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Successioni e prescrizione

a cura dell'Avv. Simone Voltarel • 20 febbraio 2022

Il fenomeno successorio si compone di due profili: uno oggettivo, dato dal patrimonio relitto dal de cuius, equivalente del complesso di beni e rapporti giuridici di cui era titolare, e uno soggettivo, dato dalla trasmissione a determinati soggetti a subentrare in luogo del defunto, i c.d. chiamati all’eredità [1].

Nell’ambito di tale macro categoria, la dottrina distingue i “vocati”, ossia coloro che sono solo astrattamente designati alla successione, per volontà dello stesso de cuius o della legge (art. 457 c.c.), dai “delati”, ossia coloro che dal momento dell’apertura della successione hanno la concreta offerta delle sostanze ricomprese nell’asse ereditario.

Se normalmente le due vesti coincidono, consentendo l’appellativo comune di “chiamato all’eredità”, in alcune ipotesi previste dalla legge, per esempio in caso di rappresentazione ex art. 467 c.c. o di sostituzione ex art. 688 c.c. determinata dalla scheda testamentaria, si può verificare uno iato che differenzia le due posizioni giuridiche. Solo il delato cioè, a differenza del vocato, è immediatamente nella condizione di accettare efficacemente e di vantare diritti sull’eredità.

Nel frangente della differenziazione tra le due figure, talora non immediatamente intelleggibile nella sua complessità, si colloca la disposizione dell’art. 480 c.c. che individua un termine di prescrizione estintiva di dieci anni con decorrenza dalla data di apertura della successione.

Il vano decorso del decennio da tale data comporta, quindi, l’estinzione del diritto di accettare, da deve ritenersi consumato ex art. 2934 c.c. [2].

Nel disciplinare le modalità di accettazione o rinuncia all’eredità nelle disposizioni precedenti – artt. 475, 476, 477, 479 c.c. – l’ordinamento prende a riferimento unicamente il chiamato; su tutti i chiamati quindi, intesi tanto come delati o volgarmente “primi chiamati”, quanto come vocati, grava l’onere di rispettare il termine.

Ne discende che l’inerzia del primo si ripercuote negativamente su tutti gli ulteriori che non si attivino per rispettarlo, con conseguente danno e consumazione del diritto.

A tal riguardo, i vocati non delati hanno più modi per tutelare la propria posizione di aspettativa.

In prima battuta, in qualità di interessati, possono adìre il Giudice affinché fissi un termine entro il quale il chiamato anteriore dichiari se intende accettare l’eredità. La c.d. actio interrogatoria – al pari del termine inserito dal testatore – tramuta così la prescrizione prevista dall’art. 480 c.c., la cui inosservanza comporta l’estinzione del diritto, in decadenza: il mancato rispetto del termine assegnato dal Giudice comporta, cioè, la consumazione del potere di espandere il proprio diritto di accettazione in titolarità [3].

In seconda battuta, in disaccordo con la dottrina [4] che ritiene che il destinatario di una delazione non ancora attuale, al momento dell’apertura della successione, sarebbe titolare di una mera situazione giuridica di aspettativa cui è riservata una tutela minore rispetto a quella riservata al c.d. delato, la giurisprudenza di legittimità ha accolto il principio di cd. simultaneità delle delazioni [5]. Ogni singolo chiamato ha quindi il diritto di accettare, anche per fatti concludenti, la delazione ereditaria; in questo modo l’accettazione diviene un atto giuridico che si riempie di contenuto – ossia dei rapporti già intestati al de cuius – solo al venir meno, vuoi per rinuncia o per decadenza, del diritto di accettare dei delati antecedenti o preferiti in grado.

La giurisprudenza predilige così l’interpretazione della chiamata attuale tanto per i delati quanto per i vocati all’eredità, il cui termine di prescrizione, per tutti, decorre e si consuma col passaggio di dieci anni dal momento dell’apertura della successione.

In questo senso, la prescrizione si atteggia in maniera simile a quanto dettato dall’art. 2940 c.c. in tema di adempimento spontaneo: così come il soggetto che ha spontaneamente onorato un debito prescritto non ha diritto di ripeterne il pagamento, cristallizzando un diritto adempiuto oltre la sua scadenza quasi si trattasse dell’adempimento di un’obbligazione naturale, in maniera simile l’accettazione tardiva, ossia oltre il termine decennale, non impedisce l’acquisto della qualità di erede, a patto che non venga tempestivamente eccepita da chiunque ne abbia interesse [6].

L’interesse è stato letto dalla giurisprudenza in senso affatto ampio, di modo che il rilievo può esser svolto anche un terzo non chiamato [7], che potrebbe esser danneggiato dalla riduzione patrimoniale destinata al proprio debitore per effetto della accettazione tardiva di un altro chiamato all’eredità.

Vista la validità dell’acquisto mortis causa ultradecennale e la possibilità di rinunciare all’eccezione di prescrizione ex art. 2937 c.c. [8], c’è quindi da interrogarsi su quale sia l’effetto del rilievo dell’intervenuta prescrizione dell’acquisto effettuato dal chiamato oltre il termine decennale, ossia, in altre parole, quale sia il regime di stabilità della situazione giuridica creatasi per effetto di un atto giuridico compiuto oltre il termine stabilito dall’ordinamento per il suo perfezionamento, nel caso in cui la prescrizione venga validamente e, in ambito processuale, tempestivamente eccepita [9].

Dato per pacifico che la domanda di accertamento (o l’eccezione) di avvenuta prescrizione sollevata prima dell’accettazione ultradecennale comporta l’impossibilità di validamente subentrare nella posizione giuridica del de cuius, per intervenuta e accertata consumazione del relativo diritto in capo al (l’allora) chiamato, maggiori problemi si pongono in caso di rilievo della prescrizione svolto dopo l’accettazione ultradecennale.

In tale fattispecie la prescrizione pare atteggiarsi in modalità parzialmente difforme rispetto al diritto comune disciplinato dall’art. 2940 c.c.: se l’adempimento spontaneo tardivo non è ripetibile anche rilevandone la prescrizione, al contrario chi scrive ritiene che il rilievo del decorso del termine svolto dopo l’accettazione ultradecennale impedisca la cristallizzazione della situazione giuridica apparente, il valido acquisto della qualifica di erede e, così, comporti il ripristino dello stato anteriore all’accettazione.

L’art. 525 c.c. prevede infatti che i chiamati, anche se hanno rinunciato, possono sempre validamente accettare l’eredità se non è già stata accettata da altro dei chiamati e sino al termine di compimento della prescrizione.

La rinuncia all’eredità, cioè, può esser revocata solo entro il decennio dall’apertura della successione, oltre tale termine restando insensibile il mutamento di idea del vocato al decorso del tempo.

Se ciò è vero, in pari misura l’eccezione di prescrizione in ordine alla tardività dell’accettazione produce l’effetto di far decadere l’erede tardivo dalla sua qualifica, dovendo l’inerzia (ultra)decennale di quest’ultimo esser parificata alla rinuncia tardivamente revocata, impedita dall’ordinamento.

Quindi, come il rinunciante non potrà più, oltre il decennio, acquistare la qualifica di erede, così il mancato esercizio del diritto, da ritenersi consumato [10], renderà impossibile l’acquisto dell’eredità.

La qualifica di erede deve ritenersi in tal caso non tanto impedita, quanto “revocata”; infatti in assenza del rilievo della tardività – come visto sopra – l’accettazione ultradecennale si considera valida ed efficace.

A tal riguardo, la ratio dell’art. 525 c.c. e, così, del sistema prescrizionale in materia successoria, pare riferirsi ancora al principio per cui l’ordinamento, tra qui certat de damno vitando e qui certat de lucro captando, tutela il primo assicurando all’accettante in termini l’intangibilità dei diritti quesiti con preferenza rispetto al tardivo, in quanto quesiti oltre la scadenza fissata dall’art. 480 c.c..



[1] La successione ereditaria è un fenomeno a formazione progressiva che inizia con l’epertura della successione e si conclude con l’accettazione ex art. 459 c.c.. La Suprema Corte ha chiarito che “La delazione conseguente all'apertura della successione ereditaria, pur costituendone un presupposto, non è sufficiente per l'acquisto dell'eredità, a tal fine occorrendo anche che il chiamato proceda all'accettazione mediante una dichiarazione espressa di volontà (o con l'assunzione del titolo di erede) in un atto pubblico o in una scrittura privata (art. 475 c.c.) oppure compiendo atti che necessariamente presuppongono la volontà di accettare e che il chiamato stesso non avrebbe avuto il diritto di fare se non nella qualità di erede” (Cass. n. 9782/1995 e, dello stesso tenore, Cass. n. 1850/1971 e Cass. n. 2408/1972).

[2] Si veda Cass. 2975/1989, secondo la quale “L'art. 480 comma 1 cod. civ., stabilendo che il diritto di accettare l'eredità si estingue con il decorso del tempo (dieci anni), prevede un termine di prescrizione estintiva”.

[3] Sul punto, si veda G. Petrelli in Rivista del Notariato, 1993, pag. 287, secondo il quale, però, la trascrizione dell’acquisto mortis causa effettuata oltre il termine per accettare deve considerarsi valida accettazione dell’eredità, a tutela del principio dell’apparenza ereditaria, in particolare se tale aspetto non risulta dalla nota. La conclusione pare, a chi scrive, non condivisibile. Il regime della pubblicità immobiliare opera su un piano diverso da quello sostanziale, tale per cui non è elemento idoneo e/o sufficiente a sanare o colmare le lacune o invalidità della fattispecie. Ne discende, sempre a parere dello scrivente, che la consumazione del potere di accettare l’eredità, se eccepito in termini e, così, prima dell’esecuzione della formalità pubblicitaria, comporta la definitiva fuoriuscita dalla sfera giuridica soggettiva del delato, con applicazione dei rimedi previsti dall’art. 2662 c.c..

[4] Sul punto, si veda Grosso e Burdese, Le successioni, Parte generale, in Tratt. Dir. civ. it., diretto da Vassalli, pag. 72. La dottrina valorizza l’interpretazione romanistica per la quale “delata hereditas intelligitur, quam qui possit adeundo consequi”, dalla quale si desume che i chiamati in subordine sono legittimati all’accettazione solo dal momento in cui l’eredità si devolva in loro favore. Corollario di tale regola è che non solo il chiamato in subordine non ha potere di amministrare l’eredità ex art. 460 c.c. (Grosso Burdese, op. citata, pag. 164, Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle successioni, Torino 2005, pag. 83) ma, addirittura, in suo favore non debba nemmeno esser considerata aperta la successione (Capozzi, Successioni e Donazioni, Milano 2009, pag. 106).

[5] Si veda Cass. 2743/2014, secondo la quale “Qualora sussista una pluralità di chiamati a succedere in ordine successivo, si realizza una delazione simultanea a favore dei primi chiamati e dei chiamati ulteriori, con la conseguenza che questi ultimi, in pendenza del termine di accettazione dell’eredità dei primi chiamati, sono abilitati ad effettuare un’accettazione anche tacita dell’eredità”.

[6] “La prescrizione del diritto di accettare l'eredità, a norme dell'art. 480 c.c. opera, in mancanza di limitazioni normative, a favore di chiunque vi abbia interesse, anche se estraneo all'eredità”, Cass. 9901/1995 e Cass. 2975/1989 ma non può esser rilevata d’ufficio e, pertanto, l’eventuale accettazione tardiva è valida a condizione che nessuno abbia rilevato la prescrizione (Cass. 5633/1987 e Cass. 3529/1969; in dottrina, G. Petrelli in Rivista del Notariato, 1993, pag. 290: “Il chiamato all’eredità può porre in essere un atto di accettazione – espressa o tacita – dell’eredità anche dopo il decorso del termine prescrizionale, non essendovi peraltro alcuna possibilità di considerare invalido in tal caso il negozio di accettazione, che potrà produrre normalmente i suoi effetti se nessuno eccepirà l’avvenuta prescrizione”

[7] Sembra applicabile, anche in materia successoria, l’art. 2939 c.c.. Cass. 1596/1979 ha ammesso la formulazione della relativa eccezione da parte del Curatore fallimentare. In caso di pluralità di interessati, l’eccezione svolta da uno solo d’essi giova a tutti, considerato il carattere unitario e inscindibile dalla situazione soggettiva del chiamato all’eredità. Nono potendo l’eccezione di prescrizione giovare solo a chi la eserciti e non agli altri, concernendo lo status di erede che deve avere efficacia e erga omnes, Cass. 178/1996 ha precisato che l’eccezione sollevata da uno dei convenuti in divisione opera efficacemente anche in favore degli altri, e addirittura ancorchè taluno dei condividenti abbia espressamente rinunciato.

[8] La prescrizione del diritto di rinunciare all’eredità è rinunciabile. Intervenuta la prescrizione decennale ai sensi dell’art. 480 c.c., il soggetto al quale l’estinzione del diritto altrui giovi può manifestare l’inequivoca volontà di non avvalersi della prescrizione, perdendo così il potere di eccepirla in sede processuale. In tale caso, non operando la prescrizione in modalità ipso iure, il diritto colpito – precedentemente indebolito dal diritto di rilevarla del co-chiamato – riacquista il proprio vigore come se il decorso del tempo non si fosse mai verificato. In questo senso Cass. n. 263/1996, Cass. 3529/1969 e Cass. 68/1978. Si veda anche Effetti della rinuncia tacita alla prescrizione del diritto di accettare l'eredità, di Nicola de Mauro in Giust. Civ. 1996, pag. 1667.

[9] Deve ritenersi applicabile, sul punto, l’art. 2938 c.c. per il quale il Giudice non può rilevare d’ufficio la prescrizione non opposta. A tal riguardo, Cass. 12646/2020 ha precisato che il chiamato può accettare l’eredità anche oltre il termine di 10 anni, se non viene eccepita la prescrizione. Precisa la Cassazione che, poiché non rilevabile d’ufficio, la prescrizione eccepita per la prima volta in grado d’appello – e così tardiva secondo le preclusioni processuali - non fa decadere il chiamato dall’accettazione, pur eseguita oltre il decennio dall’apertura della successione.

[10] A commento dell’art. 525 c.c., la dottrina sostiene che “la facoltà di revoca della rinunzia viene meno se è prescritto il diritto di accettare l’eredità, ossia se sono decorsi dieci anni dall’apertura della successione” (Successioni e donazioni, G. Capozzi, Milano 2015, pag. 333). Ne deriva che, decorsi dieci anni dall’apertura della successione, se non è possibile revocare la rinuncia è conseguentemente irrealizzabile l’accettazione tardiva.



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