IL CASO
Il caso in commento è stato oggetto di attenzione da parte della cronaca giornalistica, in quanto l’associazione che aveva ottenuto in concessione l’antico monastero situato nella Ciociaria, chiamato “Cerosa di Trisulti”, farebbe capo allo statunitense, stratega di Donald Trump, Steve Bannon, il quale avrebbe voluto insediarvi una scuola di formazione per giovani sovranisti.
Per cui la decisione finale del Consiglio di Stato, che ha comportato la restituzione alla collettività dello storico complesso religioso-monumentale, è stata accolta con grande favore da parte dei mezzi di comunicazione.
Tuttavia, è altrettanto interessante la questione giuridica che è stata sottoposta ai giudici amministrativi che si sono occupati del caso.
Ricapitoliamo i fatti.
L’Associazione DHI Dignitatis Humanae Institute, in esito ad una procedura selettiva indetta dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, aveva ottenuto in concessione, il 14 febbraio 2018, il bene immobile appartenente al demanio culturale dello Stato denominato “Certosa di Trisulti” sito in località Collepardo (FR).
Il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, con decreto del 16 ottobre 2019, ha successivamente disposto l’annullamento d’ufficio, ai sensi e per gli effetti dell’art. 21 nonies della L. n. 241/90, di tale concessione, avendo accertato le seguenti difformità rispetto a quanto dichiarato dall’associazione nella propria domanda:
- carenza della personalità giuridica (invece, prevista dalla lex specialis) acquisita solo successivamente;
- carenza del requisito concernente la previsione statutaria dello svolgimento di attività di tutela, di promozione, di valorizzazione o di conoscenza dei beni culturali e paesaggistici, atteso che lo statuto della DHI non prevedeva la predetta finalità, acquisita solo successivamente mediante integrazione dello statuto medesimo;
- carenza del requisito concernente la documentata esperienza quinquennale nel settore della collaborazione per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale, atteso che l’associazione DHI risultava essere stata costituita in data 8 novembre 2016.
Tali requisiti dovevano essere posseduti “a pena di inammissibilità” dalle associazioni o fondazioni riconosciute partecipanti alla selezione e dovevano essere oggetto di apposita autocertificazione resa ai sensi del Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445.
Secondo il Ministero, dunque, nella specie mancavano in capo alla DHI i suddetti requisiti richiesti a pena di esclusione per la partecipazione alla selezione e il provvedimento di concessione era stato conseguito dall’associazione sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazioni false o mendaci.
Il T.A.R. Lazio, sezione di Latina, con la sentenza del 26 maggio 2020 n. 173, ha accolto il ricorso presentato dall’associazione Dignitatis Humanae Institute avverso il suddetto provvedimento di annullamento in autotutela, ritenendolo illegittimo in quanto adottato: a) una volta trascorso il termine di diciotto mesi, indicato dall’art. 21 nonies L. n. 241/1990 quale limite temporale ultimo oltre il quale l’amministrazione non può annullare in autotutela i provvedimenti di rilascio di autorizzazione ovvero di attribuzione di vantaggi economici; b) in mancanza del requisito dell’accertamento con sentenza passata in giudicato della falsità commessa con la suddetta autocerticazione.
Il Consiglio di Stato, in fase di appello, con la sentenza della VI sezione, n. 2207 del 15 marzo 2021, ha invece riformato la sentenza del T.A.R. ritenendo legittimo l’annullamento d’ufficio disposto dal Ministero, sulla base di un interessante percorso argomentativo.
LA QUESTIONE GIURIDICA DIBATTUTA
Come è noto, la legge n. 124 del 2015 ha introdotto un’ importante innovazione al testo dell’art. 21 nonies della L n. 241/1990, stabilendo il termine massimo di diciotto mesi per l’annullamento dei “dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici”, e ciò allo scopo di introdurre elementi di certezza nei rapporti giuridici costituiti con il provvedimento illegittimo, scongiurando il rischio di una esposizione sine die alla potestà annullatoria di atti che consentono lo svolgimento di attività economiche.
Nel caso deciso dai giudici amministrativi si è in presenza di un’associazione che ha conseguito un vantaggio economico costituito dall’assegnazione di un bene di rilievo culturale, all’esito di una selezione, tramite concessione; mentre l’annullamento d’ufficio del provvedimento è intervenuto ben oltre il termine dei diciotto mesi.
Il comma 2 bis dell’art. 21 nonies, in deroga alla predetta regola generale, prevede però che: “I provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall'amministrazione anche dopo la scadenza del termine di diciotto mesi di cui al comma 1, fatta salva l'applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445.”.
Nel caso in questione è pacifico che il provvedimento amministrativo è stato conseguito sulla scorta di dichiarazioni rese al momento della presentazione della domanda di partecipazione alla selezione, poi dimostratesi non veritiere.
Ora, il richiamato comma 2 bis pone dei notevoli problemi interpretativi e applicativi, in quanto, mentre da un lato al fine dell’operatività della deroga prevede come necessario l’accertamento con sentenza passata in giudicato della falsità, dall’altro, fa salva “l'applicazione delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445”, dove il riferimento è all’art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000, che prevede la decadenza dai benefici conseguiti per effetto di dichiarazioni false (ma senza prescrivere l’accertamento irrevocabile della relativa responsabilità penale e a prescindere dalla condizione soggettiva di dolo o colpa del dichiarante). Vi è dunque un’antinomia fra le due previsioni, in quanto, se per un verso si può pensare che il legislatore del 2015 abbia inteso effettuare un bilanciamento fra esigenze di certezza delle situazioni giuridiche e interesse alla repressione degli illeciti penali e alla rimozione degli effetti favorevoli indebitamente conseguiti dai loro autori, rinvenendo il punto di equilibrio nell’esistenza di una sentenza penale di condanna passata in giudicato, per altro verso tale finalità verrebbe vanificata dall’annullamento in autotutela in conseguenza della decadenza automatica prevista dall’art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000.
Per cui si è proposto in dottrina d’ intendere il riferimento alle “sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445” come un mero refuso del legislatore, essendo comunque necessaria, al fine dell’annullamento d’ufficio oltre il termine dei diciotto mesi, l’esistenza di una condanna penale passata in giudicato anche nelle ipotesi di falsità commesse nelle autodichiarazioni, oppure di interpretare il comma 2 bis dell’art. 21 nonies nel senso di ritenere sufficiente la decadenza nelle sole ipotesi in cui la falsità sia agevolmente accertabile dall’amministrazione per effetto del controllo delle banche dati ufficiali, mentre sarebbe necessaria la sentenza definitiva nei diversi casi in cui l’accertamento del falso esiga complesse indagini istruttorie e incerte valutazioni giuridiche.
Ebbene, nel caso esaminato, il T.A.R. Latina, pur in mancanza dei requisiti di partecipazione in capo all’associazione DHI al momento della presentazione della domanda, e risultando pacifica la non veridicità delle dichiarazioni rese ai sensi del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, ha ritenuto che l’amministrazione avrebbe potuto annullare il provvedimento, adottato sulla scorta della dichiarazione non veritiera, solo all’esito del giudizio penale (e quindi dopo il passaggio in giudicato della relativa sentenza) eventualmente avviato nei confronti del dichiarante.
LA SOLUZIONE OFFERTA DAL CONSIGLIO DI STATO
Il Consiglio di Stato si è orientato diversamente, ritenendo che nella vicenda in oggetto dovessero trovare contemporanea applicazione l’art. 21-nonies, comma 1, della L. 241/1990 e l’art. 75, comma 1, del d.P.R. n. 445/2000, osservando in particolare che: “Il rapporto osmotico tra le due disposizioni è tale che la seconda incide sulla prima anestetizzando l’applicazione del termine di diciotto mesi per l’esercizio del potere di autotutela. Le due norme, dunque, non sono antitetiche tra di loro, ma trovano il punto d’incontro nel principio per il quale l’affidamento va garantito solo se è legittimo e se quindi il provvedimento favorevole non è stato acquisito coartando o inquinando o (ancora) deviando la volontà dell’amministrazione attraverso non veritiere rappresentazione della realtà, sia con la produzione di documentazione fuorviante che con la predisposizione di dichiarazioni dal contenuto omissivo ovvero non rispondente a quanto era richiesto di dichiarare.”.
Dunque, il Consiglio di Stato, da un lato ha valorizzato il richiamo contenuto nel comma 2 bis dell’art. 21 nonies alle “sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445” e quindi all’art. 75 del d.P.R. 445/2000 e alla sanzione amministrativa della “decadenza dai benefici”, sanzione immediatamente applicabile, dall’altro lato ha osservato che “la necessità di attendere la sentenza penale di condanna per poter “sforare” il termine di diciotto mesi per l’adozione del provvedimento di annullamento in autotutela, è condizione limitata alla sola ipotesi in cui la dichiarazione non veritiera o infedele sia stata già oggetto dell’avvio di un procedimento penale nei confronti del dichiarante, di talché, perdurante il processo penale, è impedito all’amministrazione di rimuovere il provvedimento amministrativo che, insieme con la dichiarazione non veritiera, va considerato quale “corpo di reato”. Laddove tale esigenza non vi sia, perché non è pendente alcun procedimento penale, l’amministrazione ha il dovere di rimuovere il provvedimento amministrativo adottato illegittimamente per cause assolutamente rilevanti ed esclusivamente riconducibili all’apporto procedimentale infedele della parte interessata, ciò anche nel rispetto del principio di leale collaborazione il cui onere, positivizzato ora nell’art. 1, comma 2-bis, l. 241/1990, incombe anche a carico del “privato”, in un’ottica di bilanciamento degli interessi (pubblici e privati) in gioco.”.
ALCUNI ASPETTI CRITICI DELLA SOLUZIONE INTERPRETATIVA ADOTTATA DAL CONSIGLIO DI STATO
E’ sicuramente ragionevole il principio di diritto affermato dal Consiglio di Stato con la sentenza in commento, secondo cui: “il limite temporale dei diciotto mesi, introdotto nel 2015, in ossequio al principio del legittimo affidamento con riguardo alla posizione di colui che ha ottenuto un provvedimento autorizzatorio o di attribuzione di vantaggi economici, trova applicazione, solo se il comportamento della parte interessata, nel corso del procedimento o successivamente all’adozione dell’atto, non abbia indotto in errore l’amministrazione distorcendo la realtà fattuale oppure determinando una non veritiera percezione della realtà o della sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge e se grazie a tale comportamento l’amministrazione si sia erroneamente determinata (a suo tempo) a rilasciare il provvedimento favorevole. Nel caso contrario, non potendo l’ordinamento tollerare lo sviamento del pubblico interesse imputabile alla prospettazione della parte interessata, non può trovare applicazione il limite temporale di diciotto mesi oltre il quale è impedita la rimozione dell’atto ampliativo della sfera giuridica del destinatario.”.
E peraltro anche la soluzione concreta del caso appare soddisfare esigenze di giustizia sostanziale.
Resta il fatto della difficoltà di superare in via interpretativa la volontà del legislatore di confinare l’eccezione alla regola generale del rispetto dei diciotto mesi alle ipotesi certe e definite in cui vi sia un accertamento irrevocabile della responsabilità penale; non essendo quest’ultime ipotesi equiparabili al meccanismo della decadenza di cui all’art. 75 del d.P.R. n. 445/2000, che opera prescindendo dall’accertamento di una responsabilità e non riveste di per sé carattere sanzionatorio, ma assolve la funzione di ripristino della legalità violata. L’art. 75 del d.P.R. n. 445/2000 ha dunque un campo di applicazione più vasto e tale da assorbire anche le ipotesi di dolosa induzione in errore dell’amministrazione alle quali ha fatto riferimento il Consiglio di Stato.
Per cui se nella fattispecie concreta la soluzione interpretativa escogitata dal Consiglio di Stato può risultare convincente, non risultando in alcun modo tutelabile l’affidamento della associazione concessionaria del bene che ha indotto completamente in errore l’amministrazione, in altri casi, in cui l’esigenza lato sensu “punitiva” del dichiarante non emerga con altrettanta evidenza, al di là di una oggettiva non veridicità della dichiarazione, il conflitto fra le due disposizioni contenute nel comma 2 bis dell’art. 21 nonies si riproporrebbe in tutta la sua gravità e le soluzioni dei singoli casi concreti potrebbero divergere, dipendendo da un concreto bilanciamento di valori effettuato di volta in volta dal giudice, così vanificandosi quelle esigenze di certezza delle situazioni giuridiche che il legislatore aveva inteso tutelare.
Inoltre, il Consiglio di Stato sembra coniare in via giurisprudenziale una nuova regola al fine di separare i momenti applicativi delle due previsioni antinomiche contenute nel comma 2 bis, ovvero: se è pendente un procedimento penale nei confronti del dichiarante occorre attenderne la conclusione con sentenza definitiva; se invece il procedimento penale non è stato avviato l’amministrazione può servirsi dell’automaticità della sanzione decadenziale di cui all’art. 75 del d.P.R. n. 445/2000 per disporre l’annullamento d’ufficio in deroga al termine dei diciotto mesi.
In disparte la non univocità della locuzione “avvio del procedimento penale”, così come usata dal Consiglio di Stato, non essendo chiaro, seguendo il precorso interpretativo del Giudice di appello, se ci si voglia riferire all’avvio delle indagini preliminari in senso tecnico (iscrizione nel registro degli indagati) o invece al vero e proprio esercizio dell’azione penale, alla suddetta interpretazione conseguirebbe l’onere per l’amministrazione di informarsi sullo stato del procedimento penale stesso, prima di adottare un provvedimento di annullamento di ufficio basato sul semplice riscontro della falsità. Inoltre, l’applicazione dell’uno o dell’altro periodo del comma 2 bis dipenderebbe da un avvenimento eventuale ed esterno alla fattispecie, costituito dall’avvio o meno di diverso iter in altra sede.
In conclusione, pur dovendosi apprezzare la ragionevolezza della soluzione raggiunta dal Consiglio di Stato, tuttavia la sentenza in commento non risolve in modo appagante tutte le questioni poste dal comma 2 bis dell’art. 21 nonies, che oggettivamente contiene un’antinomia per la cui risoluzione sarebbe auspicabile un intervento legislativo.