(La Cassazione e il danno tanatologico: considerazioni critiche)
Nel 2010 un uomo convenne dinanzi al Tribunale di Venezia una società assicurativa esponendo che aveva perso il proprio figlio quindicenne in seguito ad un incidente stradale, avvenuto mentre l’adolescente viaggiava su un veicolo a motore di proprietà del padre e guidato dalla madre, anch’ella venuta a mancare nel fatale evento.
Chiese pertanto la condanna della società convenuta al risarcimento del danno sofferto iure proprio e jure hereditario in conseguenza del tragico sinistro.
In particolare, Caio agiva per il ristoro del danno non patrimoniale subìto dalla vittima primaria, nel cui credito risarcitorio egli era succeduto jure hereditario.
Tale ultima domanda, rigettata sia in primo grado che in appello, è stata altresì respinta anche dalla Corte di Cassazione.
“La morte d’una persona può costituire un danno non patrimoniale per chi le sopravvive, e non per chi viene a mancare”.
Con questa perentoria affermazione, la Suprema Corte di Cassazione, Sez. VI civile, nell’ordinanza del 1° luglio 2020, n. 13261 [1], ribadisce la non risarcibilità iure hereditario del danno da morte immediata in capo agli eredi della vittima, ai quali spetterebbe unicamente il ristoro del pregiudizio non patrimoniale subito iure proprio.
Nel fare ciò, i giudici di legittimità si allineano all’insegnamento delle Sezioni Unite espresso nella sentenza n. 15350 del 22/07/2015 [2].
Nella stessa si sosteneva – e, lo si ribadisce, si sostiene ancora ad avviso della giurisprudenza largamente dominante - che non è risarcibile nel nostro ordinamento il cosiddetto “danno da perdita della vita”: non sarebbe, infatti, plausibile che un diritto sorga nello stesso momento in cui viene a mancare il suo ipotetico titolare.
In una prospettiva civilistica, dunque, la morte di un individuo può determinare un danno non patrimoniale solo per i suoi stretti congiunti e non per la vittima primaria.
La pronuncia in esame ritiene che la diversa opzione interpretativa, sostenuta nella sentenza della Cassazione n. 1361/2014 [3], non possa più essere condivisa dopo il citato arresto delle Sezioni Unite, intervenute, appunto, a comporre il contrasto.
Ma è davvero in modo assoluto così? Non c’è alcuno spazio interpretativo per sostenere l’astratta risarcibilità del danno tanatologico iure hereditario?
Per provare a rispondere a siffatto interrogativo, è necessario ripercorrere brevemente gli argomenti posti a fondamento della soluzione negativa sposata dalle Sezioni Unite nel 2015 e, per richiamo, ritenuti condivisibili dalla Sesta Sezione civile nell’ordinanza n. 13261/2020, qui in commento.
Il primo punto fermo su cui la Corte basa il proprio ragionamento, sostanzialmente confermando un’impostazione risalente sin da Cass. Sez. Un. n. 3475/1925, consiste nella titolarità del bene giuridico in questione. O, meglio sarebbe dire, nella mancanza di un titolare del bene “vita” nella nostra ipotesi. Poiché, infatti, nella fattispecie del danno da morte immediata il bene giuridico ad essere leso non è la “salute” ma il distinto bene “vita” ed essendo quest’ultimo necessariamente appartenente in natura alla vittima dell’illecito, venuta meno la stessa al momento del fatto lesivo, nessun altro legittimo titolare del diritto al risarcimento del danno tanatologico potrebbe esistere.
Il secondo argomento utilizzato dalle Sezioni Unite del 2015 concerne la coscienza sociale ed il ruolo che la stessa può legittimamente avere nel nostro ordinamento giuridico.
Sebbene la stessa mal tolleri la non risarcibilità del danno da morte immediata, essa potrebbe tutt’al più orientare le scelte del legislatore in un senso o nell’altro ma non certo l’opera esegetica dell’operatore del diritto.
Altra argomentazione della Suprema Corte ha ad oggetto la critica alla considerazione tipica dell’orientamento favorevole alla risarcibilità del danno tanatologico, che si sostanzia nella massima “è più conveniente uccidere che ferire”. Da un punto di vista economico, infatti, negando il risarcimento del danno tanatologico, l’autore dell’illecito non dovrebbe ristorare di tale perdita gli eredi della vittima, diversamente dall’ipotesi di mera ferita. Tuttavia, ad avviso delle Sezioni Unite, si tratterebbe di argomento dotato sì di grande efficacia retorica ma in fondo solo suggestivo, non essendo dimostrabile che la liquidazione dei danni ai congiunti sia necessariamente inferiore pur escludendo la trasmissibilità del credito risarcitorio del danno da morte immediata.
Criticabile infine, sempre nella prospettiva della Corte, sarebbe l’assunto sostenuto nella succitata sentenza Scarano n. 1361/2014, secondo il quale nell’ipotesi del danno tanatologico ad essere risarcibile sarebbe eccezionalmente il danno evento lesivo e non il tradizionale danno conseguenza.
Secondo le Sezioni Unite costituirebbe, quest’ultima, un’eccezione così vasta da porre del tutto in non cale il principio generale stesso.
Così sinteticamente esposti i punti salienti della posizione assunta dalle Sezioni Unite del 2015, possiamo ora chiederci se tale orientamento sia completamente immune da censure critiche: anticipando quanto subito si dirà, ad avviso di chi scrive e della migliore dottrina [4], la risposta al quesito è negativa.
Il primo e fondamentale argomento su cui insiste il ragionamento della Suprema Corte è costituito, come sopra evidenziato, dalla mancanza di un titolare del bene “vita”, una volta venuta a mancare la vittima dell’illecito: il credito risarcitorio eventualmente conseguente al danno tanatologico sarebbe, dunque, adespota. è un’affermazione che non convince. E non convince per le seguenti ragioni.
Innanzitutto, le Sezioni Unite, concordemente con la prevalente giurisprudenza e dottrina, ben sottolineano come “vita” e “salute” siano due beni giuridici distinti e che tali devono rimanere: però, poi, in sostanza, li declinano nello stesso identico modo.
Se, infatti, “la morte…non rappresenta la massima offesa possibile del diverso bene "salute"”, perché si pretende poi che il soggetto leso resti in vita per un apprezzabile lasso di tempo e, non potendo per definizione ciò accadere nei casi di morte immediata, gli si nega il risarcimento del danno tanatologico?
Dove finisce la inziale ontologica diversità tra “vita” e “salute” se poi, in ultima analisi, si nega il ristoro del primo fondamentale bene perché si pretende una permanenza in vita che è - e non può non essere - propria solo del secondo bene?
Si tratta di una contraddizione in termini logici prima che giuridici, che determina un cortocircuito non superabile: il giudice di legittimità afferma, correttamente si ritiene, che “vita” e “salute” sono beni giuridici diversi ma poi tratta il primo in una dimensione biologica che, all’evidenza, può appartenere solo alla “salute”.
La chiave di volta del sistema potrebbe, dunque, essere individuata proprio traendo dalla iniziale e non contestata diversità tra i due beni giuridici in questione, le logiche conseguenze che da essa derivano.
La “salute” - e i danni che alla stessa possano derivare da un illecito - si muove in una concezione biologica; la “vita” – e l’unico ma fatale danno che alla stessa possa derivare da un illecito –, per definizione, no.
Se si accetta tale diversità di prospettiva, ecco che l’ordinamento offre diverse basi normative che sostengono la tesi che qui si condivide: e cioè che la “vita” è un bene-valore che riceve una protezione in sé, a prescindere da intervalli di tempo più o meno significativi di permanenza della stessa.
Si pensi, ad esempio, all’articolo 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, oppure, per tornare al nostro ordinamento nazionale, all’articolo 2 della Costituzione nonché agli articoli 575 e 589 del codice penale.
Sempre in relazione al bene “vita”, un altro passaggio del ragionamento delle Sezioni Unite che non convince appieno è quello in cui si sostiene che lo stesso sarebbe “fruibile solo in natura da parte del titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente”.
Si può e si deve ovviamente concordare sul fatto che la “vita” sia un bene godibile solo in natura dal suo titolare; ciò che non sembra convincente è la successiva esclusione di un suo possibile reintegro per equivalente. Ci si intenda: necessariamente si fa riferimento ad un ristoro che attribuisca un’utilità solo succedanea al bene primario leso, marcatamente succedanea ove, come in tal caso, quel bene primario sia rappresentato dalla vita. Ma non esistono forse altri casi, nel nostro ordinamento, in cui un bene di fondamentale valore venga, qualora leso, reintegrato solo per equivalente?
La risposta al quesito è positiva e, ancora una volta, ha strette connessioni con il sistema penalistico, come spesso accade quando sono in gioco valori fondanti della persona umana.
Si allude all’istituto della riparazione per ingiusta detenzione che, nel caso di morte dell’avente diritto, consente specificamente proprio ai congiunti, ex art. 644 c.p.p., di subentrare nel diritto all’indennità economica dovuta a quest’ultimo. È pur vero che in tal caso i prossimi congiunti del “de cuius” ingiustamente detenuto sono legittimati in proprio e non in via successoria a presentare la relativa istanza, ma essi agiscono comunque per far valere in giudizio un danno subito dal defunto: danno che impinge un bene altrettanto fondamentale come la “libertà”, “fruibile solo in natura da parte del titolare”, proprio come la “vita”, eppure in tal caso monetizzato per equivalente a vantaggio dei parenti sopravvissuti.
In aggiunta a tali già significative considerazioni, possiamo ora considerare il sistema della responsabilità civile nel suo complesso e verificare se la sua attuale declinazione ben si sposa con l’orientamento interpretativo delle Sezioni Unite del 2015.
Senza poter qui ripercorrere l’intera e appassionante evoluzione di tale sistema, possiamo certamente affermare che oggi è il danno ad occupare una posizione centrale nello stesso, a discapito della figura dell’autore dell’illecito con i suoi risvolti punitivi e soggettivistici.
Del resto, di tale inquadramento sistematico ne è ovviamente ben consapevole la stessa Suprema Corte laddove afferma: ”L’attuale impostazione, sia dottrinaria che giurisprudenziale, (che nelle sue manifestazioni più avanzate concepisce l’area della responsabilità civile come sistema di responsabilità sempre più spesso oggettiva, diretto a realizzare una tecnica di allocazione dei danni secondo i principi della teoria dell’analisi economica del diritto) evidenzia come risulti primaria l’esigenza (oltre che consolatoria) di riparazione (e redistribuzione tra i consociati, in attuazione del principio di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost.) dei pregiudizi delle vittime di atti illeciti, con la conseguenza che il momento centrale del sistema è rappresentato dal danno, inteso come “perdita cagionata da una lesione di una situazione giuridica soggettiva (Corte cost. n. 372 del 1994)”.
Ebbene, se questo è il quadro generale del sistema di responsabilità civile, un’impostazione come quella accolta dalle Sezioni Unite sul danno tanatologico rischia di perdere di vista l’elemento centrale del danno e del suo conseguente risarcimento. Si vuole, cioè, evidenziare che un’indagine principalmente concentrata sul titolare della posizione lesa, al fine di affermarne la sua mancanza, fa trascurare alla Corte quella che è unanimemente ritenuta la principale funzione odierna del sistema aquiliano: risarcire il danno causato dall’autore dell’illecito.
Certamente questo non significa che il destinatario di tale risarcimento non debba essere individuato, tutt’altro, ma si tratta di questione necessariamente successiva e secondaria rispetto all’obbligo di risarcimento del danno gravante sull’autore del fatto illecito. Questione che va affrontata secondo gli ordinari canoni giuridici e non, come sopra già argomentato, negandone la sussistenza secondo una prospettiva meramente biologica e naturalistica.
Per meglio esplicitare quanto qui si sta sostenendo, si pensi all’ipotesi in cui, oltre alla “vita” della vittima di un incidente stradale, vengano completamente meno anche dei beni materiali appartenenti alla stessa, ad esempio la sua automobile. In tal caso non si dubita che la lesione del bene di proprietà del de cuius debba essere risarcita dal colpevole del sinistro: e, di questo credito risarcitorio, beneficeranno necessariamente gli eredi del defunto.
In una ipotesi siffatta, si verificano, dunque, due lesioni nello stesso istante: una, che attinge il bene “vita”, e l’altra, che concerne la situazione proprietaria (l’automobile della vittima nel nostro esempio). Le conseguenti eventuali spettanze risarcitorie che ne derivano nascono, sin dal primo momento, prive del loro legittimo titolare: eppure, solo nell’ipotesi della lesione della situazione proprietaria si ritengono pacificamente applicabili le comuni norme successorie. Una ordinaria successione nel credito risarcitorio che si applica o meno, dunque, a seconda del bene giuridico offeso dallo stesso identico atto illecito: tale marcata differenza di disciplina, a cui conduce l’orientamento nomofilattico delle Sezioni Unite, non pare logicamente accettabile.
In aggiunta a tutte le obiezioni sin qui esposte va ricordato che, al nostro ordinamento, non è certo sconosciuto un fenomeno successorio che faccia acquisire agli eredi un’indennità economica della quale il de cuius non abbia mai beneficiato in vita né potuto soffrirne la relativa perdita. Si allude alla disciplina dettata dall’articolo 2122 comma 3 del codice civile, in base alla quale le somme spettanti al lavoratore ex artt. 2118 e 2120 c.c. in ipotesi di estinzione senza preavviso del rapporto lavorativo, vengono attribuite agli eredi legittimi in mancanza di prossimi congiunti che le acquisirebbero, invece, iure proprio.
Altra argomentazione, forse affrontata in modo troppo sbrigativo dall’orientamento giurisprudenziale dominante sul danno tanatologico, è quella attinente alla coscienza sociale e al suo ruolo nell’ordinamento giuridico.
Senza dubbio si può concordare con le Sezioni Unite sulla circostanza che il comune sentire non può certo rappresentare un parametro di riferimento per l’interprete giuridico. Tuttavia, spesso, quando un certo indirizzo interpretativo è così mal tollerato dalla coscienza sociale, ciò accade perché esso viene avvertito come illogico, ingiusto: e una spia di illogicità deve indurre, almeno, ad una maggiore riflessione giurisprudenziale. Lo impone, sul versante costituzionale, a tacer d’altro, l’articolo 111 con il suo obbligo motivazionale relativo ad ogni provvedimento giurisdizionale.
Se proviamo, dunque, in tal caso ad interrogarci con maggiore attenzione su cosa ripugna alla coscienza sociale, possiamo ritenere che sia questa mancanza di tutela sostanziale avvertita dal comune cittadino a turbare la società civile. Una sorta di “truffa delle etichette” potremmo dire, per usare un’espressione cara alla giurisprudenza europea.
Ciò perché, da un lato, si proclama una tutela del fondamentale diritto alla vita su tutti i livelli e, dall’altro, se ne nega il risarcimento nella sua più eclatante compromissione: l’uccisione. Si staglia, insomma, sullo sfondo una difesa solo formalistica del bene “vita”, che si concretizza come vuota, quanto meno non piena, nella sostanza: questa è la reale sensazione che turba la coscienza sociale.
Proseguendo nella disamina critica degli argomenti posti dai giudici di legittimità a sostegno della non risarcibilità del danno tanatologico, non pare cogliere nel segno nemmeno quello che reputa inconferente la massima “è più conveniente uccidere che ferire”.
Non si vuole certo qui sminuire la fondamentale importanza del singolo caso concreto e della sua relativa quantificazione del danno, anzi, tutt’altro è il pensiero di fondo che sorregge queste brevi riflessioni critiche. Ma si vuole altrettanto chiaramente affermare che se non è possibile dimostrare in modo assoluto che uccidere sia economicamente più conveniente che ferire, è senza dubbio ancor più arduo sostenere che l’elisione da una sommatoria di danni di quello tanatologico, sia una circostanza quantitativamente irrilevante. In tal caso, infatti, si tratta del danno che offende il bene giuridico di maggior valore esistente in natura, non solo da un punto di vista quantitativo ma anche qualitativo: la “vita”.
Le Sezioni Unite del 2015 contestano, infine, l’orientamento sostenuto nella succitata sentenza Scarano del 2014 che aveva sposato la tesi positiva sul danno tanatologico, fondandola su un’eccezionale risarcibilità del danno evento in tali ipotesi.
Sul punto si condivide l’assunto della Corte di legittimità: la risarcibilità di un danno evento si pone in insanabile contrasto con la lettera dell’articolo 1223 del codice civile oltre che, e prima ancora, con l’intero sistema della responsabilità civile.
Tuttavia, il problema di fondo può essere risolto alla radice evidenziando come, nel pur lodevole sforzo interpretativo, la sentenza Scarano è giunta a sostenere un’eccezione nient’affatto necessaria per affermare la risarcibilità del danno tanatologico: quest’ultimo è, e deve essere per la sua compatibilità col sistema aquiliano, un danno conseguenza.
Conseguenza che, certo – e qui risiede l’equivoco della pronuncia Scarano – è di tale enorme portata da poter essere confusa con un danno evento in sé. Si vuole, cioè, sottolineare che nell’ipotesi del danno tanatologico la lesione del bene “vita” (danno evento) coincide con l’estrema conseguenza del venir meno della vita stessa (danno conseguenza).
Risarcendo il danno da morte immediata, dunque, si ristora un danno conseguenza – facendo così salva la coerenza del sistema – che, proprio per le peculiarità di tale danno, coincide con l’evento lesivo in sé: ma sempre di danno conseguenza si tratta.
In conclusione e provando a tirare le fila del discorso sin qui affrontato, possiamo affermare quanto segue.
La prevalente tesi giurisprudenziale che nega la risarcibilità del danno tanatologico presenta, come si è cercato di dimostrare in queste brevi osservazioni, delle innegabili criticità.
È pur vero che il tradizionale orientamento risulta in linea con gli indirizzi giurisprudenziali degli altri ordinamenti europeistici, ad eccezione di quello portoghese: ma questo non può - e non deve - essere un motivo per esimersi da una puntuale verifica della sua compatibilità con l’attuale cornice ordinamentale.
Ecco, è forse questo il fondamentale appunto che può essere mosso all’analizzata ordinanza n. 13261/2020 della Corte di Cassazione.
Tuttavia, si tratta, purtroppo, di una fattispecie ampiamente ricorrente dinanzi alle nostre Corti: non mancheranno certo, in futuro, occasioni per rivisitare criticamente il tema della risarcibilità del danno tanatologico.
[1] Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 1° luglio 2020, n. 13261.
[2] Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 15350 del 22/07/2015.
[3] Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza n. 1361 del 23/01/2014, rel. Scarano.
[4] Tra gli altri, Viola, Il danno tanatologico, in Cendon (diretto da), Trattato breve dei nuovi danni, vol. I.
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