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Responsabilità politica, responsabilità giuridica e responsabilità morale. Storia recente di uno Stato che non sa chiedere scusa

di Roberto Lombardi • 3 marzo 2023

(L’articolo costituisce un aggiornamento dell’analogo contributo pubblicato su questo sito in data 12 giugno 2021)


E’ notizia di questi giorni la notificazione dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari per i reati di epidemia colposa e omicidio plurimo colposo a molti dei protagonisti “pubblici” della prima fase di contrasto alla pandemia da covid-19.

Per due di loro (Giuseppe Conte e Roberto Speranza) gli atti sono stati trasmessi al Tribunale dei Ministri competente, affinché si attivi l’arzigogolata procedura prevista dal nostro ordinamento giuridico in materia di reati ministeriali, posto che tali reati sarebbero stati commessi nell’esercizio delle rispettive funzioni di ex Presidente del Consiglio e di ex Ministro della Salute.

Sarà dunque un Tribunale ad hoc a decidere, ai sensi della legge costituzionale n. 1 del 1989, se archiviare direttamente le accuse o trasmettere, a mezzo della Procura della Repubblica competente, la richiesta di autorizzazione a procedere al Parlamento, per quelle che sono le contestazioni penali più “politiche”.

Per quanto è dato sapere, i livelli di costruzione delle fattispecie di condotta penalmente rilevanti per le quali si è ritenuto di dovere procedere sono tre.

Il primo livello è quello centrale-governativo, e concerne non solo il mancato aggiornamento del Piano pandemico risalente al 2006, ma anche l’omessa esecuzione delle misure comunque esistenti e ivi contemplate.

Il secondo livello è quello regionale-esecutivo, che condivide con quello centrale la mancata attuazione della zona rossa ad Alzano Lombardo e Nembro e, più in generale, la consapevole sottovalutazione del rischio epidemiologico esistente.

Il terzo livello è quello locale-sanitario e concerne l’erronea gestione dell’emergenza all’interno dell’ospedale di Alzano Lombardo dopo la scoperta dei primi casi.

Secondo i Pubblici ministeri che procedono, la tempestiva adozione, da parte di tutti i livelli di competenza, di misure idonee e più restrittive per contrastare la diffusione del virus avrebbe potuto risparmiare la vita - sulla base della mappatura dei dati esistenti e disponibili, così come ricostruita dai consulenti tecnici interrogati sul punto - a migliaia di persone.

In questo caso, la difficoltà non sta tanto nel provare le condotte contestate quanto nel ricondurre alcune di tali condotte in fattispecie penalmente rilevanti. 

E’ necessario però rammentare che ai sensi della nostra Costituzione l’esercizio dell’azione penale è obbligatorio e che dunque, dinanzi alla legge, non esiste la distinzione tra processi “opportuni” e processi “inopportuni”, che pure di tanto in tanto qualcuno, per ignoranza o malizia, prova ad operare.

Così come è risibile l’obiezione secondo cui non si possono giudicare con “il senno di poi” le decisioni umane difficili (ivi compresi, in questo caso, la correttezza e la tempestività o meno dell’adozione di misure di contrasto a un’epidemia causata da un male sconosciuto).

Nel diritto penale, tutte le condotte sono accertate successivamente al loro compimento; al massimo, la conclusione che può trarre il Giudice, dopo avere vagliato le prove a sua disposizione, è che la condotta “giusta” non era esigibile al momento in cui avrebbe dovuto essere compiuta. 

Inoltre, in una società complessa e scientificamente evoluta come la nostra, vengono di continuo elaborate e aggiornate, dagli esperti di settore, misure di precauzione e prevenzione volte a consentire alle Autorità preposte di fronteggiare le emergenze che di volta in volta si presentino, per cui è ingenuo oggigiorno trincerarsi dietro la novità del problema da affrontare.

E tuttavia, il livello di responsabilità che può conseguire alle singole azioni, quando ci sono di mezzo i meccanismi decisionali della politica e si frappongono, tra tragedie inattese e malattia, più piani di condotte omissive, resta magmatico. 

Responsabilità, in linea generale, è il fatto di essere responsabili, cioè di rispondere delle proprie azioni e dei propri comportamenti, rendendone ragione e subendone le conseguenze.

E’ un concetto tipico del diritto, laddove individua una situazione giuridicamente “sanzionabile” di obbligo gravante su un soggetto, che si instaura o per inadempimento di un obbligo primario (ad esempio, nascente da un contratto) o per qualunque atto illecito doloso o colposo che abbia arrecato ad altri un danno ingiusto, e che acquista diverse sfumature a seconda del campo di elezione (responsabilità patrimoniale, responsabilità amministrativa, responsabilità penale, responsabilità internazionale).

Ma è anche un concetto strettamente connesso al dibattito politico, all’interno di un rapporto di rappresentanza tra titolare di una carica pubblica elettiva e i suoi elettori.

Nel sistema costituzionale italiano, ad esempio, è tipicamente politica la responsabilità del Governo verso il Parlamento, che si concretizza nell’obbligo del primo di dimettersi quando non abbia più la fiducia del secondo.

Vi è infine la responsabilità morale, definibile per inclusione quale corollario della responsabilità giuridica – qualora, come normalmente avviene, la condotta illecita sia riprovevole anche sotto un aspetto ideale -, ovvero, per esclusione, definibile come “non estraneità” ad atti illeciti da parte di chi, per la posizione occupata, per le affermazioni fatte o per la condotta mantenuta, pur non violando l’ordinamento giuridico, non ha rispettato una norma morale ritenuta universalmente valida, o ha offeso, in un dato contesto storico e sociale, i principi morali correnti.

Le conseguenze delle azioni del Presidente del Consiglio e dei Ministri, organi monocratici che fanno parte collegialmente anche del Governo della Repubblica, si situano molto spesso a metà strada tra responsabilità politica e responsabilità giuridica; i massimi rappresentanti delle Istituzioni sono inoltre sempre moralmente responsabili, per l'indiscusso potere di cui godono, delle scelte governative e delle loro ricadute sul tessuto ordinamentale, economico e sociale del Paese.

Secondo l'art. 95, comma 2 della Costituzione, i Ministri "sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei ministri, e individualmente degli atti dei loro dicasteri".

La responsabilità di cui parla l'art. 95 della Costituzione è una responsabilità politica, che si scinde in responsabilità collegiale e responsabilità individuale, in relazione alla duplice veste del Ministro di componente della compagine governativa, da un lato, e di vertice del dicastero, dall'altro.

Risulta in particolare affidata alla figura dei Ministri, organi "supremi" dell’amministrazione statale e componenti del Consiglio dei Ministri, l’opera di ideazione, proposizione, deliberazione ed infine attuazione delle decisioni del potere esecutivo.

La Costituzione conferma in effetti la relazione di stretta continuità fra posizione del Ministro nel Consiglio dei Ministri e posizione del Ministro nel Ministero, non distinguendo affatto fra attività di governo ed attività di amministrazione, bensì ricorrendo alla nozione della “politica generale di governo”, la quale non è soltanto l’attività politica in senso stretto, bensì riguarda tutta l’attività governativa comunque rivolta alla gestione della cosa pubblica, e cioè l’operato complessivo del Governo e dei singoli elementi che lo compongono.

Per quanto attiene peraltro ai veri e propri poteri di amministrazione attiva, tipici dell’attività di esecuzione delle leggi e delle decisioni generali di Governo, a partire dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 29 del 1993, al Ministro è stato lasciato il solo potere di indirizzo politico-amministrativo (e cioè la definizione degli obiettivi e dei programmi da attuare) nonché le funzioni di controllo (e cioè la verifica della rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti), mentre è stata affidata alla competenza esclusiva di una classe di funzionari appositamente creata – i dirigenti – l’attività amministrativa in senso stretto (adozione degli atti e provvedimenti) nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa del Ministero.

In particolare, l’art. 14 del d.lgs. n. 165 del 2001, stabilendo l’impossibilità per il Ministro del potere di «revocare, riformare, riservare o avocare a sé o altrimenti adottare provvedimenti o atti di competenza dei dirigenti», ha sanzionato definitivamente il venir meno della sua posizione di capo gerarchico del Ministero a lui affidato.

In tal modo, tuttavia, si è andato potenzialmente ad acuire il conflitto già in linea di principio esistente tra l’accoglimento espresso nella Costituzione di due criteri organizzativi tra di loro diversi (la responsabilità ministeriale e l’imparzialità dell’amministrazione: artt. 95 e 97), poiché la responsabilità dei Ministri di fronte alle Camere origina proprio dalla titolarità del potere esecutivo, imputata ad essi quali organi al vertice delle rispettive amministrazioni, cosicché se al Ministro residua soltanto il potere di direttiva, ad esserne colpita è proprio la previsione costituzionale secondo cui i Ministri sono responsabili individualmente degli atti dei loro dicasteri.

Né è possibile risolvere il problema limitando la responsabilità politica del Ministro ai contenuti delle direttive ministeriali, posto che, per propria natura, la responsabilità politica non sembra sottoponibile a queste forme di limitazione, data l’impossibilità di sindacare in alcun modo il contenuto della censura della Camera nei confronti del Governo.

Sembra quindi necessario ribadire, nonostante le intervenute modifiche normative in tema di separazione tra attività di indirizzo e attività di gestione, che l’art. 95 Cost., nell’imputare a ciascuno dei Ministri la responsabilità individuale per gli atti del proprio dicastero, esprime un principio tuttora connaturato al governo parlamentare.

Diversa deve essere invece la conclusione per la responsabilità giuridica del Ministro. Valendo qui necessariamente il carattere personale della responsabilità, non si può chiedere al Ministro di rispondere di una gestione amministrativa le cui decisioni sono riservate ai dirigenti. Ne deriva pertanto che, ad integrare la nozione degli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni di Ministro (atti cd. “ministeriali”), ricadenti, in quanto tali, nell’area della sua responsabilità giuridica, restano i soli atti di indirizzo e di controllo, nonché gli atti adottati dal Consiglio dei Ministri, in particolare se emanati con decreto del Presidente della Repubblica, per i quali l’apposizione della controfirma implica per ciò solo, ai sensi dell’art. 89 Cost., assunzione della relativa responsabilità.

Per tali atti sussiste, secondo le tradizionali ripartizioni, sia responsabilità civile ed amministrativa, per le quali l’ordinamento non pone per il Ministro regole diverse da quelle valevoli per ogni amministratore della cosa pubblica, sia responsabilità penale, per la quale invece residua – sulla scorta della tradizione – una disciplina speciale, che ha mantenuto integro sul piano costituzionale l’istituto del “reato ministeriale”.

Nella vicenda della gestione della pandemia, con particolare riferimento alla mancata istituzione della “zona rossa” ad Alzano e Nembro e del mancato aggiornamento del piano pandemico, i profili di responsabilità del Presidente del Consiglio e del Ministro competente per materia (Ministro della Salute), oltre che degli altri soggetti istituzionali connessi, si sono aggrovigliati in un nodo a tratti inestricabile.

Le indagini della Procura della Repubblica di Bergamo hanno in particolare cercato di fare luce su una possibile correlazione tra decessi per covid-19 e condotte illecite ascrivibili a persone fisiche.

Si tratta come detto di un’attività doverosa, in quanto l’art. 112 della Costituzione stabilisce che “il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale” e l’unico modo che le Procure della Repubblica hanno per rispettare tale norma è di vagliare, di ufficio o su evidenza degli organi di polizia giudiziaria, tutte le notizie di reato, anche quelle che appaiono prima facie infondate.

Al di là dell’eventuale esito processuale dei reati oggi contestati, possono però già essere delineati alcuni punti fermi e oggettivi rispetto alle potenziali responsabilità (politiche, giuridiche e morali) dei soggetti istituzionali coinvolti.


Mancata istituzione delle zone rosse ad Alzano Lombardo e Nembro.

L’art. 3 del decreto-legge n. 6 del 2020 (prima “barriera” normativa adottata dal Governo Conte per fronteggiare concretamente l’epidemia) aveva stabilito che le misure di cui agli articoli 1 e 2 dello stesso decreto (tra cui, appunto l’istituzione di ulteriori zone rosse, rispetto a quelle già individuate nei Comuni di Codogno e dintorni) avrebbero dovuto essere adottate “con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro della salute, sentito il Ministro dell'interno, il Ministro della difesa, il Ministro dell'economia e delle finanze e gli altri Ministri competenti per materia, nonché i Presidenti delle regioni competenti, nel caso in cui riguardino esclusivamente una sola regione o alcune specifiche regioni, ovvero il Presidente della Conferenza dei presidenti delle regioni, nel caso in cui riguardino il territorio nazionale”.

Dal verbale n. 16 del Comitato tecnico scientifico del 3 marzo 2020 apprendiamo che i dati relativi ai Comuni di Alzano Lombardo e Nembro, situati in stretta prossimità di Bergamo, denotavano una situazione di “alto rischio di ulteriore diffusione del contagio”.

Il Comitato proponeva, pertanto, agli organi competenti – che, come visto, erano già stati normativamente individuati nel Presidente del Consiglio dei Ministri e, quale organo proponente, nel Ministro della Salute – “di adottare le opportune misure restrittive già adottate nei comuni della zona rossa anche in questi due comuni, al fine di limitare la diffusione della infezione nelle aree contigue”.

Tuttavia, in data 4 marzo 2020 non veniva disposta l’istituzione della nuova zona rossa invocata dal Comitato tecnico scientifico, e il Presidente del Consiglio dei Ministri emanava un decreto che, pur dando atto di avere tenuto conto delle indicazioni formulate dal Comitato tecnico scientifico nelle sedute del 2, 3 e 4 marzo 2020, non conteneva alcun divieto di spostamento dai Comuni di Alzano Lombardo e Nembro.

Soltanto il successivo 8 marzo 2020 tutta la Regione Lombardia, in cui l’epidemia era ormai chiaramente fuori controllo, veniva sottoposta ai “rigori” della zona rossa.

Vi è stata dunque certamente un’omissione o comunque un ritardo imputabile, in astratto, ai soggetti istituzionali competenti a proporre le misure da adottare.

Ma che tipo di responsabilità ha generato tale omissione?

Certamente, e innanzitutto, di natura politica.

L’art. 1, comma 1 del d.l. n. 6 del 2020 aveva previsto che “allo scopo di evitare il diffondersi del COVID-19, nei comuni o nelle aree nei quali risulta positiva almeno una persona per la quale non si conosce la fonte di trasmissione o comunque nei quali vi è un caso non riconducibile ad una persona proveniente da un'area già interessata dal contagio del menzionato virus le autorità competenti sono tenute ad adottare ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all'evolversi della situazione epidemiologica”.

Chi stabiliva l’adeguatezza della misura da disporre? Si direbbe che la competenza fosse proprio del Comitato tecnico scientifico nominato a tale scopo in data 3 febbraio 2020 dal Capo del Dipartimento della protezione civile.

La norma primaria era dunque chiara: ricorreva il presupposto (positività di almeno una persona per la quale non si conosceva la fonte del contagio) e l’obbligo di adozione della misura suggerita dall’organo tecnico.

La responsabilità politica è innegabile.

E la responsabilità giuridica?

La misura adeguata e “consigliata” dal CTS per i due Comuni a rischio della bergamasca era la zona rossa e nonostante ciò non è stata adottata.

Il ritardo decisionale si è rivelato astrattamente “catastrofico” in termini di vita umane, per una scelta non tecnica, ma di opportunità: resta in ogni caso il difficilissimo compito dell’accusa di provare in giudizio la rilevanza causale della inerzia sui singoli decessi.

Più facile potrebbe essere accertare la responsabilità penale dei soggetti che nella catena decisionale hanno commesso un ulteriore errore o una leggerezza.

Nel caso di “non” commissione di tale ulteriore errore, l’accertamento della responsabilità penale e civile degli organi di vertice dovrà confrontarsi anche con la necessità di verificare preliminarmente se gli atti e le omissioni “incriminati” abbiano o meno natura essenzialmente politica.


Mancato aggiornamento del piano pandemico antinfluenzale.

Il Ministro della Salute all'epoca in carica ha dichiarato in Parlamento che si è trattato di un’omissione ascrivibile a ben sette governi prima del suo.

Basta una tale giustificazione per declinare un’ipotesi di responsabilità politica? Ovviamente no.

Al massimo c’è corresponsabilità, ma non assenza di responsabilità.

Quando l’OMS ha dato notizia dell’epidemia nata in Cina il Ministro della Salute Speranza era già da alcuni mesi al comando della sua struttura ministeriale.

Le notizie che giungevano da Oriente erano preoccupanti e avevano preoccupato il suo Governo, che infatti aveva dichiarato il 31 gennaio 2020 lo stato di emergenza.

Ma il mancato aggiornamento del piano pandemico antinfluenzale – magari in funzione anti-covid -, che avrebbe dovuto essere in quel contesto un’ovvia priorità, è stato soltanto una parte della forte impreparazione del Paese alla tragedia che successivamente lo avrebbe travolto, come attestato anche dal report del dott. Zambon poi fatto ritirare – a beneficio di chi? - dall’OMS.

D’altra parte, è un fatto che la dottoressa che ha scoperto il primo paziente affetto da covid-19 senza catena di trasmissione nota o riconducibile a Paesi dove era cominciata la pandemia (il famoso Mattia di Codogno), abbia dato seguito alla sua intuizione in violazione della circolare del Ministero della Salute adottata in data 27 gennaio 2020, secondo cui gli unici casi da ritenersi sospetti, operatori sanitari a parte, erano i soggetti che contemporaneamente presentassero una infezione respiratoria acuta grave - in assenza di altra eziologia che spiegasse pienamente la presentazione clinica -, e che avessero avuto contatti con aree o persone a rischio. 

Peccato che nel frattempo l’epidemia dilagava sottotraccia.

Ed è un altro fatto inoppugnabile che all’inizio dell’emergenza gli ospedali (e non solo i singoli cittadini) erano a corto di dispositivi di protezione individuali

Anche qui valgono, per quanto riguarda la responsabilità giuridica, le stesse considerazioni già svolte in precedenza sulle omissioni imputabili.

Con l’aggiunta che la Procura della Repubblica di Bergamo ha approfondito anche la sussistenza di comportamenti “scorretti” di soggetti che a vario titolo e con ruoli diversi nella catena gerarchica – ma sempre nell’ambito della struttura del Ministero della Salute – avrebbero disatteso o comunque aggirato le indicazioni di OMS e UE sulla necessità di una revisione sostanziale ed effettiva del piano pandemico del 2006.


Lo "schiaffo" greco.

Oggi, al di là di quanto accerteranno i Tribunali competenti, residua un’amara considerazione finale sulla responsabilità morale che nasce dalle scelte umane di chi gestisce la cosa pubblica, nel momento in cui tali scelte non siano all’altezza del compito assegnato o avallino decisioni intempestive ed errate.

E’ un viaggio che ci porta, prima ancora che nel campo della competenza in certi ruoli chiave, nel campo della dignità dei comportamenti umani e della corretta percezione, in chiave oggettiva, del proprio valore, che non sempre è pretendibile, nemmeno nei confronti di chi rappresenta un’Istituzione.

A volte, però, quando il dolore di chi vede morire - in modo brutale, inaspettato e improvviso - un proprio caro, è così grande, quando anche solo il dubbio di avere contribuito a creare questo dolore è il frutto di considerazioni razionali e non di fantasia, l’uomo giusto dovrebbe sempre ricordare a sé stesso che può restituire dignità al ruolo ricoperto, ed evitare al contempo di chiudersi in un moto di arroganza autoreferenziale, tramite un atto semplice ma potentissimo e nobile, che va al di là del rapporto fiduciario con la maggioranza di turno: un atto chiamato dimissioni.

In alternativa, uno Stato che si rispetti dovrebbe chiedere scusa a chi ha pagato un costo troppo alto per scelte sbagliate.

Nel frattempo, dalla vecchia e gloriosa Grecia ci arriva uno schiaffo morale diritto in faccia.

Il Ministro dei Trasporti greco si è dimesso dopo una tragedia ferroviaria che ha causato una cinquantina di decessi, e che è stata probabile conseguenza dell'errore umano di un capostazione.

Il Ministro in questione si è dimesso "per rispetto della memoria delle persone che sono morte ingiustamente". I nostri politici avranno pensato che si tratta di un alieno.


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