Un soggetto colpito da un’imposta o da una tassa, a seguito di generazione del relativo presupposto, può tenere vari comportamenti, al fine di ridurre il carico fiscale a suo carico, alcuni leciti e altri illeciti.
Nei comportamenti leciti rientrano la traslazione delle imposte e il legittimo risparmio fiscale.
La traslazione delle imposte è un fenomeno che si verifica quando il contribuente (di diritto o percosso) riversa una parte o l’intera quota del tributo dovuto su un altro contribuente (di fatto o inciso).
Generalmente, ciò avviene nei confronti dell’acquirente di un bene o servizio, tramite la formazione del prezzo, e può verificarsi sia lungo il processo produttivo di un bene, nel caso di cessione di materia prima o di un prodotto semilavorato, sia al termine del processo di produzione, per la cessione al consumatore finale.
Si genera così un meccanismo per cui, ad esempio, un’imposta gravante sulla produzione, mediante la traslazione di essa sull’acquirente del bene finale, diventa nei fatti un’imposta sui consumi (si pensi, ad esempio, all’imposta sui carburanti).
Con riferimento alla direzione della traslazione, si distingue tra traslazione in avanti (che si verifica quando l'imposta colpisce il produttore provocando una restrizione dell'offerta, ma poi viene trasferita al consumatore attraverso un aumento del prezzo del bene tassato), traslazione all'indietro (l'imposta viene trasferita dal consumatore al produttore, a seguito della riduzione della domanda di un bene tassato), traslazione verticale (la quale si verifica qualora la variazione dei prezzi riguarda il bene colpito dall'imposta e i beni strumentali necessari a produrlo qualora si tratti di un bene finito) e traslazione obliqua (l'imposta fissata per un determinato bene viene trasferita sui consumatori di un altro bene non tassato attraverso la modificazione della domanda o dell'offerta di quest'ultimo).
Per comprendere invece cosa sia il legittimo risparmio d’imposta occorre definire il concetto di elusione fiscale.
Invero, ogni comportamento del contribuente che non costituisca evasione né elusione ma che gli permetta di alleggerire il proprio carico fiscale è da ritenersi lecito.
In particolare, secondo l’art. 10-bis, comma 4 dello Statuto dei diritti del contribuente, si ha legittimo risparmio d’imposta quando è stata esercitata la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale.
Il fenomeno dell’elusione fiscale si realizza, in generale, quando il contribuente applica una normativa fiscale più favorevole invece di adottare il regime fiscale che sarebbe appropriato per l’operazione economica sottostante.
L’elusione si distingue dall’evasione perché non è violazione diretta, ma aggiramento dei precetti fiscali, ed è illecita quando consiste in un abuso delle norme fiscali, con il conseguimento di risultati indebiti.
La distinzione tra aggiramento (elusione) e violazione (evasione) è stata ribadita dall’art. 10-bis comma 12 dello Statuto dei diritti del contribuente, secondo cui in sede di accertamento l’abuso del diritto può essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di specifiche disposizioni tributarie.
L’elusione può essere contrastata o con norme di portata generale, a contenuto espressamente antielusivo, o con norme antielusive specifiche, cioè da norme la cui antielusività risiede nella loro ratio.
Quanto alla prima fattispecie, nel nostro ordinamento è stato introdotto, con il d.lgs. n. 128 del 2015, l’art. 10-bis, comma 1 dello Statuto dei diritti del Contribuente, che definisce “abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti”.
Prima di tale innovazione normativa, l’elusione era prevista soltanto dall’art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973 (disposizione oggi abrogata), che però aveva portata limitata.
Peraltro, la giurisprudenza aveva ritenuto esistente nel nostro ordinamento una più generale clausola antielusiva non scritta, che si traduceva in un divieto generale di abuso del diritto fiscale, la cui violazione comportava la nullità dei relativi contratti per difetto di causa.
Tanto, sulla scia della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, che aveva sanzionato, sia in settori fiscali che in settori non fiscali, l’abusivo avvalimento delle norme comunitarie, stabilendo in particolare, con la sentenza Halifax, un principio generale antiabuso in materia di IVA.
Anche se tale tipologia di sentenze vincolava il nostro ordinamento - in materia fiscale - soltanto per le imposte armonizzate (come l’IVA), la Cassazione aveva ritenuto di estendere l’applicazione dei principi da esse desumibili alle imposte dirette interne, ravvisando il fondamento del principio generale antielusivo nel principio di capacità contributiva.
L’art. 10-bis, comma 1 dello Statuto dei diritti del contribuente, come detto, ha stabilito una disciplina generale in materia di elusione, andando a colpire le operazioni rispettose formalmente delle norme fiscali ma prive di sostanza economica e volte nella sostanza a realizzare vantaggi fiscali indebiti.
L’operazione priva di sostanza economica è costituita da fatti, atti o contratti, anche tra di loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali.
Esempi di operazioni economiche che hanno una giustificazione essenzialmente di natura fiscale sono la costituzione di società che non svolgono attività in Paesi in cui i proventi delle partecipazioni non sono tassati o le esportazioni a U, concepite al mero fine di usufruire della restituzione di dazi doganali per l’esportazione, con cessione e restituzione della merce senza alcun utilizzo della stessa da parte dell’importatore.
Sono indici di mancanza di sostanza economica, in particolare, la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell’utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato.
Mentre non sono elusive le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo e gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente.
A tale riguardo, la giurisprudenza nazionale, anche alla luce della giurisprudenza unionale, ha precisato che la circostanza fondamentale da verificare, per delineare il carattere elusivo o meno dell’operazione, è se lo scopo economico dell’operazione stesso sia tale per cui questa sarebbe stata compiuta anche senza vantaggi fiscali.
E’ da considerarsi pertanto abusiva, ad esempio, una complessa operazione societaria posta in essere, secondo uno schema “circolare” (cioè tramite un insieme di atti la cui soluzione finale non differisce nella sostanza dalla situazione di partenza), soltanto allo scopo di fruire dei benefici fiscali riservati alle società di nuova costituzione.
Non è invece da considerarsi elusivo il “leveraged buy out”, ovvero l’acquisizione con indebitamento posta in essere mediante più atti di fusione, se è necessaria per eseguire un progetto di riorganizzazione aziendale.
In questo caso, infatti, la giustificazione della complessiva operazione non è di natura fiscale, o, meglio ancora, i benefici fiscali (da considerarsi comunque “marginali”) seguono gli effetti di una strategia societaria che sarebbe stata in ogni caso perseguita.
I vantaggi fiscali (anche non immediati) conseguiti dalle operazioni economiche attuate sono da considerarsi indebiti se realizzati in contrasto con norme fiscali che siano espressione di un principio dell’ordinamento tributario, anche se secondo taluni – sulla base di un’interpretazione letterale dell’art. 10-bis, comma 12 dello Statuto – basterebbe un generico contrasto con i principi dell’ordinamento tributario.
Un diversa interpretazione della violazione di principi antielusivi tra amministrazione finanziaria e giurisprudenza si è avuta nel caso del contratto di sale and lease back, attraverso il quale un’impresa vende un bene ad una società finanziaria, la quale lo retrocede subito dopo in leasing allo stesso venditore.
L’amministrazione ha riqualificato il doppio contratto (compravendita e leasing) considerandolo come un’operazione unitaria di mero finanziamento, e ritenendo pertanto non conseguibili i benefici fiscali derivanti dal doppio negozio giuridico (detrazione ai fini IVA e deduzione ai fini delle imposte sui redditi dell’ammortamento del costo).
Tuttavia, la Cassazione ha stabilito che il contratto di questione può rispondere a precise ragioni economiche di strategia aziendale e che la complessiva vicenda giuridica che lo caratterizza è da considerarsi elusiva soltanto ove sia palese l’antieconomicità delle singole operazioni sottostanti.
In ogni caso, il contratto elusivo non sarà anche nullo, perché – e adesso lo conferma espressamente anche l’art. 10, comma 3 dello Statuto – le norme imperative a cui si riferisce l’art. 1344 c.c. sono le norme civilistiche proibitive, mentre le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto.
Al più, sarà disponibile per il creditore privato frodato lo strumento della revocazione ex art. 2901 c.c..
Ad ogni modo, se l’amministrazione finanziaria ritiene elusiva l’operazione, ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni (cosiddetta inopponibilità al fisco del contratto).
L’inopponibilità è una forma di inefficacia relativa e deve essere preceduta, a pena di nullità del successivo avviso di accertamento, da una richiesta di chiarimenti, nella quale l’amministrazione finanziaria deve individuare e precisare gli aspetti e le particolarità che fanno ritenere l’operazione priva di reale contenuto economico e volta al mero risparmio d’imposta.
La richiesta di chiarimenti dev’essere notificata nei modi previsti per gli avvisi di accertamento entro il termine di decadenza previsto per la notifica dell’atto impositivo; il successivo avviso di accertamento non preclude la possibilità di emettere un ulteriore avviso di accertamento, per ragioni diversi dall’elusione.
A sua volta, a seguito della richiesta di chiarimenti (oltre che dell’eventuale successivo avviso di accertamento), il contribuente ha l’onere di provare, sia in sede procedimentale che processuale, i fatti che sono alla base delle ragioni extrafiscali che giustificano la sua condotta, dimostrando che l’uso di quella determinata forma giuridica corrisponde ad un reale scopo economico, diverso dal mero risparmio fiscale.
Le operazioni abusive – se accertate - danno luogo anche all’applicazione di sanzioni amministrative, ma non sono mai considerate fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie, per espressa previsione dell’art. 10-bis, comma 13, dello Statuto dei diritti del contribuente.
Tuttavia, l’elusione può comportare l’applicazione di sanzioni, secondo la Corte di Giustizia, solo se sussiste un fondamento normativo chiaro e univoco.
Il contribuente ha a disposizione, nei casi in cui ritenga dubbio se un comportamento sia elusivo, lo strumento dell’interpello di cui all’articolo 11 dello Statuto, per ottenere un parere riguardante l’applicazione della disciplina dell’abuso ad una determinata fattispecie.
Si tratta del cosiddetto interpello antielusivo, che si affianca ad altri tipi di istanze similari, ma ne differisce per i presupposti applicativi.
Mentre infatti l’interpello ordinario o interpretativo è volto a ottenere un parere quando sussistano obiettive condizioni di incertezza sull’interpretazione di qualsivoglia disposizione tributaria, in relazione alla sua applicazione a casi concreti e personali (con la variante dell’interpello qualificatorio, che riguarda non l’applicazione ma la corretta qualificazione delle fattispecie complesse), l’interpello anti-abuso costituisce il nuovo strumento attraverso il quale il contribuente può chiedere all’amministrazione se le operazioni che intende realizzare costituiscano fattispecie di abuso del diritto.
Ancora diversi sono l’interpello probatorio, che si sostanzia in una richiesta all’amministrazione tesa a ottenere un parere sulla sussistenza delle condizioni o sulla idoneità degli elementi probatori offerti dal contribuente ai fini dell’adozione di un determinato regime fiscale, e l’interpello disapplicativo, residuale ipotesi di interpello obbligatorio (mentre tutti gli altri sono meramente facoltativi), che si ha quando l’istanza è necessaria ai fini dell’accesso a un regime derogatorio, per lo più agevolativo, rispetto a quello legale, normalmente applicabile (ad esempio, ultimo comma dell’art. 84 TUIR in materia di riporto delle perdite).
Ci sono poi gli interpelli non disciplinati dall’art. 11 dello Statuto dei diritti del contribuente, come l’interpello indirizzato alle società che effettuano nuovi investimenti (art. 2 del d.lgs. n. 147 del 2015) e l’interpello preventivo derivante dall’adesione al regime dell’adempimento collaborativo (d.lgs. n. 128 del 2015).
In linea generale, comunque, tutti gli interpelli necessitano di una risposta scritta e motivata entro un determinato lasso temporale (novanta o centoventi giorni a seconda dei casi), in mancanza della quale il silenzio equivale a condivisione, da parte dell’amministrazione finanziaria interpellata, della soluzione prospettata dal contribuente.
Gli atti dell’amministrazione difformi dalla risposta, espressa o tacita, sono nulli, mentre il parere vincola l’amministrazione e non il contribuente, che resta libero di disattenderlo, e può impugnare soltanto l’atto con il quale l’amministrazione esercita la potestà impositiva in conformità all’interpretazione data nella risposta all’interpello, e non direttamente detta risposta.
D’altra parte, l’interpello obbliga l’amministrazione a rispondere solo se concerne una disposizione la cui interpretazione si presenti obiettivamente incerta, dovendosi ritenere che non ricorrono condizioni di obiettiva incertezza quando l’amministrazione ha compiutamente e pubblicamente fornito la soluzione per fattispecie corrispondenti a quella rappresentata dal contribuente.
L’istanza non può inoltre essere presentata da chiunque e a scopo accademico, ma solo da chi svolge un’attività che comporta l’applicazione delle norme a cui si riferisce l’interpello.
Tornando all’elusione fiscale, si è già detto che essa può essere contrastata anche con norme antielusive specifiche, cioè da norme la cui antielusività risiede nella loro ratio.
Si tratta di norme con cui si incide sulla disciplina sostanziale di un tributo, come ad esempio quelle che limitano la deducibilità delle perdite maturate in un periodo di imposta sul reddito dei periodi d’imposta successivi, quelle che riguardano la deducibilità da parte della società incorporante delle perdite della società incorporata, quelle che escludono nella disciplina del consolidato nazionale e della trasparenza delle società di capitali l’utilizzabilità delle perdite fiscali realizzate prima dell’adozione del consolidato nazionale o della trasparenza stessa, quelle che limitano la deduzione dei canoni di leasing dal reddito d’impresa, quella sul transfer price, in base alla quale nei trasferimenti infragruppo è rilevante il prezzo che sarebbe stato pattuito tra soggetti indipendenti in condizioni di libera concorrenza e non il prezzo concretamente pattuito (anche se secondo la Cassazione tale disciplina non va intesa come antielusiva in senso proprio, ma come attuativa del principio di libera concorrenza), e la legislazione CFC, che stabilisce che gli utili derivanti dalla partecipazione in società estere controllate con sede in Stati a fiscalità privilegiata siano tassati secondo il principio di trasparenza e non secondo il principio di cassa.
Si tratta di norme specifiche, che hanno lo scopo di impedire pratiche elusive, ma che possono essere sempre disapplicate nel caso in cui il contribuente dimostri che non possono verificarsi gli effetti elusivi presunti.
Vi è infine la riqualificazione dei negozi giuridici prevista dall’art. 20 del Testo unico dell'imposta di registro, secondo cui l’imposta è applicata in rapporto alla intrinseca natura e agli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati.
La Corte costituzionale ha recentemente dichiarato non fondate le questioni di costituzionalità dell’art. 20 sopra citato, come modificato nel 2017, e ritenuto norma di interpretazione “autentica” nel 2018, affermando che risulta rispettata la coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico, coerenza sulla cui verifica verte infine il giudizio di legittimità costituzionale.
La norma di riqualificazione dei negozi giuridici e la clausola generale antielusiva divergono tra di loro sotto i seguenti profili:
- la prima colpisce atti la cui apparenza non corrisponde alla sostanza e applica l’imposta dovuta sul negozio realmente posto in essere; la seconda colpisce atti privi di sostanza economica e rende inopponibili all’amministrazione gli effetti dell’operazione elusiva;
- nel caso di riqualificazione, devono essere applicate le norme del procedimento impositivo dell’imposta di registro, integrate dalla regola del contraddittorio procedimentale; nel caso di applicazione della clausola antielusiva generale, la procedura da seguire è quella prevista dall’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente.
SI segnala infine che un caso particolare di riqualificazione ex art. 20 del Testo unico sopra citato è quello del conferimento di azienda cui segue la cessione dell’intera partecipazione; tale operazione, prima della modifica avvenuta nel 2017 della norma sulla riqualificazione, veniva ritenuta dalla giurisprudenza un’operazione complessiva di vendita dell’azienda, da tassare dunque in quanto tale.