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Lesioni da emotrasfusione, tra onere della prova e "compensatio lucri cum damno"

A cura di Gregorio Tagliapietra, funzionario in servizio presso l'ufficio del processo del Tribunale di Venezia • 25 gennaio 2024

Tribunale civile di Venezia, Sez. II, 05/09/2023, est. Azzolini


IL CASO E LA SOLUZIONE

I ricorrenti, figli ed eredi della sig.ra G.A., hanno adito il Tribunale di Venezia per ottenere, nei confronti del Ministero della Salute convenuto, ordinanza di condanna al risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale conseguente al decesso della madre dovuto a carcinoma su cirrosi epatica (riscontrata nel 2011) e HCV correlata (riscontrata nel 1994). Nello specifico, i ricorrenti hanno dato atto dell’accertamento da parte della Commissione Medica Ospedaliera della sussistenza del nesso causale tra la malattia contratta dalla madre e le emotrasfusioni infette a lei somministrate nel corso di un ricovero, risalente al giugno 1973, presso il reparto di ostetricia e ginecologia di un ospedale veneto.

Il Ministero della Salute, costituitosi in giudizio, ha chiesto il rigetto della pretesa risarcitoria avversaria per mancata dimostrazione: a) del nesso di causalità tra l’emotrasfusione e il decesso; b) della colpa del Ministero convenuto; c) del danno subito.

In particolare, la difesa di parte convenuta ha insistito sul valore meramente presuntivo del provvedimento di riconoscimento dell’indennità ex l. 210/1992 da parte della C.M.O., essendo il relativo parere emesso ai soli fini di indennizzo amministrativo (sulla scorta, dunque, di un criterio meramente possibilistico del nesso di causa).

Convertito il rito da sommario ad ordinario di cognizione, in ragione della richiesta di parte ricorrente di integrazione istruttoria, il Tribunale ha parzialmente accolto la domanda risarcitoria ex artt. 2043 e 2059 c.c. formulata dai ricorrenti, pronunciandosi su diverse questioni rilevanti in tema di danni da emotrasfusione, e nello specifico:

- sul valore probatorio, nel giudizio per il risarcimento del danno, del verbale della C.M.O. in punto di accertamento del nesso eziologico fra emotrasfusione e malattia epatica;

- sugli obblighi di controllo in materia di sangue umano da parte del Ministero della sanità (ora della Salute);

- sui diversi profili del danno da perdita del rapporto parentale (quello morale-soggettivo e quello dinamico-relazionale) e sullo specifico onere probatorio gravante in capo al danneggiato;

- sull’applicabilità del meccanismo della compensatio lucri cum damno in relazione alle somme già liquidate ai parenti della vittima a titolo assistenziale ai sensi dell’art. 2, co. 3 della l. 210/1992.

Con riferimento alla prima questione, il Giudice ha ritenuto opportuno ripercorrere i due principali indirizzi in seno alla giurisprudenza sia di legittimità che di merito.

In una prima fase, durata fino al 2018, la Corte di Cassazione ha attribuito un “valore meramente presuntivo” alla decisione della C.M.O. sulla corresponsione dell’indennizzo in via amministrativa, nel senso che questa non costituisce prova del nesso causale e non ha valore confessorio. Ciò sulla base del rilievo della differenza tra il diritto al risarcimento del danno e quello all’indennizzo in oggetto – nel senso che solo il primo presuppone un fatto illecito, mentre il secondo trova il suo fondamento nel dovere di solidarietà prescritto dall’art. 2 Cost., in un’ottica più avanzata di socializzazione del danno incolpevole [1] –, nonché sulla base del valore probatorio dei verbali delle C.M.O. al di fuori del procedimento amministrativo per la concessione dell’indennizzo.

Sotto tale secondo profilo, la giurisprudenza di legittimità, con una fondamentale pronuncia a Sezioni Unite, ha precisato che: “Al di fuori del procedimento amministrativo per la concessione dell’indennizzo di cui alla legge, tali verbali hanno lo stesso valore di qualunque altro verbale redatto da un pubblico ufficiale fuori dal giudizio civile ed in questo prodotto. Pertanto essi fanno prova, ex art. 2700 c.c., dei fatti che la commissione attesta essere avvenuti in sua presenza, o essere stati dalla stessa compiuti, mentre le valutazioni, le diagnosi o comunque le manifestazioni di scienza o di opinione in essi contenute costituiscono materiale indiziario soggetto al libero apprezzamento del giudice, il quale può valutare l'importanza ai fini della prova, ma non può mai attribuire a loro il valore di vero e proprio accertamento” (Cass. Civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 577; in senso conforme si vedano anche Cass. Civ. 9 giugno 2015, n. 11889; Cass. Civ. Sez. Un. 23 ottobre 2014, n. 22550; Cass. Civ. 30 marzo 2006, n. 7548).

Detto orientamento è stato ritenuto da Cass. 15 giugno 2018 n. 15734 inapplicabile nel caso in cui l’azione risarcitoria venga proposta nei confronti del Ministero della Salute, perché in tale fattispecie, nella quale le parti del giudizio coincidono con quelle del procedimento amministrativo, l’accertamento è imputabile allo stesso Ministero, che lo ha espresso per il tramite di un suo organo, e, pertanto, nel giudizio di risarcimento del danno il giudice deve ritenere “fatto indiscutibile e non bisognoso di prova” la riconducibilità del contagio alla trasfusione.

Ebbene, il Tribunale di Venezia ha ritenuto di aderire al più recente orientamento giurisprudenziale, sancendo l’incontestabilità, da parte del Ministero convenuto nel giudizio di risarcimento danni, del verbale della C.M.O. che accerti la derivazione causale del rilevato contagio ad eseguiti trattamenti di emotrasfusione, essendo detto accertamento riconducibile alla stessa amministrazione statale. Di conseguenza, anche in assenza di evidenze su fattori causali alternativi e in applicazione del giudizio probabilistico, il Giudice ha ricondotto l’infezione alle terapie trasfusionali a cui è stata sottoposta la sig.ra presso l’Ospedale.

Il Tribunale ha accertato altresì la colpevole omissione del Ministero nella vigilanza sulla sicurezza del sangue e dei suoi derivati. Ritenuto sussistente, anche prima dell’entrata in vigore della legge 4.5.1990, n. 107 (contenente la disciplina per le attività trasfusionali e la produzione di emoderivati), un obbligo di controllo, direttiva e vigilanza in materia di sangue umano da parte del Ministero della sanità (cfr. sul punto Cass. Sez. Un., nn. 576-585 dell’11.1.2008), il Giudice di prime cure ha stabilito che all’epoca dei fatti (1973) sarebbe stato senz’altro possibile ridurre drasticamente le probabilità di infezione da HCV eseguendo opportune indagini anamnestiche, cliniche e di laboratorio sui donatori (in primis la ricerca delle transaminasi). Pertanto, le disposizioni tecniche emanate dal Ministero della sanità sono state ritenute inadeguate al livello delle conoscenze medico-scientifiche ormai consolidatesi nell’anno in considerazione e tale inadeguatezza ha sostanziato una condotta colposa dell’amministrazione.

Accertata la colposità della condotta del Ministero, nonché il nesso di causalità tra tale condotta e la contrazione dell’infezione (e la conseguente morte della signora), il Tribunale si è pronunciato sulla pretesa lesione del rapporto parentale.

Sul punto, sono stati anzitutto richiamati i principi che presiedono all’identificazione delle condizioni di apprezzabilità minima del danno, nel senso di una rigorosa dimostrazione (anche in via presuntiva) della gravità e della serietà del pregiudizio e della sofferenza patita dal danneggiato, tanto sul piano morale-soggettivo, quanto su quello dinamico-relazionale. Con specifico riferimento a questo secondo profilo, il Giudice ha ritenuto che un danno non patrimoniale diverso e ulteriore rispetto alla sofferenza morale non può ritenersi sussistente per il solo fatto che il superstite lamenti la perdita delle abitudini quotidiane, ma esige la dimostrazione di fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita, che è onere dell’attore allegare e provare; tale onere di allegazione, peraltro, va adempiuto in modo circostanziato, non potendo risolversi in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche (Sez. 3, Sentenza n. 21060 del 19/10/2016; Sez. 3, Sentenza n. 16992 del 20/08/2015): il pregiudizio da perdita del rapporto parentale va allegato e provato specificamente dal danneggiato ex art. 2697 c.c. (Cass. 20 agosto 2015, n. 16992), non trattandosi di danno in re ipsa.

Sulla scorta di tali insegnamenti, il Tribunale ha ritenuto l’inesistenza di significativi elementi che dimostrassero lo stravolgimento delle abitudini di vita degli attori a seguito del decesso della madre ed ha pertanto liquidato a loro favore unicamente il pregiudizio morale soggettivo presuntivamente patito.

Infine, il giudice veneziano ha rigettato l’eccezione, formulata dal Ministero convenuto, di compensatio lucri cum damno in relazione alle somme già liquidate agli attori a titolo assistenziale ai sensi dell’art. 2, co. 3, della Legge n. 210/1992.

Tale norma riconosce un’indennità a favore dei soggetti a carico di colui che, a causa delle trasfusioni subite e delle patologie sviluppate, sia deceduto. Il Tribunale ha escluso l’applicabilità della compensazione sulla base della diversità dei diritti che le distinte azioni intendono tutelare. Ad avviso del giudice la suddetta indennità, al pari di quella riconosciuta dall’art. 1 della stessa legge nei confronti del danneggiato, ha la funzione di “reintegrare” almeno in parte la lesione del diritto alla salute, mentre il soggetto che chiede iure proprio il risarcimento del danno subito in conseguenza della perdita del congiunto per il definitivo venir meno del rapporto parentale lamenta l’incisione di un diritto diverso dal bene salute, ossia la lesione irreparabile e irreversibile della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia.


DANNO DA CONTAGIO, VALORE DEL VERBALE DELLA COMMISSIONE MEDICA E COMPENSAZIONE TRA INDENNIZZO E RISARCIMENTO

La decisione del Tribunale di Venezia affronta diverse tematiche giuridiche di indubbio interesse.

Pare meritevole di ulteriore approfondimento critico la valenza, nel giudizio per il risarcimento del danno, del verbale della C.M.O. in punto di accertamento del nesso eziologico fra emotrasfusione e malattia epatica, anche alla luce della recentissima pronuncia a Sezioni Unite della Corte di Cassazione che sembra aver definito il denunciato contrasto [2].

La Suprema Corte ha riaffermato il principio di diritto – già espresso da Cass. S.U. 11 gennaio 2008 n. 577 – secondo cui “nel giudizio risarcitorio promosso nei confronti del Ministero della Salute in relazione ai danni subiti per effetto della trasfusione di sangue infetto, il verbale redatto dalla Commissione medica di cui all'art. 4 della L. n. 210 del 1992 non ha valore confessorio e, al pari di ogni altro atto redatto da pubblico ufficiale, fa prova ex art. 2700 c.c. dei fatti che la commissione attesta essere avvenuti in sua presenza o essere stati dalla stessa compiuti, mentre le diagnosi, le manifestazioni di scienza o di opinione costituiscono materiale indiziario soggetto al libero apprezzamento del giudice che, pertanto, può valutarne l'importanza ai fini della prova, ma non può attribuire allo stesso il valore di prova legale (...)”.

A fondamento della propria prospettazione, la Corte ha riaffermato:

a) l’ontologica diversità tra il diritto soggettivo alla prestazione assistenziale disciplinata dalla l. 210/1992 ed il diritto al risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., nel senso che solo il secondo presuppone un fatto illecito [3], mentre il primo trova il suo fondamento nel dovere di solidarietà prescritto dall’art. 2 Cost., in un’ottica più avanzata di socializzazione del danno incolpevole;

b) l’estraneità dall’organizzazione del Ministero della Salute delle Commissioni mediche competenti, le quali costituiscono invece articolazioni del Ministero della Difesa, cui è affidata, per effetto di specifiche disposizioni di legge, la competenza ad esprimere valutazioni tecniche, che integrano atti endoprocedimentali strumentali all’adozione di provvedimenti riservati a Ministeri diversi da quello di appartenenza;

c) la natura del provvedimento di riconoscimento dell’indennizzo quale espressione di discrezionalità tecnica, che presuppone, non una dichiarazione di scienza, bensì una valutazione sulla sussistenza dei requisiti richiesti ai fini dell’accesso alla prestazione assistenziale.

Ciò posto, la Corte di Cassazione ha però aggiunto che, nel giudizio risarcitorio, l’accertamento effettuato in sede amministrativa del nesso causale tra trasfusioni e patologia non è sprovvisto di valore e anzi impone al Ministero che intenda negare la propria responsabilità un onere della prova rafforzato.

Ad avviso della Suprema Corte: “il provvedimento amministrativo di riconoscimento del diritto all'indennizzo ex lege n. 210 del 1992, pur non integrando una confessione stragiudiziale, costituisce un elemento grave e preciso da solo sufficiente a giustificare il ricorso alla prova presuntiva e a far ritenere provato, per tale via, il nesso causale, sicché il Ministero per contrastarne l'efficacia è tenuto ad allegare specifici elementi fattuali non potuti apprezzare in sede di liquidazione dell'indennizzo o sopravvenute acquisizioni della scienza medica, idonei a privare la prova presuntiva offerta dal danneggiato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza che la caratterizzano (...)”.

Infine, le Sezioni Unite si sono espresse in relazione all’efficacia, nel giudizio civile di risarcimento del danno, del giudicato formatosi tra le stesse parti sull’azione proposta ex lege n. 210/1992. La Corte ha evidenziato la parziale comunanza dei requisiti richiesti per l’accoglimento delle (pur distinte) azioni, con la conseguenza che l’accertamento definitivo di detti requisiti produce effetti anche nel giudizio nel quale quel medesimo elemento costitutivo è stato fatto valere per ottenere un bene diverso da quello già domandato. Ad avviso dei giudici di legittimità infatti: “L’affermazione del nesso causale fra emotrasfusione e insorgenza della patologia, contenuta nella sentenza che riconosce l’indennizzo ex lege n. 210/1992 è, dunque, suscettibile di passaggio in giudicato e, rispetto al successivo giudizio di risarcimento del danno instauratosi tra le stesse parti, integra un giudicato esterno, come tale vincolante per il giudice”.

Tale pronuncia ha il pregio di aver attribuito (o forse restituito) al verbale della C.M.O. il proprio corretto valore probatorio, privando le Commissioni di un ruolo che in via ordinaria e consolidata non hanno, e riaffermando in tal modo il libero apprezzamento del giudice nella valutazione degli esiti in esso contenuti. D’altra parte, però, le Sezioni Unite hanno valorizzato l’efficacia del giudicato esterno formatosi tra le stesse parti sul diritto all’indennizzo, diritto che, come già detto, presuppone la derivazione eziologica della patologia indennizzata dall’emotrasfusione effettuata, in tal modo apprestando uno strumento di garanzia fondamentale nella protezione dei diritti dei pazienti colpiti da lesioni da emotrasfusione.

Nella sentenza in commento, poi, il Tribunale di Venezia ha rigettato l’eccezione, formulata dal Ministero convenuto, di compensatio lucri cum damno, in relazione alle somme già liquidate agli attori a titolo assistenziale ai sensi dell’art. 2, co. 3, della l. n. 210/1992.

A fondamento della propria decisione il giudice veneziano ha dato rilievo alla diversità dei diritti che le distinte azioni intendono tutelare, nel senso che la suddetta indennità mira a reintegrare almeno in parte la lesione del diritto alla salute, mentre il soggetto che chiede iure proprio il risarcimento del danno subito in conseguenza della perdita del congiunto per il definitivo venir meno del rapporto parentale lamenta l’incisione di un diritto diverso, ossia la lesione irreparabile e irreversibile della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia.

Si osserva tuttavia che è indirizzo consolidato in giurisprudenza quello secondo cui l’indennizzo di cui all’art. 2, co. 3, l. n. 210 del 1992, spetta agli aventi diritto iure proprio, e non iure hereditario [4].

Tanto si desume: a) dal fatto che la legge parla di "aventi diritto", e non di "eredi"; b) dal fatto che tra gli aventi diritto la legge prevede un ordine successivo, incompatibile con le previsioni degli artt. 571 e 581 c.c.; c) dal fatto che il beneficio è accordato ai soli familiari viventi a carico, requisito non necessario per l’acquisto della qualità di erede; d) dal fatto che l’assegno una tantum è accordato "anche nel caso in cui il reddito della persona deceduta non rappresenti l’unico sostentamento della famiglia", precisazione inspiegabile se davvero l’indennizzo di cui si discorre fosse attribuito ai superstiti iure hereditario; e) dal fatto che l’indennizzo spetta agli aventi diritto ivi elencati anche quando la persona contagiata, prima di morire, abbia ottenuto il riconoscimento dell'indennizzo di cui all’ art. 1 della suddetta legge.

Conseguentemente, la Corte di Cassazione ha recentemente enunciato il seguente principio di diritto: “ Nel giudizio promosso nei confronti del Ministero della salute per il risarcimento dei danni conseguenti al contagio a seguito di emotrasfusioni con sangue infetto, l'indennizzo "una tantum", previsto dall'art. 2, comma 3, della l. n. 210 del 1992 in favore dei congiunti del danneggiato che sia deceduto a causa del contagio, dev'essere scomputato - in applicazione del principio della "compensatio lucri cum damno" - dalle somme liquidabili in loro favore a titolo di risarcimento del danno parentale, spettandogli tale beneficio "iure proprio" e non "iure hereditario", e dunque anche quando la persona contagiata, prima di morire, abbia ottenuto il riconoscimento dell'indennizzo di cui all'art. 1 della medesima legge.” (Cass. civ. sez. VI, 17/03/2022, n. 8773).





[1] cfr. Cass. S.U. 1 aprile 2010 nn. 8064 e 8065; Cass. S.U. 9 giugno 2011 n. 12538.

[2] Cass. civ., sez. un., 06/07/2023, n. 19129.

[3] Ossia la mancata adozione, nell’attività trasfusionale, di tutte le cautele ed i controlli esigibili a tutela della salute pubblica.

[4] Da ultimo Cass. civ. sez. VI, 17/03/2022, n. 8773; in senso conforme Cass. civ. Sez. Lav. 25/11/2020, n. 26842 e Cass. civ. 11/05/2018, n. 11407.


 


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