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Impugnazione del diniego di rimborso di imposta e onere della prova

Alma Chiettini • 16 luglio 2023

Cass. Civile, Sez. V, 21 giugno 2023, n. 17750


La scadenza dei termini per l’accertamento di cui all’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 (di regola, il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione), ma anche l’espletamento senza rilievi della procedura di controllo automatizzato sulla base dei dati e degli elementi desumibili dalle dichiarazioni presentate e di quelli in possesso dell’anagrafe tributaria, ai sensi dell’art. 36 bis dello stesso d.P.R. n. 600 del 1973 (entro l’inizio del periodo di presentazione delle dichiarazioni relative all’anno successivo), non comportano per l’Agenzia delle Entrate il riconoscimento implicito del credito d’imposta esposto nella dichiarazione dei redditi dal contribuente.

Fino al 2016 tale assunto non era pacifico, in quanto sussistevano due opposti indirizzi giurisprudenziali:

- il primo sosteneva che il credito di imposta si consolidasse a seguito di un riconoscimento implicito derivante dal mancato esercizio nei termini del potere di rettifica, per cui l’Amministrazione era tenuta a disporre, a favore del contribuente, il rimborso del credito, e quest’ultimo era soggetto all’ordinaria prescrizione decennale;

- altro orientamento riteneva, invece, che il termine di cui al citato art. 36 bis, entro il quale l’Amministrazione deve provvedere alla liquidazione dell’imposta, avesse natura ordinatoria e che pertanto il credito esposto in dichiarazione non poteva consolidarsi con lo spirare di detto termine, neppure nell’ipotesi in cui l’Amministrazione avesse omesso di procedere a un accertamento o a una rettifica nel termine stabilito dal citato art. 43.

Il contrasto è stato dunque risolto nel 2016 dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, le quali hanno osservato che i termini di legge decadenziali sono apposti solo per le attività di accertamento di crediti dell’Amministrazione e non per le attività con cui la stessa Amministrazione contesta la sussistenza di un suo debito. È stato così affermato il principio di diritto secondo il quale “in tema di rimborso di imposte, l’Amministrazione finanziaria può contestare il credito esposto dal contribuente nella dichiarazione dei redditi anche qualora siano scaduti i termini per l’esercizio del suo potere di accertamento, senza che abbia adottato alcun provvedimento, atteso che tali termini decadenziali operano limitatamente al riscontro dei suoi crediti e non dei suoi debiti, in applicazione del principio quae temporalia ad agendum, perpetua ad excepiendum”, desumibile dall’art. 1442, ultimo comma, c.c. (Cass. civ., Sezioni Unite, 15.3.2016, n. 5069). E tale soluzione, ha aggiunto la Corte, non lascia senza difesa il contribuente che può impugnare il silenzio della Amministrazione che non corrisponde alla sua istanza di rimborso, ottenendo sul punto una pronuncia giudiziale.

La portata di tale principio è stata chiarita con un altro intervento delle Sezioni Unite – che ha esteso il principio anche all’IVA – col quale è stato affermato che l’omesso esercizio dell’attività di controllo si riverbera solo sul debito del contribuente, di modo che l’Amministrazione, decaduta dai propri poteri di accertamento e rettifica, non può pretendere un’imposta maggiore di quella liquidata in dichiarazione. E che, coerentemente, l’Amministrazione non può neppure contestare il credito che scaturisce dalla sottostima dell’imposta dovuta che in realtà era maggiore e che è stata evasa: e ciò per il rapporto di proporzionalità inversa tra debito e credito.

All’opposto, oggetto del principio di diritto affermato è il credito del contribuente che nasce a seguito di poste detraibili che prevalgano sul debito e che quindi eccedono l’imposta liquidata. Tale credito, però, esiste se sussistono i relativi fatti generatori, sicché non è sufficiente che sia esposto in dichiarazione né è necessario che sia accertato dall’Amministrazione, la cui inerzia non equivale al riconoscimento implicito di quel credito. Inerzia considerata dal legislatore perché le ha assegnato il significato di rifiuto tacito, impugnabile in forza dell’art. 21, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, che ammette il ricorso contro il silenzio rifiuto opposto dall’Amministrazione a qualsiasi richiesta di rimborso, comprese quelle rappresentate da un’indicazione in dichiarazione di un credito d’imposta idonea a manifestare la volontà di richiedere il rimborso. Pertanto, tale “silenzio rifiuto funge da anello di congiunzione tra la procedimentalizzazione del diritto al rimborso e la sua tutela in sede giudiziale” (Cass. civ., Sezioni Unite, 29.7.2021, n. 21766).

In definitiva, l’omesso esercizio del potere di controllo da parte dell’Amministrazione finanziaria non determina alcun effetto accertativo del credito vantato dal contribuente.

Accertamento che “può derivare soltanto dalla positiva verifica di rispondenza alla realtà di quanto dichiarato” (Cass. civ., Sezioni Unite, 25.3.2021, n. 8500).

La sentenza qui segnalata ha fatto applicazione di tali principi in una vicenda che vedeva la parte contribuente impugnare il diniego a un’istanza di rimborso di un credito presentando a supporto del gravame sia documentazione che provava la sussistenza di quel credito (sebbene in misura inferiore rispetto a quanto esposto in dichiarazione) sia la risposta a un’istanza di accesso agli atti del procedimento, eseguita ai sensi dell’art. 25 della l. n. 241 del 1990, con la quale l’Agenzia delle Entrate aveva attestato l’esito favorevole della liquidazione della dichiarazione per un importo del credito pari a quello in essa esposto, comunicazione che, ad avviso della ricorrente, costituiva un riconoscimento di debito.

Ebbene, dopo aver affermato, in forza di principi qui riassunti, che la comunicazione resa dall’Agenzia in sede di accesso agli atti, attestante solamente la regolarità formale della dichiarazione a suo tempo presentata, non presentava il carattere di un documento ricognitivo di debito, la pronuncia ha ribadito la regola che “quando la controversia ha per oggetto l’impugnazione del rigetto dell’istanza di rimborso di un tributo avanzata dal contribuente, è quest’ultimo a rivestire la qualità di attore in senso non solo formale - come nei giudizi di impugnazione di un atto impositivo - ma anche sostanziale, con la duplice conseguenza che grava su di lui l’onere di allegare e di provare i fatti ai quali la legge ricollega il trattamento impositivo rivendicato nella domanda e che le argomentazioni con le quali l’Ufficio nega la sussistenza di detti fatti, o la qualificazione ad essi attribuita dal contribuente, costituiscono mere difese, come tali non soggette ad alcuna preclusione processuale, salvo la formazione del giudicato interno o - dove in concreto ne ricorrono i presupposti - l’applicazione del principio di non contestazione”.

Inoltre, ai fini della prova della sussistenza del credito vantato, il contribuente deve esibire tutti i documenti probatori necessari, indipendentemente dal fatto che gli stessi non fossero richiesti al momento della presentazione della dichiarazione dei redditi, e anche indipendentemente dalla scadenza dei termini obbligatori per la loro conservazione. Su questo punto è stato precisato che “il contribuente non può sottrarsi all’assolvimento dell’onere sulla prova invocando la insussistenza dell’obbligo di conservare le scritture contabili oltre dieci anni, perché non si può confondere l’onere di conservazione della documentazione contabile con quello di prova del proprio credito” (Cass. civ., Sez. V, 18.5.2018, n. 12291). In altri termini, l’obbligo di conservare le scritture contabili per un periodo di dieci anni, previsto dall’art. 2220 c.c., è distinto dall’onere della prova in giudizio che segue le regole generali di cui all’art. 2697 c.c.

Da ultimo, su questo tema vale ricordare una pronuncia del 2018 (Cass. civ., Sez. V, 12.10.2018, n. 25464), che nel fare applicazione di tali principi ha anche rilevato che essi non contrastano con l’art. 1 del I Protocollo addizionale, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, in quanto è ivi garantita la tutela sul piano convenzionale ai soli crediti già accertati, nonché liquidi ed esigibili, ossia a quelli che possono ritenersi parte del patrimonio dell’individuo. Difatti, la Convenzione tutela il “bene” e un “credito” costituisce un “bene” solo quando si presenta sufficientemente accertato per essere esigibile. Di conseguenza, non può rientrare nel campo di applicazione della disposizione convenzionale anche il rimborso di crediti di imposta non ancora accertati.



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