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La diversa prospettiva del giudice civile e del giudice amministrativo in tema di distanze

a cura dell'Avv. Simone Voltarel • 15 ottobre 2021

Commento congiunto a Cass. civ., sez. II, 04 febbraio 2021, n. 2637 e a Cons. Stato, sez. IV, 04 marzo 2021, n. 1841


I DUE CASI ESAMINATI

a. La controversia (tra due proprietari confinanti, che chiameremo “Tizio” e “Caia”) esaminata dalla Cassazione riguarda la realizzazione della abitazione di Tizio con modalità difformi dalle prescrizioni contenute nella concessione edilizia, con particolare riferimento all’apertura di luci al piano garage e balconi ai piani rialzato e mansarda a distanza inferiore a 5 metri dal confine con Caia; anche quest’ultima ha, in epoca successiva, eretto la propria abitazione a distanza inferiore di 10 metri da quella di Tizio.

Condannati in primo grado Tizio, all’arretramento dei balconi e all’eliminazione delle luci, e Caia, all’arretramento della propria abitazione nel rispetto delle distanze minime, in sede di gravame la corte territoriale, nella premessa che Tizio, primo costruttore, aveva creato l’antistanza mediante abuso edilizio, ne ha fatto discendere che Caia non era tenuta al rispetto della distanza legale. Secondo i giudici d’appello, infatti, “gli edifici abusivi non possono esser tenuti in considerazione nel calcolo delle distanze”.

b. La controversia esaminata dal Consiglio di Stato (tra la proprietaria “Mevia” e il Comune “Alfa”, con “Sempronio” controinteressato), riguarda invece il permesso di costruire rilasciato dal Comune Alfa a Mevia per l’ampliamento del 20% della propria abitazione, con realizzazione di un nuovo appartamento in sopraelevazione del terrazzo esistente. Sempronio ha impugnato dinanzi al TAR Campania i relativi provvedimenti abilitativi, denunciando – tra l'altro – la violazione d’aver concesso il citato permesso nonostante il fabbricato di Mevia fosse difforme ai precedenti titoli abilitativi rilasciati.

Per quanto qui rileva, Il TAR Campania ha rigettato tale motivo di impugnazione, divenuto oggetto di gravame.

 

LE SOLUZIONI APPRONTATE DALLE CORTI

a. La Cassazione ha affermato che la distanza, nelle nuove costruzioni, di dieci metri dalle pareti finestrate di edifici frontistanti, prevista dall'art. 9 d.m. n. 1444/1968, va osservata quantunque l'edificio prospiciente sia abusivo.

Quindi, sull’assunto per cui la natura abusiva della costruzione preventivamente realizzata rileva unicamente nei rapporti con l’amministrazione pubblica e non anche ai fini del rispetto delle distanze legali, la Corte ha in questo punto cassato la decisione e rimesso alla corte d’appello in diversa composizione.

b. Il Consiglio di Stato, premettendo che l’abuso edilizio commesso dal vicino non può incidere negativamente sulla posizione giuridica di chi ha diritto di edificare, ha escluso la legittimazione ad agire del primo per l’impugnazione del titolo edilizio rilasciato in favore del secondo.

Secondo il Consiglio, quindi, il proprietario di un edificio può impugnare il titolo edilizio rilasciato al proprietario del fondo finitimo, dolendosi della violazione delle distanze tra pareti finestrate di costruzioni frontistanti, solo quando la sua opera sia stata regolarmente assentita.


BREVI RIFLESSIONI

Il tema delle distanze tra confinanti si pone nella zona grigia di confine tra il diritto civile e il diritto amministrativo. La disciplina approntata dall’ordinamento mira tanto a tutelare il patrimonio privato dei proprietari di fondi finitimi, quanto l’interesse pubblico all’ordinato e regolare sviluppo del territorio.

Può accadere, tuttavia, che interessi meritevoli di tutela all’interno dell’ordinamento sfocino in antinomie giurisprudenziali come quella che, senza pretesa di esaustività, in questa sede si analizza.

La disciplina civilistica sulle distanze tra costruzioni confinanti è contenuta, prevalentemente, negli artt. 873 e seguenti c.c..

L’ordito normativo prevede che le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere a distanza non minore di tre metri, ferma l’eventuale maggior distanza stabilita nei regolamenti locali. I successivi art. 905 e 906 c.c. impongono a ciascun proprietario di rispettare una determinata distanza per aprire vedute dirette, laterali o oblique verso il fondo confinante, così garantendo il vicino da sguardi indiscreti; tuttavia, il diritto alla veduta quesito non può essere distolto o variato unilateralmente dal confinante, in tal senso inibito dal costruire a una distanza tale da impedire l'esercizio della veduta stessa.

E’ evidente il contemperamento di interessi, per cui prior in tempore, potior in iure: la precedenza nell’apertura della veduta legittima la compressione della riservatezza del vicino.

La disciplina pubblicistica sulle distanze tra fabbricati è, in prima battuta e senza voler entrare sul complicat(issim)o tema del riparto tra fonti statali, regionali e comunali [1], regolata dal D.M. 1444/1968, il cui art. 9 prescrive una distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.

Rispetto alla disciplina civilistica, la ratio mira non alla tutela della privacy bensì al decoro e alla sicurezza di chi occupa gli edifici prospicienti, in quanto volta ad evitare la formazione di intercapedini tra le pareti, dannose per l'igiene e la salute di chi li occupa [2].

Nella propria decisione, la Cassazione ha coniugato l’art. 872 co. II c.c., che conferisce al vicino danneggiato dalla costruzione abusiva la tutela risarcitoria con obbligo di rimessione in pristino a carico del soggetto che abbia costruito in violazione della disciplina edilizia, col principio per cui a nulla rileva il carattere abusivo della costruzione confinante, trattandosi di circostanza che “pur legittimando provvedimenti demolitori o ablativi da parte della pubblica amministrazione e pur essendo astrattamente idonea a fondare una pretesa risarcitoria in capo al presunto danneggiato, non integra, in alcun modo, gli (indispensabili) estremi della violazione delle norme di cui agli artt. 873 c.c. e ss.”.

Ne ha fatto discendere la conclusione per cui “la natura abusiva della costruzione (preventivamente realizzata) rileva unicamente nei rapporti con l'amministrazione pubblica e non anche ai fini del rispetto delle distanze legali”, delimitando il perimetro del diritto soggettivo tutelabile a soli rimedi postumi all’illecito (appunto, il risarcimento dei danni e l’ordine di demolizione) ed escludendo una forma di tutela anticipatoria che consenta al danneggiato di non considerare l’attività illegittima del vicino.

Rispetto all’approccio della Cassazione, maggiormente vincolato dai principi della tutela giurisdizionale civilista e, così, limitato all’accertamento e alla condanna ad obblighi di dare o non facere, l’approccio del Consiglio di Stato pare più orientato all’osservanza di principi generali dell’ordinamento.

Adottando il principio per cui “il diritto di edificare attribuito dalla legge al proprietario dell'area, qualora non sia legittimamente escluso od impedito dalla norma urbanistica, deve trovare attuazione immediata e piena, tenuto conto che la stessa legge fa salvi soltanto "i diritti" dei terzi, ma non certo le "illiceità edilizie" dei terzi”, la Corte ha accentuato l’esigenza del rispetto dei titoli abilitativi e della disciplina che li regola, al punto tale da subordinare la legittimazione ad agire per far rilevare eventuali difformità commesse dal confinante, secondo costruttore.

In caso contrario, precisa il Consiglio di Stato, si perverrebbe al capovolgimento e, così, alla vulnerazione di ogni criterio discretivo delle posizioni giuridiche tra quelle lecite e quelle illecite.

Il divario tra i due orientamenti esposti trae origine per certo dalla diversità dei contesti di riferimento, il primo privatistico e il secondo pubblicistico.

Pare però anche evidente il paradosso in cui incorrono le pronunce: nell’obbligare il soggetto che erige per secondo al rispetto di almeno 10 metri di distanza richiesti dal D.M. 1444/1968 dalla costruzione confinante abusiva, la Cassazione manifesta una profonda deferenza verso l’attività amministrativa; da tale pronuncia traspare una pendenza in favore della corretta pianificazione e sviluppo del territorio, anziché della tutela del privato. Al contrario, il Consiglio di Stato adotta un approccio maggiormente accorto in favore di quest’ultimo, leso dalla costruzione abusiva del vicino, sacrificando l’esigenza dello strumento pubblico.

Sul punto, merita d’esser evidenziato che la giurisprudenza di merito già ha accolto tale ultima impostazione: la sentenza impugnata in Cassazione [3], facendo applicazione del principio successivamente esposto dal Consiglio di Stato, aveva infatti dato rilievo all’antistanza realizzata tramite abuso edilizio, facendone derivare che il vicino non era tenuto al rispetto della distanza legale minima di 10 metri, limite applicabile esclusivamente nel caso di aperture di vedute conformi al progetto edilizio.



[1]  Cfr., per un approfondimento sull’argomento, Le distanze tra edifici tra norme statali, regionali e comunale, Antonello Mandarano in Urbanistica e appalti, 2/2008 pag. 231 e ss.

[2] Sul punto, si veda Cass. n. 4834 del 19/2/2019 in Il Foro It. I, 2101, contenente tra l’altro la specificazione, per quanto consta, inedita, per cui “La distanza prescritta dall' art. 9 d.m. n. 1444 del 1968 si applica alle costruzioni con pareti nelle quali si apra qualsiasi genere di veduta, quindi anche quelle con pareti le quali, pur non dotate di finestre qualificabili come vedute, siano dotate di balconi”.

[3] Corte d’Appello di Cagliari, 25/6/2018. 



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