La nuova riforma del 2017 in materia di regime di titolarità e di gestione delle farmacie ha incluso tra le incompatibilità anche l’esercizio della professione medica, risultando ciò necessario dalla possibilità, contestualmente introdotta, che i soci non siano più farmacisti, laddove in precedenza (anche dopo il 1991) potevano ritenersi sufficienti – quanto all’esercizio della professione medica - i tradizionali divieti posti dal r.d. n. 1256 del 1934 (in specie agli artt. 102 e 112) dettati per i farmacisti persone fisiche titolari ovvero esercenti (da soli o in società di persone) di farmacia.
Sono perciò attualmente esistenti due distinte e separate regole di incompatibilità.
La prima, declinata in termini all’apparenza assoluti, definisce la partecipazione (societaria) alle società titolari di farmacie private incompatibile con qualsiasi altra attività svolta nel settore della produzione e informazione scientifica del farmaco, nonché con l'esercizio della professione medica; la seconda, declinata in termini in teSI meno assoluti, LA QUALE, valorizzando l’inciso “per quanto compatibili”, fa rinvio alle disposizioni del successivo art. 8 che definiscono quella medesima partecipazione (societaria) incompatibile, tra le altre cose, “con qualsiasi rapporto di lavoro pubblico e privato”.
Secondo l’Adunanza Plenaria, la nozione di “esercizio della professione medica”, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 7, comma 2, secondo periodo, della l. 362/1991 (come modificato dalla riforma del 2017, nel senso sopra esposto), deve ricevere un’interpretazione funzionale ad assicurare il fine di prevenire qualunque potenziale conflitto di interessi derivante dalla commistione tra questa attività e quella di dispensazione dei farmaci, in primo luogo a tutela della salute; in tal senso deve ritenersi applicabile la situazione di incompatibilità in questione anche ad una casa di cura, società di capitali e quindi persona giuridica, che abbia una partecipazione in una società, sempre di capitali, titolare di farmacia.
Inoltre, una società concorre nella “gestione della farmacia”, per il tramite della società titolare cui partecipa come socio, qualora, per le caratteristiche quantitative e qualitative di detta partecipazione sociale, siano riscontrabili i presupposti di un controllo societario ai sensi dell’art. 2359 c.c., sul quale poter fondare la presunzione di direzione e coordinamento ai sensi dell’art. 2497 c.c. (Adunanza Plenaria n. 5 del 2022)
L’attività di vendita al pubblico di farmaci al dettaglio, che la giurisprudenza costituzionale inquadra nell’ambito dei servizi pubblici di natura economica dati in concessione, costituisce un’attività economica da molto tempo disciplinata e vigilata, soggetta a programmazione a partire dalla “storica” legge n. 468 del 1913, che modificò il regime tardo ottocentesco precedentemente nel segno di una sostanziale libertà nell’apertura e nell’esercizio delle farmacie (cfr. art. 26 della l. n. 5849 del 1888).
La riforma del 1913, trasposta senza sostanziali modifiche nel testo unico delle leggi sanitarie del 1934 (il r.d. n. 1265, in particolare il Capo II del Titolo II, artt. 104 ss.), configurava il servizio farmaceutico secondo i crismi di una professione intellettuale “protetta”, riservata esclusivamente ad una persona fisica, il farmacista, che fosse in possesso di specifici requisiti di idoneità e risultasse titolare di un’autorizzazione amministrativa all’apertura e all’esercizio della farmacia, strettamente personale, non cumulabile e, almeno in origine, incedibile ad altri.
In epoca repubblicana, la programmazione, effettuata in questo ambito anche in termini quantitativi e numerici, ha assunto i contorni di una vera e propria pianificazione, articolata su base comunale, attraverso la pianta organica delle farmacie (art. 2 della l. n. 475 del 1968), quale strumento in forza del quale affidare il servizio farmaceutico ai privati laureati in farmacia (art. 9 della l. 475/1968; art. 4 della l. n. 362 del 1991), ovvero ai Comuni (art. 9 della l. 475/1968), secondo un rapporto numerico tra esercizi ed utenti ed assegnando ad ogni farmacia una clientela o un bacino di utenza per così dire virtuale (art. 1 della l. 475/1968).
Il nesso tra contingentamento, programmazione e sottoposizione del farmacista ad una serie di disposizioni imperative, in uno con il richiamo sin da allora all’art. 32 Cost. quale loro fondamento, era evidenziato in una delle prime pronunce della Corte costituzionale (la n. 29 del 1957), la quale ha osservato come “L'organizzazione del servizio farmaceutico, se da un lato ha creato al farmacista concessionario di una farmacia una posizione di privilegio con l'eliminare la concorrenza entro determinati limiti demografici e territoriali; dall'altro, trattandosi di un servizio di pubblica necessità, ha imposto allo stesso farmacista l'obbligo di svolgere la sua attività con l'adempimento delle prescrizioni dalle leggi stabilite per questa particolare professione”.
All’indomani dell’istituzione del Servizio sanitario nazionale nel 1978 le farmacie, sia quelle private che quelle comunali (le seconde ritenute esercizio diretto di un servizio pubblico), ne sono divenute parte integrante e costituiscono lo strumento attraverso il quale è erogata l’assistenza farmaceutica alla popolazione, in ragione della loro capillarità e del loro obbligo di erogare i farmaci agli assistiti ed a chiunque intenda acquistarli e di non interrompere lo svolgimento del servizio soggetto ad ampi poteri di vigilanza e di controllo dell'amministrazione.
Peraltro, la programmazione anche mediante il contingentamento numerico è stata oggetto di recenti modifiche apportate dall’art. 11 del d.l. n. 1 del 2012, convertito in legge n. 27 del 2012. Con esse il rapporto tra numero degli esercizi e fattore demografico è stato rimodulato nella direzione di una parziale “liberalizzazione” e quindi di una distribuzione più capillare del servizio, attraverso l’apertura di nuove farmacie private da mettere a concorso, sicché la programmazione di turni ed orari è stata allentata, riconoscendo all’iniziativa del singolo farmacista maggiore voce in capitolo.
Alle limitazioni quantitative, si cui si è appena detto, si sono affiancate tradizionalmente limitazioni soggettive, nel riservare alla (sola) categoria dei farmacisti la possibilità di esercitare l’attività di distribuzione e vendita al pubblico dei farmaci.
L’apertura alle società di capitali, anche per le farmacie private, si è accompagnata inoltre, sempre nella riforma del 2017, al venir meno ovvero all’abolizione, per tutti i tipi societari, della previsione che in precedenza imponeva che i soci, delle società che gestiscono farmacie, dovessero essere a loro volta farmacisti, come anche alla rimozione del limite delle quattro licenze in capo ad una stessa società, limite sostituito dal divieto, meno pregnante, di controllare una quota superiore al 20 per cento delle farmacie della medesima regione o provincia autonoma ed il cui rispetto è sottoposto ai poteri di indagine, istruttoria e diffida dell’AGCM.
Peraltro, le società titolari dell’esercizio di farmacie private devono avere questa attività come loro oggetto sociale esclusivo e, quand’anche i soci possano non essere farmacisti, è pur sempre necessario che la direzione della farmacia continui invece ad essere affidata ad un farmacista, anche non socio, che ne è responsabile.