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Il doppio cognome e il diritto all'identità personale

di Paolo Nasini • 25 dicembre 2022

PREMESSA SU CORTE COSTITUZIONALE N. 131 DEL 2022

La Corte costituzionale, dopo avere esaminato le questioni di legittimità costituzionale sulle norme che regolano, nell’ordinamento italiano, l’attribuzione del cognome ai figli, si è pronunciata sulla disposizione che non consente ai genitori, di comune accordo, di attribuire al figlio il solo cognome della madre e su quella che, in mancanza di accordo, impone il solo cognome del padre, anziché quello di entrambi i genitori.

Le norme censurate sono state dichiarate illegittime per contrasto con gli articoli 2, 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli articoli 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

In particolare, la Corte ha ritenuto discriminatoria e lesiva dell’identità del figlio la regola che attribuisce automaticamente il cognome del padre.

Nel solco del principio di eguaglianza e nell’interesse del figlio, entrambi i genitori devono poter condividere la scelta sul suo cognome, che costituisce elemento fondamentale dell’identità personale.

Pertanto, la regola è divenuta che il figlio assume il cognome di entrambi i genitori nell’ordine dai medesimi concordato, salvo che essi decidano, di comune accordo, di attribuire soltanto il cognome di uno dei due.

In mancanza di accordo sull’ordine di attribuzione del cognome di entrambi i genitori, resta salvo l’intervento del giudice in conformità con quanto dispone l’ordinamento giuridico.


Il doppio cognome alla luce della decisione della Corte Costituzionale e le incognite dell’intervento legislativo: il problema dei valori-parametro di riferimento (estratto)

a cura di Paolo Nasini (per visualizzare l'articolo integrale clicca qui)


Il “nome” (in senso lato) di ogni persona fisica, costituito dal prenome e dal cognome , identifica la persona umana, quale segno distintivo della stessa e quindi quale fondamentale aspetto dell’identità personale di un soggetto .

Alla funzione individualizzante del nome, complessivamente inteso, d’altronde, si accompagna, storicamente, anche la funzione di associare una determinata persona ad una famiglia o ad un gruppo sociale familiare.

Il cognome, cioè, sintetizza il portato di tradizione familiare che ciascun individuo contribuisce a tramandare. 

D’altra parte, alla funzione individualizzante del nome e del cognome è associata la funzione di identificazione univoca della persona nel contesto sociale di riferimento.

Di qui la sussistenza di un interesse pubblico alla stabilità del nome, affinché la persona sia univocamente riconoscibile nel tempo nell’ambito del sopracitato contesto sociale di riferimento e ne sia certo lo status.

Infatti, il comma 3 dell’art. 6 c.c. non ammette cambiamenti, aggiunte o rettifiche al nome, se non nei casi e con le formalità dalla legge indicati. 

Correlativamente, la centralità e l’importanza del diritto al nome giustificano una disciplina civilistica a tutela dello stesso (art. 7 e 8 c.c.), che contempla l’esperibilità delle azioni inibitoria, di reclamo, usurpazione ed accertamento nonché di risarcimento del danno, patrimoniale e non patrimoniale .

Le diverse “dimensioni” del nome – interna, esterna, familiare – possono in realtà collidere, in particolare la dimensione esterna e familiare del nome potendo finire per prevalere e “soffocare” quella “interna”, più intimamente legata ad un concetto di identità personale strettamente individuale.

La multidimensionalità del diritto al “nome”, quale diritto fondamentale della personalità, nonché elemento di collegamento e riconoscimento rispetto ad un determinato gruppo familiare, che interseca però anche interessi pubblici rilevanti, trova un suo riconoscimento e una tutela anche a livello costituzionale. 

Infatti, il “nome”, se, da un lato, rientra certamente tra i diritti inviolabili dell'uomo riconosciuti dall’art. 2 Cost., dall’altro lato, è menzionato dall’art. 22 Cost., unitamente alla cittadinanza e alla capacità giuridica, tra gli aspetti della persona dei quali quest’ultima non può essere privata per motivi politici, a riprova della chiara rilevanza “sociale” del nome, equiparato alla cittadinanza. 

Mentre la scelta del prenome è tendenzialmente libera, salvo quanto stabilito dall'art. 34, d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396 , la scelta del cognome – essendo l’elemento del nome che, come detto, consente di collegare la persona alla formazione sociale che lo accoglie e tramandarne così il legame familiare – è storicamente da sempre più vincolata, perché inscindibilmente correlata allo status filiationis

La dimensione necessariamente “familiare” del cognome, emerge chiaramente dalla disciplina prevista dal codice civile in materia nell’ambito dei rapporti familiari, con particolare riguardo agli artt. 143 bis, 237, 262 e 299 c.c. . 

A tal proposito, occorre rammentare come la disciplina in questione sia mutata in modo significativo, nel corso degli anni, rispetto all’impianto originario del codice civile. 

Le modifiche sociali e il diverso “sentire” che hanno portato alla riforma del diritto di famiglia del 1975 e ancora prima a far venir meno l’indissolubilità del matrimonio, hanno contribuito a far emergere la necessità di garantire, da un lato, l’eguaglianza e non discriminazione tra i coniugi, e, dall’altro lato, la parità e l’individualità di ogni componente familiare, soprattutto con riferimento all’identità personale

Si è, quindi, andato sempre più acuendo il problema del cognome materno nell’ambito della ricerca della suddetta uguaglianza tra coniugi, in conformità al combinato disposto degli artt. 3 e 29 Cost. 

La disciplina codicistica in materia di nome nell’ambito dei rapporti familiari, in tal senso, pur a fronte della riforma del 1975, è rimasta disallineata rispetto alle direttrici interpretative appena ricordate. 

L’art. 143 bis c.c., ai sensi del quale ‹‹la moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito e lo conserva durante lo stato vedovile, fino a che passi a nuove nozze››, seppure a ben vedere introduca una facoltà per la moglie e non un obbligo, continua a perpetrare quell’idea di disuguaglianza, "retaggio di una concezione patriarcale della famiglia", ritenuto dalla Corte Costituzionale "non più coerente con i principi dell'ordinamento e con il valore costituzionale dell'uguaglianza fra uomo e donna" . 

La riforma del 1975, cioè, non ha comunque fatto venire meno il rapporto asimmetrico tra marito e moglie con particolare riguardo alla materia del nome, e ciò persino nell’ambito della separazione e del divorzio .

Questa condizione di incompleta eguaglianza, non solo tra i coniugi, ma anche tra tutti i componenti della famiglia, e insufficiente valorizzazione dell’identità personale di ogni componente familiare, è emersa in modo intenso con riguardo alla disciplina relativa all’attribuzione del cognome dei figli, legittimi e naturali. 

Senza considerare in tale sede le questioni attinenti all’adozione di maggiorenni e minorenni, l’attribuzione del cognome al figlio nato nel matrimonio si è da sempre fondata su una regola non scritta, ritenuta, però, pacificamente cogente: l’attribuzione automatica del cognome paterno. Secondo un’interpretazione, si tratterebbe di una norma consuetudinaria, in ragione della risalente e costante trasmissione del patronimico. Secondo altra impostazione, si tratterebbe di una norma c.d. implicita o presupposta, ricavabile da vari indici normativi e comunque dall'insieme delle previsioni che si occupano del cognome dei figli. 

La Corte Costituzionale ha fatto propria la tesi della “norma di sistema”, la consuetudine postulando una reiterazione e continuità di comportamenti conformi ad una medesima regola da parte della generalità dei consociati nella convinzione della loro doverosità, elementi non riscontrabili nella vicenda dell'attribuzione del cognome paterno, segnata da un'attività vincolata dell'ufficiale dello stato civile, a fronte della quale la volontà ed il convincimento dei singoli dichiaranti non trova spazio. 

La suddetta regola, implicita, del patronimico è stata da tempo tacciata di illegittimità costituzionale: in dottrina si è sottolineato come il metodo della scelta tra il cognome del padre e quello della madre o ancora in caso di mancanza di accordo quello del cumulo dei due cognomi, sia soluzione più rispettosa del principio di uguaglianza tra i coniugi. 

Per quanto riguarda, invece, la disciplina dell’attribuzione del cognome nell'ipotesi di figlio nato fuori dal matrimonio, ai sensi dell’art. 262, comma 1, c.c., nell’originaria formulazione, il figlio naturale assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto, precisando però che se il riconoscimento viene effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio naturale assume il cognome del padre. 

Il secondo comma, invece, disciplinando il caso del riconoscimento paterno o dell’accertamento della paternità avvenuti successivamente rispetto al riconoscimento da parte della madre, prevede che il figlio può assumere il cognome del padre aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della madre. 

Diversamente, la norma nulla prevede in caso di successivo riconoscimento materno, perché in tal caso, viene semplicemente applicata la suddetta regola del patronimico, il cognome rimanendo solo quello del padre.

Il terzo comma, infine, prevedeva che nel caso di minore età del figlio fosse il giudice a decidere circa l’assunzione del cognome del padre. 

Le disposizioni sono chiaramente coerenti con la tradizione favorevole al patronimico, consentendo l’acquisizione il solo cognome paterno, anche in sostituzione di quello della madre e anche a distanza di molti anni da dal riconoscimento di quest’ultima, senza tener conto della circostanza che il cognome materno sia già divenuto autonomo segno distintivo dell'identità personale del figlio.

L’art. 262 c.c., inciso dalla Corte Costituzionale, è stato modificato dal d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, che, oltre ad eliminare ogni riferimento alla qualificazione “naturale” per i figli nati fuori dal matrimonio, ha aggiunto un nuovo terzo comma e modificato il precedente – oggi quarto ed ultimo comma -, prevedendo che nel caso di minore età del figlio, il giudice decide circa l’assunzione del cognome del genitore, previo ascolto del figlio minore, che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento . 

La normativa recente esprime la necessità di piena uguaglianza tra i genitori (sostituendo in tal senso il mero riferimento al padre precedentemente contemplato dall’art. 262 c.c.) e di valorizzazione della personalità del figlio ancorché minore (attraverso l’ascolto dello stesso), trattandosi di elemento, come detto, caratterizzante la propria identità personale, sì che la decisione non può che essere assunta in funzione del solo miglior interesse del figlio. 

La riforma, d’altronde, non ha “intaccato” la norma, generale ed implicita, sull’attribuzione del patronimico, mantenendo il grado di asimmetria tra genitori con conseguente riflesso sia sull’affermazione della piena uguaglianza tra gli stessi, sia sulla tutela del diritto pieno all’identità personale e familiare del figlio. 

L’evidente frizione delle disposizioni codicistiche (ed extracodicistiche, con specifico riferimento a quelle sull’ordinamento civile, di cui al d.p.r. n. 396 del 2000) con i principi e i valori tutelati dalla Costituzione (in particolare dagli artt. 2, 3 e 29 Cost) ha inevitabilmente portato la giurisprudenza, civile, amministrativa e, soprattutto, costituzionale ad interrogarsi più volte sulla legittimità dell’asimmetria sopra evidenziata, tentando là dove possibile, un’interpretazione costituzionalmente orientata, oppure rimettendo la questione al Giudice delle Leggi per addivenire ad una declaratoria di incostituzionalità della normativa. 

Per completezza, va ricordato che, in relazione alle unioni civili, è riconosciuto alle parti dell’unione il diritto di scelta di un cognome comune, così come previsto dal comma 10, art. 1, l. n. 76 del 2016, basato sul libero consenso della coppia di poter, altresì, anteporre o posporre al proprio cognome quello del partner. 


Con la sentenza n. 131 del 2022 la Corte Costituzionale ha decisamente superato il proprio precedente “self restraint” nel sostituirsi al legislatore, finendo, probabilmente, però, per andare anche al di là di ciò che era non solo necessario, ma anche opportuno, adottando, peraltro, delle conclusioni non del tutto coerenti con l’articolato motivazionale approntato. 

La decisione, cioè, non può – a parere di chi scrive – andare esente da qualche critica, soprattutto in quanto la soluzione forzatamente voluta di imporre giudizialmente la regola automatica del doppio cognome, da un lato, sembra tradire parzialmente le stesse premesse motivazionali indicate dalla corte, o quantomeno non considerare pienamente tutti i valori in gioco; dall’altro lato, finisce non solo per sostituirsi al legislatore, ma anche per svolgere una funzione sostanzialmente “educativa”. 

Come più sopra è stato ricordato, infatti, il “nome”, inteso come insieme di prenome e cognome, è prima di tutto un connotato fondamentale della persona, elemento caratterizzante in ambito sociale il singolo individuo e, quindi, va considerato in primis in relazione e nella prospettiva della protezione della sua identità personale. 

In questo senso, quindi, il senso di appartenenza del proprio io nella proiezione interna e esterna così come connotato dal nome e cognome può, a ben pensarci, confliggere con il cognome etero-attribuito all’individuo al momento della nascita: in particolare, nell’evolversi della propria coscienza di sé la persona può legittimamente ritenersi non adeguatamente “rappresentata” all’esterno dal proprio nome o, per quanto qui interessa, dal proprio cognome. 

Certamente, il diritto della persona a riconoscersi appieno nel proprio nome e cognome, che, se portato all’estremo, potrebbe condurre a legittimare un mutamento – peraltro potenzialmente molteplice – del proprio nome e cognome, sconta due limiti essenziali: il primo, inevitabile, per cui non potendo l’individuo alla nascita autoattribuirsi il nome e cognome, è ontologica l’etero-attribuzione di un potere-dovere ai genitori; il secondo, l’interesse pubblico a che la persona sia chiaramente e, per quanto possibile, stabilmente individuata e identificata nell’ambito sociale di riferimento. 

Questo secondo aspetto incide, in particolare, sull’eventuale interesse della persona al mutamento del proprio nome e cognome, che, come si è detto, l’art. 89 d.p.r. n. 396 del 2000, tutela solo limitatamente ancorché le relative maglie applicative siano state allentate dalla giurisprudenza.

Proprio tale limitazione, d’altronde, se non interpretata nel senso che alla persona è data la possibilità di eliminare uno dei due cognomi attribuiti o sostituire uno all’altro liberamente, quantomeno per una volta sola o un numero limitato di volte nel corso della propria esistenza, finirebbe per far prevalere, in modo potenzialmente eccessivo e sproporzionato e, quindi, in contrasto tanto con l’art. 2 Cost., che con l’art. 8 Cedu, l’interesse pubblico alla stabilità del “nome” sul diritto all’identità personale dell’individuo. 

L’aspetto del “conforme sentire” dell’individuo rispetto alla decisione dei genitori – anche laddove minorenne, purché capace di discernimento – non è stato oggetto della decisione della Corte, e nemmeno viene adeguatamente scandagliato, ma è, secondo chi scrive, il vero cuore del diritto al nome, in quanto la tutela approntata dall’ordinamento si giustifica proprio perché l’individuo si ritiene “identificato” dal nome che porta. 

Laddove però non si sentisse identificato da uno dei due cognomi dovrebbe essere libero di sostituirlo o, in caso di doppio cognome, dovrebbe poterlo eliminare, cosa che ai sensi dell’art. 89 non è detto sia così semplice poi nell’applicazione pratica. 

Quanto precede, d’altronde, deve far riflettere sulla eccessiva importanza che alla regola ex lege del patronimico viene data se vista nell’ottica del diritto all’identità personale: una regola di chiusura, infatti, serve (e c’è in tutti gli ordinamenti) perché una persona deve essere iscritta nei registri alla nascita, e questo nell’interesse della persona stessa e pubblico alla corretta identificazione, ma si tratta, così come nel caso del cognome attribuito per consenso espresso dei genitori, di un’etero-attribuzione, sì che il figlio comunque potrebbe, nel maturare della propria autocoscienza, non riconoscersi nell’uno come nell’altro. 

Nell’ottica dell’individuo, cioè, qualunque sia la regola è comunque una “imposizione necessaria” non autodeterminata, e, pertanto, il patronimico di per sé non lede il diritto all’identità personale, così come il matronimico, o il doppio cognome, ma al contempo ciascuna delle tre soluzioni potrebbe finire per contrastare con detto diritto qualora, nel crescere il figlio si ritenga non correttamente rappresentato o identificato da quel nome o cognome. 

Sempre considerando la prospettiva del figlio – l’unica, si ripete, realmente rilevante in materia di nome e cognome -, la scelta tanto del nome quanto del cognome da parte dei genitori rappresenta, a ben vedere, la prima “decisione” genitoriale da effettuare di comune accordo esclusivamente nell’interesse del figlio: sì perché attribuendo il prenome si segna la connotazione sociale del figlio e parimenti vale o dovrebbe valere anche per il cognome.

Per quest’ultimo, infatti, non è detto, si ripete, che il doppio cognome sia effettivamente la migliore soluzione per il figlio, perché i genitori potrebbero ritenere più opportuno che sia il solo cognome della madre o del padre. 

Ma se così è, pare evidente che una regola ex lege che prevede, in mancanza di una espressa volontà diversa, il patronimico, non può dirsi in alcun modo illegittima, sotto il profilo sin qui considerato, perché implicitamente alla base dell’operatività della regola vi è un tacito accordo dei genitori che non intendono attribuire un doppio cognome o il cognome della madre. 

Si consideri al riguardo che non può nemmeno valorizzarsi eccessivamente il dato per cui la madre potrebbe essere storicamente più arrendevole o con minor “potere contrattuale”: ciò sia perché ormai siamo nel 2022, sia perché se per la scelta del prenome è necessario l’accordo, il che implica la possibilità anche per la madre di “decidere”, non si vede perché ciò non possa valere anche per il cognome. 

Del resto è la stessa Corte che ha dovuto sottolineare come occorra comunque l’accordo pure per l’ordine preferenziale, non essendovi una regola “bipartisan” applicabile in questo caso: se così è, allora, la regola del doppio cognome come regola “residuale” crea più problemi che altro e non è per nulla “necessaria” ai fini della tutela dell’identità personale del figlio. 

Ciò che la Corte avrebbe potuto e dovuto fare, perché così era stata posta la questione dal Tribunale di Bolzano, era aprire al consenso dei genitori per l’attribuzione del solo cognome materno, così come sollevare la questione di costituzionalità d’ufficio per consentire al figlio di poter sostituire il cognome o eliminare uno dei due cognomi senza i vincoli dell’art. 89, d.p.r. 396 del 2000. 

Del resto, l'unità della famiglia non è più affidata al matrimonio ed alla sua stabilità, ma si fonda sul principio della bigenitorialità, ossia su di un necessario coinvolgimento comune nei riguardi dei figli, che l'ordinamento impone ai genitori a prescindere dalla stabilità dei loro rapporti. 

Cioè avrebbe dovuto essere eliminato tout court un sistema legale residuale lasciando tutto al consenso dei coniugi eventualmente con ricorso al giudice ex art. 316 c.c..

Quanto precede spiega perché, a ben vedere, la Corte valorizza non tanto l’identità personale del figlio, quanto la c.d. “identità familiare”, concetto diverso perché consente di proiettare lo sguardo ad un momento antecedente la nascita, tenendo presente che nel cognome è racchiusa la tradizione dei due rami familiari, paterno e materno, sì che l’individuo partecipa geneticamente, storicamente e affettivamente ad entrambi. 

Il cognome, cioè, manifesta il legame con i relativi genitori e, più ampiamente, con la famiglia d’origine.

In questo senso, è stato sottolineato che l’attribuzione del doppio cognome costituirebbe l'unica soluzione rispettosa dei valori primari e dei principi dell'ordinamento, quali il già citato diritto all’identità personale sotto il profilo della discendenza (biologica o affettiva), nonché il principio di unità familiare e dell'eguaglianza dei componenti il nucleo familiare . 

L’attribuzione in capo ai figli del solo patronimico costituirebbe, quindi, una ingiustificata disparità di trattamento tale da incidere sull’unità della famiglia e sull'eguaglianza dei suoi componenti. Per contro, il doppio cognome esalterebbe il rapporto di genitorialità in conformità a quanto previsto dalla maggior parte dei paesi europei e alle indicazioni della giurisprudenza interna e europea.

L’utilizzo di questo parametro o valore o criterio di giudizio, seppure possa a prima vista sembrare uno strumento utile per consentire di ricollegare il problema – vero per la Corte – della parità tra i coniugi al diritto all’identità personale, sì da giustificare il doppio cognome come regola di legge (diversamente, come detto, non necessariamente tutelante il diritto all’identità personale), non è idoneo a supportare la decisione così come complessivamente adottata dalla Corte per tre ordini di ragioni: 

1. non è detto che l’identità personale – che dovrebbe comunque essere il faro illuminante – e quella familiare coincidano per le ragioni sopra dette; 

2. la tutela dell’identità familiare non dovrebbe allora consentire l’attribuzione di un solo cognome nemmeno su consenso di entrambi i coniugi, laddove il figlio sia riconosciuto da entrambi; 

3. la tutela dell’identità familiare finisce per non essere un criterio adeguato nella misura in cui, per ragioni di interesse pubblico, la necessità di evitare il c.d. effetto moltiplicatore, come indicato dalla Corte, impone poi successivamente di eliminare uno dei due cognomi; diversamente, comunque, laddove non si impedisse l’effetto moltiplicatore, oltre ai problemi evidenti di natura pubblicistica, verrebbe chiaramente posta nel nulla non solo l’identità personale (perché troppi cognomi finiscono per non identificare), ma anche quella familiare, divenendo non chiaramente distinguibile proprio la linea tradizionale di riferimento. Si viene a determinare, cioè, una sorta di dispersione genealogica. 

A ben vedere, d’altronde, il parametro valoristico di fondo considerato dalla Corte ai fini della decisione in questione non pare essere il diritto del figlio all’identità personale, per mezzo del diritto al nome, ma il principio di uguaglianza e pari dignità dei coniugi. 

Del resto solo in questi termini si giustifica appieno la regola del doppio cognome come regola “di base” o residuale. 

Solo che, anche in tal caso, la valorizzazione del principio di uguaglianza dei coniugi nell’ambito della famiglia non richiedeva l’imposizione per via giudiziale di un criterio che, come detto, non è necessario per la tutela del diritto del figlio all’identità personale. 

Infatti, ciò che sarebbe stato sufficiente e proporzionato rispetto alla reale tutela di tutti i valori in gioco, non era eliminare una regola meramente residuale (peraltro comune anche ad altri paesi), ma consentire la piena e libera espressione dell’autonomia di entrambi i genitori di partecipare liberamente alla scelta del cognome mediante il proprio accordo, consentendo la scelta anche del solo matronimico (unica opzione ancora preclusa nonostante la sentenza n. 286 del 2016). 

Diversamente, la Corte sembra aver effettuato un’operazione di orientamento culturale, di natura sostanzialmente politica, quale “propulsore morale”. 

Si ribadisce, però, che, a parere di chi scrive, esclusa certamente qualunque rilevanza ermeneutica o applicativa, ai fini che qui interessano, dell’interesse all’integrità della famiglia, la scelta del cognome come del nome, appartiene ai genitori, e va adottata nel miglior interesse del figlio tenendo conto del diritto all’identità personale, familiare e sociale, nella consapevolezza però che tale proiezione potrà rivelarsi fallace laddove il figlio non si riconosca appieno nella scelta dei genitori. 

Ecco allora che anche l’uguaglianza dei genitori in materia ha una rilevanza meramente riflessa in quanto sia eventualmente idonea al miglior perseguimento degli interessi del figlio, il ché si misura anche con la scelta, per silenzio, di non mutare la regola del patronimico. 

La Corte, invece, ha voluto incidere sulla “cultura” della società, per far attecchire l’idea che il doppio cognome è ciò che è più giusto, perché conforme all’uguaglianza tra i coniugi.



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