Blog Layout

Abuso di ufficio e abuso del processo: le due facce del garantismo all’italiana

a cura di Roberto Lombardi • 19 febbraio 2023

Ci risiamo. Il delitto di abuso di ufficio “deve morire”: i Sindaci sono spaventati e il sistema della giustizia penale è troppo pm-centrico [1].

Perché salvare ancora questo reato? E’ solo un’ipocrisia della politica? Forse no. La Ministra Buongiorno ha suggerito che in realtà l’abrogazione totale dell’abuso di ufficio comporterebbe il rischio della contestazione diretta di un reato più grave, come la corruzione o la turbata libertà degli incanti. Dalla padella alla brace, si direbbe. Con buona pace della sussistenza o meno, in concreto, di una fattispecie di reato perseguibile, di una condotta riprovevole e illegale da parte di chi dovrebbe “adempiere le funzioni pubbliche con disciplina e onore” (art. 54 della Costituzione).

D’altra parte, il reato previsto dall'art. 323 del codice penale ha avuto una vita molto travagliata, anche perché posto al confine tra l'illecito penale, l'illecito amministrativo, l'illecito civile e l'illecito disciplinare.

Si tratta di una fattispecie incriminatrice che ha sempre "agitato" la politica, e gli amministratori pubblici in generale, per la sua capacità, in un sistema in cui la giustizia penale ha spesso operato un ruolo di supplenza rispetto ai controlli di natura amministrativa sull'esercizio dei pubblici poteri, di andare a colpire in modo generico e indeterminato condotte di "contorno" rispetto alla commissione di altri reati maggiori contro la pubblica amministrazione (in particolare, il reato di corruzione), per i quali non era stata raggiunta nel corso delle indagini preliminari una prova idonea a sostenere l'accusa in giudizio.

E’ una fattispecie di reato che dal 1990 in poi è stata modificata ben quattro volte, e che nella sua essenza costituirebbe un precetto di chiusura volto a punire il cattivo uso dell'autorità, qualora tale cattivo uso non sia sfociato di per sé in un altro reato.

Prima della riforma del 1997, la condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio consisteva in un mero abuso "del suo ufficio" (che nella formulazione precedente era tradotta come abuso "dei poteri inerenti alle sue funzioni", in quanto riferito al solo pubblico ufficiale), con il dolo specifico di volere procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio non patrimoniale o di volere arrecare ad altri un danno ingiusto.

Dopo la riforma del 1997, il reato in esame è stato trasformato da reato di mera condotta a reato di evento e di danno.

Quella che era la finalità precipua di volere avvantaggiare o danneggiare è divenuta così un vero e proprio oggetto materiale della condotta, vale a dire l’ "ingiusto vantaggio patrimoniale" o il “danno (patrimoniale o non patrimoniale) ingiusto”, da conseguire “intenzionalmente” (e il cui conseguimento doveva dunque essere anche accertato in giudizio).

La condotta di abuso è stata poi maggiormente tipizzata nella "violazione di norme di legge o di regolamento" - così da escludere dall'area dei vizi penalmente rilevanti il vizio di eccesso di potere -, oltre che nell' "omissione di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti".

Il Legislatore ha in pratica preteso, tramite una modifica tecnica che in realtà era volta a depotenziare la fattispecie - con il pretesto di maggiormente tipizzarla -, l'accertamento della cosiddetta doppia ingiustizia, consistente, da un lato, nell'ingiustizia della condotta, in quanto connotata da violazione di legge (o di regolamento), e, dall'altro, nell'ingiustizia dell’evento di vantaggio o di danno, in quanto non spettante in base al diritto oggettivo regolante la materia.

Tuttavia, ci ha pensato l’interpretazione giurisprudenziale ad attenuare in qualche modo l'incidenza di tale modificazione sulla punibilità in concreto del reato – conscia che in alternativa sarebbe stato un reato quasi impossibile da realizzare, prima ancora che da dimostrare -, chiarendo che l'intenzionalità del dolo non era esclusa in automatico dalla compresenza di una finalità pubblicistica nella condotta del pubblico ufficiale, e riconducendo tra le violazioni di legge anche la violazione dei principi di buon andamento e imparzialità, quali valori fondanti dell'azione della pubblica amministrazione ai sensi dell'art. 97 della Costituzione, che dunque andava a costituire, sotto questo profilo, l'oggetto della massima violazione di legge perpetrabile.

L’affermazione che il requisito della violazione di legge poteva essere integrato anche dall'inosservanza del principio costituzionale di imparzialità della p.a., nella parte in cui, esprimendo il divieto di ingiustificate preferenze o di favoritismi, impone al pubblico ufficiale e all'incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione, faceva così rientrare dalla “finestra” il vizio di eccesso di potere e rendeva contestabile l’abuso classico del funzionario, quello di “potere”.

Ecco allora che, dopo una breve parentesi di maggiore severità (con l’adozione della famigerata legge Severino, che, nel dare attuazione alla Convenzione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite contro la corruzione del 2003 e alla Convenzione penale sulla corruzione di Strasburgo del 1999 ratificata nel 2012, ha, tra l’altro, inasprito leggermente la cornice edittale del reato, portando la pena massima da tre a quattro anni), il legislatore del 2020 ha cercato di ridimensionare ulteriormente l'operatività della fattispecie, eliminando, da un lato, la violazione di norme secondarie (regolamenti) dall'ambito della condotta punibile, e limitando, dall'altro, le norme di legge rilevanti, ai fini della violazione sanzionabile, alle sole regole cogenti per l'azione amministrativa, specificamente disegnate in termini completi e puntuali, in modo da eliminare dal vaglio del giudice penale l’esercizio distorto della discrezionalità amministrativa.

In altri termini, almeno nella nuova visione normativa, quanto più il Legislatore ha lasciato uno spazio di “libertà” al pubblico ufficiale, tanto più l’abuso di ufficio non deve essere contestato, anche se per assurdo risultino perseguiti, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, interessi oggettivamente difformi e collidenti con quelli per i quali soltanto il potere discrezionale è attribuito.

In definitiva, l'abuso di ufficio, così come tratteggiato oggi dalla fattispecie incriminatrice, è lontanissimo dal vecchio e tradizionale "abuso di potere" del funzionario pubblico, ma soprattutto è già un reato in via di estinzione, dal punto di vista della concreta perseguibilità fino a una condanna.

Secondo le recenti statistiche ufficiali del Ministero della Giustizia (fonte Il Sole 24 ore) negli ultimi cinque anni i procedimenti penali per abuso di ufficio sono calati quasi del 40%, mentre quelli avviati sono stati definiti dal GIP, per oltre l’85%, con un’archiviazione.

Le condanne, all’opposto, sono state, nel 2021, 18 su 513 processi arrivati al dibattimento.

Ovvio. Si tratta ormai di un reato molto difficile da dimostrare - con soglie di pena basse (da uno a quattro anni) ed impossibilità conseguente di utilizzare strumenti investigativi efficaci (tipo le intercettazioni) -, che generalmente viene contestato soltanto se si trova il delitto sottostante (corruzione, concussione, turbativa d’asta).

Se poi si pensa che con la riforma Cartabia il Pubblico ministero deve presentare al giudice richiesta di archiviazione tutte le volte che gli elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari non consentano di formulare una “ragionevole previsione di condanna”, il gioco è fatto. 

Il reato di abuso di ufficio è nella sostanza morto.

E tuttavia, pur dopo tanti colpi legislativi subiti nel corso della sua (poco) gloriosa vita, resta ancora temibile la sua stessa formale esistenza, perché l’apertura di un’indagine per abuso di ufficio è ancora oggi, di per sé, un elemento di cronaca giornalistica e di lotta politica contro l’avversario di turno.

Il cittadino medio continua infatti a percepire chiaramente il disvalore di condotte che, se pure non porteranno a nulla dal punto di vista dell’accertamento penale, sicuramente possono essere indici di una “mala gestio” della cosa pubblica.

Tutto ciò confluisce, sul piano delle conseguenze pratiche, nella cosiddetta “paura della firma”, che, in tesi, paralizzerebbe in particolare l’attività dei Sindaci, i quali invece devono oggi spendere senza esitazioni i (molti) “soldini” del PNRR.

Ma nessuno ha il coraggio di eliminarlo definitivamente, questo simulacro di reato, anche per paura di quello che ci direbbe l’Unione europea, posto che trattandosi di un “reato-spia” ci sarebbe un oggettivo indebolimento della lotta alla corruzione.

Ed ecco pronta la soluzione di compromesso: eliminare “l’abuso di vantaggio”, che in linea teorica costituisce ancora oggi la fattispecie più aperta, la porta dalla quale possono entrare possibili contestazioni generiche [2].

Come dire: va bene se ti arricchisci illegalmente strumentalizzando la posizione di pubblico ufficiale, basta che non danneggi qualcuno.

Una modifica che a prima vista sembra un vero assurdo logico, considerando che è praticamente impossibile trarre un vantaggio da un’attività di abuso di potere senza danneggiare correlativamente qualcuno, fosse anche soltanto la collettività pubblica rappresentata dai contribuenti onesti.

Ma tant’è. 

Nel frattempo, due recenti notizie di cronaca hanno fatto luce su possibili distorsioni contenute all’interno della riforma Cartabia del processo penale, che sembrano andare nel senso di aiutare i più furbi ad alleggerire indebitamente la propria responsabilità penale, piuttosto che aiutare il sistema a funzionare meglio. 

Tre soggetti arrestati per lesioni aggravate dal metodo mafioso sarebbero stati scarcerati a Palermo, se non fossero stati detenuti per altri motivi.

Motivo? La riforma Cartabia ha cancellato la procedibilità di ufficio di questi reati.

Il Governo è corso subito ai ripari, o almeno ha dato mostra di farlo [3], ma è stato giustamente fatto rilevare che  l’intervento legislativo sul processo penale nel suo complesso, anche in conseguenza della conversione da procedibilità di ufficio a procedibilità a querela di reati gravi come il sequestro di persona (oltre che della maggior parte delle fattispecie di furto aggravato), potrebbe rivelarsi una sorta di “depenalizzazione camuffata”.

Le intimidazioni a non presentare querela ci sono già, specie in territori infiltrati dalla criminalità organizzata, e  autorevoli esponenti della Magistratura (tra gli altri, il Procuratore generale della Repubblica di Napoli, Luigi Riello) non hanno visto come un segnale positivo da parte dello Stato sposare una concezione civilistica del diritto penale.

Dall’altra parte dell’Italia, a nord, c’è l’emblematica storia di Alberto Genovese, imprenditore “famoso” per avere contribuito a creare Facile.it ma ancora di più per essere stato accusato di due casi di violenza sessuale su modelle stordite con mix di droghe in occasione delle feste nel suo attico milanese e a Ibiza.

Condannato per duplice violenza sessuale aggravata a più di otto anni, avrebbe deciso, dopo avere già usufruito dello sconto di pena previsto per il giudizio abbreviato da lui scelto, di non appellare la sentenza di primo grado [4], presumibilmente al fine di conseguire un’ulteriore diminuzione di pena, sfruttando così un vantaggio recentemente offerto dalla riforma Cartabia.

La disciplina del giudizio abbreviato - che è una disciplina teoricamente premiante per entrambe le parti, perché fa confluire nel fascicolo del giudice tutte le indagini del p.m., senza contraddittorio dibattimentale, e garantisce al contempo un significativo sconto di pena (1/3 per i delitti) al condannato - è stata infatti arricchita di un nuovo incentivo.

Se l'imputato condannato rinuncia all'appello, può godere di un ulteriore sconto di un sesto della pena, in sede di esecuzione.

Ed ecco che un condannato per duplice violenza sessuale può cavarsela, alla fine del “girone” giudiziario, con una pena inferiore ai sette anni, posto che poi, tra benefici e "premi" di legge, gli anni di reclusione vera saranno decisamente meno.

D'altra parte, nella prassi giudiziaria del nostro Paese, e in relazione agli effetti circolari del sistema nel suo insieme – ancor di più dopo la riforma Cartabia -, il cosiddetto giudizio abbreviato è un istituto fortemente sbilanciato in favore del reo.

Il dibattimento vero - quello all'americana, per intenderci -, dal momento che in Italia, nella normalità dei casi, segue di molti anni le indagini ed è giustamente caratterizzato dal massimo delle garanzie difensive (la prova si deve formare davanti al giudice e il testimone molto solido all'epoca dei fatti può sempre ritrattare o "dimenticare"), non viene di norma affrontato da chi è colpito da un'accusa grave e con evidenza di prova, come può essere quella acquisita tramite accertamenti diretti di polizia giudiziaria (ad esempio, a seguito di perquisizione o arresto in flagranza di reato).

Oggi, a maggior ragione con l'improcedibilità dell'azione penale dopo due anni dall'appello, o dopo un anno dal ricorso per cassazione (secondo il nuovo art. 344-bis del codice di procedura penale, salve le eccezioni e le possibili proroghe dallo stesso contemplate), l'imputato colpito da prova indiziaria e ben difeso non ha alcun interesse ad affrontare il giudizio abbreviato.

Finisce così che a scegliere questo rito sia soltanto il soggetto raggiunto da prove schiaccianti e/o in custodia cautelare (ovvero protagonista di procedimenti penali che hanno automatica priorità), il quale riesce così a spuntare, pur essendo sicuramente colpevole, e magari per crimini odiosi, come la violenza sessuale, un significativo sconto di pena (1/3 più un sesto, se poi non impugna la condanna di primo grado).

D'altra parte, se l’accusato che sia anche colpevole, per un colpo di fortuna o di cattiva gestione dell'accusa, viene prosciolto, il processo si chiude comunque qui, perché l'art. 443 c.p.p. impedisce al Pubblico ministero di impugnare la sentenza di proscioglimento.

Più in generale, la mannaia calata sui processi dopo l’introduzione dell’istituto dell’improcedibilità – anche detta “prescrizione processuale” - svela molto più di quanto si potrebbe dire sul rapporto, quanto meno di “fastidio”, che ormai esiste tra volontà politica di controllo del sistema giudiziario e gestione concreta dei processi penali da parte della magistratura.

Dopo che per decenni l’organico di giudici e pubblici ministeri è stato tenuto sguarnito, e in assenza di una riforma seria di meccanismi processuali pletorici troppo garantisti o troppo giustizialisti – a seconda dei casi e a seconda degli indagati/imputati -, ecco la soluzione finale.

Eliminare i processi, quando non è possibile eliminare i reati.

Abbiamo una giustizia lenta? Nessun problema. Se la magistratura non fa “correre” i processi, gli stessi si estinguono per consunzione.

Con buona pace del senso di giustizia dei cittadini comuni, quelli che vengono ordinariamente afflitti dalle condotte di reato meno gravi ma a volte più odiose nella percezione individuale.

Si dice che ce lo chiede il PNRR.

Nel settore della giustizia, il Consiglio europeo, nelle sue annuali Raccomandazioni, ha costantemente sollecitato l'Italia a "ridurre la durata dei processi civili in tutti i gradi di giudizio", nonché ad "aumentare l'efficacia della prevenzione e repressione della corruzione riducendo la durata dei processi penali e attuando il nuovo quadro anticorruzione"

A sua volta, la Commissione Europea, nella Relazione per Paese relativa all'Italia 2020 (cd. Country Report 2020) del 26 febbraio 2020, ha evidenziato come l'Italia abbia compiuto progressi solo limitati nel dare attuazione alle sopra citate Raccomandazioni. In particolare, nel settore penale, e con particolare riguardo alla lotta alla corruzione, la Commissione ha sottolineato il persistere di una serie di criticità e suggerisce di intervenire in materia di lobbying, di conflitti di interessi e di whistleblowing; d’altra parte, il perdurare della scarsa efficienza del processo, soprattutto di appello, si ripercuote anche sull'efficacia del contrasto alla corruzione.

Da ultimo, nelle Raccomandazioni specifiche all'Italia del 20 luglio 2020 il Consiglio europeo ha nuovamente invitato il nostro Paese ad adottare provvedimenti volti a "migliorare l'efficienza del sistema giudiziario".

Siamo proprio sicuri di avere raggiunto gli obiettivi che ci sono stati indicati, tramite la creazione di un processo potenzialmente inconcludente, in cui si rinuncia all’accertamento della punibilità, al calare di uno sbarramento temporale?

Il sacrosanto principio della ragionevole durata del processo declinato nell’art. 111 della Costituzione potrebbe in effetti non corrispondere con la necessità che il Legislatore stabilisca dei limiti massimi di durata del processo penale, superati i quali anni di indagini e di processo vanno letteralmente in fumo, con buona pace del principio, anch’esso di rango costituzionale, dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale

Né l'estremismo garantistico può arrivare fino al punto di giustificare l’introduzione di un processo penale à la carte.



[1] Così si è espresso in una recente intervista il viceministro alla Giustizia Sisto (https://www.corriere.it/politica/23_gennaio_15/riforma-cartabia-intervista-sisto-ee62609a-9520-11ed-8a68-b6ce8abd8069.shtml)

[2] Per un efficace sunto dello stato attuale della mini-riforma in cantiere vedi: https://iusletter.com/oggi-sulla-stampa/parte-il-cantiere-di-riforma-dellabuso-dufficio/

[3] Il Governo Meloni è peraltro intervenuto non con un provvedimento di urgenza, come quando si è occupato del contestato decreto anti-rave, ma con un semplice disegno di legge: https://www.governo.it/sites/governo.it/files/CDM_17_modiche_riforma_penale_cartabia.pdf

[4] Notizia riportata, tra gli altri, in https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/01/31/alberto-genovese-rinuncia-allappello-e-grazie-alla-riforma-cartabia-la-pena-scende-a-poco-meno-di-7-anni/6980872/



Share by: