situazioni in cui l’amministrazione, quale che ne sia la causa, si trovi ad avere utilizzato la proprietà privata per ragioni di pubblico interesse, ma in difetto di un valido titolo legittimante.

Ne consegue che il dato letterale della norma non osta all’applicazione dell’art. 42-bis nelle ipotesi in cui il difetto di titolo si manifesti per intervenuta declaratoria di nullità ovvero per annullamento del contratto di compravendita.

Tale articolo trova possibile applicazione in tutti i casi in cui un bene immobile, che si trovi nella disponibilità dell’amministrazione, sia stato da questa utilizzato (o sia da questa in corso di utilizzazione), e dunque modificato nella sua consistenza materiale, per finalità di pubblico interesse; finalità che denota l’agire dell’amministrazione quale pubblica autorità.

Se l’amministrazione – dopo avere individuato per il tramite di un generale e preventivo atto di esercizio di potestà, anche in ossequio al principio di legalità, la finalità di pubblico interesse – decida di perseguire quest’ultima non già attraverso procedimenti amministrativi tipici ed esercizio di poteri provvedimentali, bensì ricorrendo a ordinari modelli privatistici (nei limiti consentiti dall’ordinamento), la predetta finalità di interesse pubblico resta immanente al contratto ed al rapporto così posto in essere.

Ciò comporta, di conseguenza, che, laddove la finalità di pubblico interesse non risulta (o non risulta più) essere perseguita (o perseguibile) per il tramite del contratto, non può escludersi, in generale, che l’amministrazione possa intervenire sul rapporto insorto (ovvero sulle conseguenze di fatto di un rapporto comunque cessato) per il tramite dell’esercizio di poteri pubblicistici.

Una volta riconosciuta l’applicazione “ampia” dell’art. 42-bis – cioè in tutti i casi in cui “per qualsiasi ragione un immobile altrui sia utilizzato (sine titulo) dall’amministrazione per scopi di interesse pubblico” – l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha dovuto accertare se il giudicato civile precluda o meno l’emanazione di un atto di imposizione di una servitù di passaggio sullo stesso bene, e ciò anche nel caso in cui la sentenza non abbia espressamente inibito l’esercizio dei poteri previsti dall’art. 42-bis.

Al riguardo, se oggetto del petitum è il recupero del bene alla piena proprietà e disponibilità del soggetto privato originariamente proprietario, è evidente che un provvedimento che, senza incidere sulla titolarità del bene, imponga sullo stesso ex novo (e, quindi, ex nunc) una servitù, non rientra nell’ambito oggettivo del giudicato, e dunque non si pone in contrasto con lo stesso, trattandosi di ipotesi diversa da quella inibita dal giudicato e assolutamente coerente con (e anzi presupponente) il mantenimento della proprietà in capo al privato.

In particolare, il comma 6 dell’art. 42-bis del testo unico sulle espropriazioni (in base al quale “le disposizioni di cui al presente articolo si applicano, in quanto compatibili, anche quando è imposta una servitù e il bene continua a essere utilizzato dal proprietario o dal titolare di un altro diritto reale”) non deve essere interpretato nel ristretto senso di consentire all’amministrazione l’adozione di un provvedimento solo quando “è stata” imposta una servitù, poi venuta meno.

Deve, invece, ritenersi che, una volta venuto meno il titolo di proprietà del bene (o di sua legittima disponibilità), la pubblica amministrazione, alla quale è riconosciuto il potere di avvalersi dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, in considerazione di quanto “modificato” sul bene appreso per la realizzazione dell’opera pubblica, può limitare l’esercizio del potere, e, quindi, procedere con limitazioni parziali delle facoltà e/o dei poteri connessi al diritto reale del privato, adottando decreti di imposizione di servitù, in luogo della piena acquisizione del bene medesimo.




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