Tribunale di Milano, Sezione VII penale, sentenza n. 2246 del 15 febbraio 2023, pubblicata il 15 maggio 2023
IL CASO E LA DECISIONE
L’ex Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi viene imputato del reato di corruzione in atti giudiziari (cosiddetto processo “Ruby-ter") per avere promesso e dato denaro o altre utilità, al fine di ottenere una versione dei fatti a sé favorevole, alle persone chiamate a rendere dichiarazioni in altri due procedimenti penali in cui lo stesso Berlusconi e alcuni soggetti a lui “vicini” erano stati imputati di concussione, prostituzione minorile e favoreggiamento della prostituzione (cosiddetti processi Ruby-1 e Ruby-bis, definiti dal Tribunale di Milano con sentenza n. 7927 del 24.6.2013 e sentenza n. 9289 del 19.7.2013).
Assieme a lui sono imputate di corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza tutte le donne che avevano partecipato alle cosiddette “cene eleganti” presso la residenza di Berlusconi e che hanno testimoniato sui fatti di concussione, prostituzione minorile e favoreggiamento della prostituzione contestati nei due processi antecedenti.
Secondo il Tribunale adito, però, tali soggetti avrebbero dovuto sedere sul banco dei dichiaranti nel ruolo di indagati (e non di testimoni semplici) per il reato di corruzione in atti giudiziari, già all’epoca della loro escussione in dibattimento nei precedenti processi.
In particolare, il Giudice penale di primo grado ha illustrato tutta una serie di elementi dai quali sarebbe emerso che le autorità giudiziarie fossero già a conoscenza di plurimi indizi di reità a carico delle persone da sentire come testimoni, e prima di sentirle come tali.
Tra tali elementi vengono valorizzati, in particolare, le elargizioni cospicue e periodiche nei confronti delle testimoni già provate durante il dibattimento in cui hanno reso testimonianza - elargizioni riferibili a Silvio Berlusconi, nella qualità di soggetto donante - e la circostanza, anch’essa già nota nel corso dei primi processi, della convocazione di tutte le testimoni, in quanto assidue frequentatrici delle serate “incriminate” presso la residenza del Presidente del Consiglio - e dunque persone direttamente coinvolte nello scandalo -, per parlare delle proposte economiche da formulare in loro favore.
Il Giudice penale si sofferma nello specifico su tale vicenda (riunione di Arcore del 15 gennaio 2011), per dimostrare che, al di là della sconcertante disinvoltura dimostrata da tutti i protagonisti, era chiaro fin dal momento concomitante a tale vicenda (emersa a seguito di intercettazioni telefoniche) che vi era stato un accordo per rendere dichiarazioni false nei procedimenti riguardanti Berlusconi e gli altri imputati per favoreggiamento della prostituzione.
Invero, all’indomani delle perquisizioni del 14 gennaio 2011 tutte le donne poi imputate per falsa testimonianza erano state convocate ad Arcore, tramite un giro di telefonate nato da una chiamata del Presidente del Consiglio in carica, per un incontro con lo stesso Berlusconi e i suoi legali di allora.
Da tale incontro era conseguita, a stretto giro di posta, la corresponsione di un bonifico con ricorrenza mensile e a tempo indeterminato di non meno di € 2.500 in favore di tutte le perquisite (poi divenute testimoni “prezzolate”), che lo stesso Tribunale di Milano, nei due precedenti processi, non aveva ritenuto di poter qualificare né come risarcimento del danno da negativa risonanza mediatica (trattandosi di elargizioni in favore di soggetti inseriti nelle liste testimoniali dell’accusa e della difesa), né come lecita attività investigativa difensiva, mancandone qualsivoglia tipo di verbalizzazione.
In quei processi, al contrario, il pagamento anzidetto era stato direttamente qualificato come un fatto illecito e fattore di inquinamento probatorio; tuttavia, secondo il Giudice del Ruby-ter, tali considerazioni potevano e dovevano compiersi già prima della escussione delle dichiaranti, trattandosi di elementi indiziari di corruzione che sarebbero stati a disposizione dei collegi procedenti in epoca antecedente allo svolgimento degli esami dibattimentali.
La conseguenza logico-giuridica per il concorrente necessario nel reato di corruzione in atti giudiziari (Silvio Berlusconi) – una volta ritenuto che le persone imputate di avere ricevuto da lui il denaro o la promessa di denaro non avrebbero dovute essere escusse come testimoni “pure”, e dunque non avevano mai assunto il pubblico ufficio a cui consegue poi il reato di falsa testimonianza e di corruzione in atti giudiziari – è l’insussistenza del fatto tipico del reato anche sul versante dell’ipotizzata corruzione attiva.
Il Tribunale di primo grado si è chiesto, a questo punto, se lo stesso Berlusconi potesse essere condannato ad altro titolo di reato, previa riqualificazione giuridica, ma ha concluso negativamente (nonché favorevolmente all’imputato) anche sotto questo profilo, sostenendo che le eventuali imputazioni sostitutive – per atti che conservano nella loro sostanza risvolti di illiceità – costituiscono “fatti diversi”, in relazione alla differente posizione processuale che le dichiaranti avrebbero dovuto assumere affinché si potesse poi configurare, ai danni di Berlusconi, la corrispondente fattispecie penale tipica.
I REATI E LA QUALIFICA DI TESTIMONE
La corruzione in atti giudiziari e la falsa testimonianza sono reati propri, che possono configurarsi simultaneamente (ed essere contestati cumulativamente, stante la differenza strutturale e di oggettività giuridica delle due fattispecie) se la persona accusata dell’avere accettato la promessa o l’offerta di denaro o altra utilità per rendere dichiarazioni false o reticenti, volte a favorire o danneggiare una parte, sia un testimone e quindi un pubblico ufficiale.
In tal caso, la corruzione in atti giudiziari può essere antecedente (se la testimonianza è avvenuta dopo la promessa o la dazione) o susseguente (se la testimonianza è avvenuta prima della promessa e della dazione).
Importante, a questo proposito, ricordare che le norme sulla corruzione, incriminando anche la semplice promessa di denaro al pubblico ufficiale che l'accetta, anticipano la soglia della punibilità per una tutela rafforzata del bene protetto; ciò non significa però che l'effettiva ricezione di quanto ha formato oggetto della promessa e dell'accettazione sia elemento estraneo alla fattispecie, non potendosi minimizzare un aspetto centrale della condotta antigiuridica: invero, la mera promessa accettata assume una propria autonomia ed è idonea a fissare il momento consumativo del reato nelle sole ipotesi in cui non è seguita dalla dazione–ricezione, perché, ove quest'ultima segua alla promessa, si verificano l'approfondimento dell'offesa tipica e lo spostamento in avanti dello stesso momento consumativo.
Fino alle Sezioni Unite del 2010 per la giurisprudenza di legittimità non era pacifica la possibilità di una corruzione in atti giudiziari nella forma susseguente.
Si diceva, in particolare, che non fosse ipotizzabile tale tipo di corruzione in atti giudiziari, benché il generico rinvio operato dalla disposizione incriminatrice ai fatti di cui agli artt. 318 e 319 c.p. potesse far pensare che il legislatore non abbia inteso porre alcuna distinzione o limitazione, sulla base del dato normativo racchiuso nell'inciso "per favorire o danneggiare una parte..."; secondo questa tesi, dal momento che la condotta incriminata, costituita dal ricevere denaro o accettarne la promessa, assumerebbe rilievo nell'attesa di un atto funzionale ancora da compiersi, e per il cui compimento il pubblico ufficiale assume un impegno, la mera remunerazione di atti pregressi resterebbe fuori dell'area di tipicità.
In altre parole, qualificandosi la corruzione in atti giudiziari per la tensione finalistica verso un risultato, la stessa non sarebbe compatibile con la proiezione verso il passato, con una situazione di interesse già soddisfatto, su cui è invece modulato lo schema della corruzione susseguente.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza n. 15208 del 2010) hanno peraltro ritenuto la configurabilità del delitto di corruzione in atti giudiziali anche nella forma della corruzione susseguente; in primo luogo, è stato detto che è inequivoca la formulazione letterale dell'art. 319 ter c.p., che riconnette la sanzione in esso prevista ai "fatti indicati negli artt. 318 e 319 c.p.".
Invero, sussiste il primato dell'interpretazione letterale sugli altri criteri ermeneutici, il cui impiego ha carattere sussidiario a causa della loro funzione ausiliaria e secondaria, in ragione dell'ordine con cui i diversi criteri interpretativi sono enunciati dall'art. 12 delle preleggi, secondo una gerarchia di valori non alterabile.
Sotto altro profilo, il fine di arrecare vantaggio o danno nei confronti di una parte processuale va riferito al pubblico ufficiale, poiché è questi che, compiendo un atto del proprio ufficio, può incidere sull'esito del processo; è dunque l'atto o il comportamento processuale che deve essere contrassegnato da una finalità non imparziale (non la condotta di accettazione della promessa o di ricezione del denaro o di altra utilità), e l'anzidetta peculiare direzione della volontà è un connotato soggettivo della condotta materiale del pubblico ufficiale.
Ciò che conta, in altri termini, è la finalità perseguita al momento del compimento dell'atto del pubblico ufficiale, qualsiasi sia il motivo da cui è nata, risultando indifferente che l'utilità data o promessa sia antecedente o susseguente al compimento dell'atto, come pure, secondo la Corte di Cassazione, sarebbe irrilevante stabilire se l'atto in concreto sia o meno contrario ai doveri di ufficio.
La finalità sì riferisce al fatto ed il valore del profilo soggettivo diviene così preponderante ai fini della ipotizzabilità dell'ipotesi di corruzione giudiziaria, da cancellare la distinzione tra atto contrario ai doveri di ufficio e atto di ufficio, rimanendo esponenziale il presupposto che l'autore del fatto sia venuto meno al dovere di imparzialità e terzietà (non solo soggettiva ma anche oggettiva) costituzionalmente presidiato, così da alterare la dialettica processuale.
In definitiva, secondo i Giudici di legittimità, nelle ipotesi di corruzione susseguente l'atto del pubblico ufficiale si inserisce nel contesto di una condotta che non ha ancora assunto rilevanza penale con riferimento al delitto di corruzione, e che tale rilevanza assume se, successivamente all'atto o al comportamento, il pubblico ufficiale accetta denaro o altra utilità (ovvero la loro promessa) per averlo realizzato, con strumentalizzazione e sviamento della pubblica funzione che può essere anche solo tentato, laddove non vi sia il successivo profitto.
Resta dunque possibile in astratto, seguendo questo ragionamento, anche la configurabilità della corruzione susseguente impropria, anche se vi è, probabilmente, una difficoltà probatoria insormontabile nel dimostrare una finalità sviata nella realizzazione di un atto conforme ai doveri di ufficio, in mancanza di un accordo preventivo.
La corruzione in atti giudiziari oggetto del procedimento trattato dal Tribunale di Milano si è incentrata nella condotta processuale del testimone.
La giurisprudenza della Corte di cassazione ha pacificamente ricondotto all'interno dell'art. 319 ter c.p. la condotta della falsa deposizione testimoniale, ritenendo che per "atto giudiziario" deve intendersi l'atto che sia funzionale ad un procedimento giudiziario e si ponga quale strumento per arrecare un favore o un danno nei confronti di una delle parti di un processo civile, penale o amministrativo, e che al testimone deve riconoscersi la qualifica di "pubblico ufficiale" ai sensi dell'art. 357 c.p., comma 1.
Sul punto, nessun profilo di ostatività è rinvenibile con riferimento ai rapporti tra il reato di corruzione in atti giudiziari e quello di falsa testimonianza, stante, come detto, la differenza strutturale tra tali due fattispecie.
Tuttavia, problemi di configurabilità di entrambi i reati sorgono quando l’imputato, esaminato nel precedente processo in cui avrebbe reso dichiarazione falsa nella veste di “testimone”, avrebbe dovuto essere invece sentito in quel processo ai sensi dell'art. 210 c.p.p., e cioè come "imputato di reato connesso".
Secondo il Tribunale di Milano, il giudice ha il potere-dovere di sindacare la qualità del soggetto esaminato, e dal momento nel diritto penale il termine “testimone” indica un elemento normativo della fattispecie, per definire compiutamente tale elemento occorre fare riferimento alle norme processuali in base alle quali detta qualifica può essere attribuita.
La ricerca dell'esatta individuazione dei confini assegnati al potere del giudice in ordine alla qualifica soggettiva da attribuire al dichiarante chiama in causa, peraltro, i presupposti applicativi non solo dell'art. 210 c.p.p., ma anche dell'art. 63 c.p.p., comma 2, ad essa collegata sul piano sistematico; tale norma, come chiarito anche dalla giurisprudenza costituzionale che si è formata in materia, attua una tutela anticipata delle incompatibilità con l'ufficio di testimone previste dall'art. 197 c.p.p., comma 1, lett. a) e b), nei confronti dell'imputato in un procedimento connesso o di un reato collegato.
Peraltro, secondo la Cassazione a Sezioni Unite pronunciatasi sul caso Mills – coinvolgente ancora una volta la posizione nelle vesti di presunto corruttore di Silvio Berlusconi –, il potere del Giudice di merito di verificare nella sostanza - al di là del riscontro di indici formali, quali la già intervenuta o meno iscrizione nominativa nel registro delle notizie di reato - l'attribuibilità, al dichiarante, della qualità di indagato nel momento in cui le dichiarazioni stesse vengano rese, dovrebbe essere circoscritto, quanto al tipo e alla consistenza degli elementi apprezzabili al fine di verificare l'effettivo status, alla sussistenza dei soli indizi non equivoci di reità (gravi indizi), sussistenti già prima dell'escussione del soggetto e conosciuti dall'autorità procedente.
D’altra parte, laddove si subordinasse l'applicazione della disposizione di cui all'art. 63 c.p.p., comma 2, alla iniziativa del pubblico ministero di iscrizione del dichiarante nel registro ex art. 335 c.p.p., si finirebbe col fare assurgere la condotta del pubblico ministero a requisito positivo di operatività della disposizione, quando sarebbe invece proprio la omissione antidoverosa di quest'ultimo ad essere oggetto del sindacato in vista della dichiarazione di inutilizzabilità.
Nella sostanza – e ciò ha rivestito un ruolo decisivo nella pronuncia in commento – la sanzione processuale prevista dall’art. 63, comma 2 c.p.p. per la violazione delle disposizioni a garanzia del dichiarante già attinto da indizi di reità è l’inutilizzabilità assoluta delle dichiarazioni.
Qualora il giudice dibattimentale si trovi di fronte ad un soggetto citato come testimone, mai formalmente iscritto nel registro degli indagati e a carico del quale emergano indizi di reità, affiorati dalle dichiarazioni stesse del testimone nel corso dell’esame, oppure rilevabili già prima, sulla base di diverse risultanze probatorie, il giudice medesimo deve attivarsi per far coincidere la situazione formale del dichiarante-testimone con quella sostanziale di soggetto passibile di indagini a proprio carico.
Con la particolarità, secondo il Tribunale di Milano da ultimo adito, che se tale “adeguamento” non sia stato effettuato dal giudice dinanzi al quale sia stata resa la testimonianza dall’indagato sostanziale, tale operazione possa essere compiuta anche dal successivo collegio giudicante che si stia occupando del reato di falsa testimonianza in ipotesi commesso nel precedente processo e infine contestato previa apposita iscrizione formale nel registro degli indagati.