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Caso Regeni. Processo in assenza e giustizia sostanziale

a cura di Roberto Lombardi • 7 ottobre 2023

Il Cairo, gennaio 2016. Una sera come tante un giovane italiano viene trascinato via da quattro individui. Privato per giorni della libertà, il giovane viene seviziato in plurime occasioni, con l’uso di calci, pugni, bastoni e strumenti di tortura affilati.

Fratturato in più punti del corpo, il giovane moriva infine per insufficienza respiratoria acuta causata dalle imponenti lesioni di natura traumatica subite.

Si chiamava Giulio Regeni.

La Procura della Repubblica di Roma si convince, dopo articolate e difficili indagini, che i quattro aggressori fossero quattro alti funzionari della polizia egiziana; ne chiede pertanto il giudizio per sequestro di persona, lesioni aggravate e omicidio doloso.

La brutale vicenda ha un ampio risalto in Italia e nel mondo, reclamando giustizia, ma le autorità egiziane non collaborano, nella sostanza, con quelle giudiziarie italiane.

Ne deriva una situazione di irreperibilità dei quattro funzionari indagati e una richiesta di rinvio a giudizio degli stessi “in contumacia”.

In effetti, nel maggio del 2021, il GUP presso il Tribunale di Roma dichiarava l’assenza degli imputati e ne disponeva il rinvio a giudizio dinanzi alla Corte di Assise, notificando il relativo decreto agli imputati stessi, mediante consegna di copia dell’atto ai difensori di ufficio nominati, sul presupposto che gli accusati si fossero sottratti volontariamente alla conoscenza degli atti del procedimento.

Ad ottobre dello stesso anno, però, la Corte di Assise accertava a sua volta la nullità del decreto che aveva disposto il giudizio per mancata costituzione del contraddittorio, in quanto non sarebbero sussistiti, in concreto, i presupposti per dichiarare l’assenza degli imputati.

In presenza di una insufficiente prova circa la conoscenza degli atti di accusa da parte dei funzionari egiziani considerati colpevoli, e in assenza della evidenza che tali funzionari abbiano avuto un ruolo nelle determinazioni assunte dal loro Stato di prestare una collaborazione sleale o addirittura di negare tale collaborazione alle autorità giudiziarie italiane, sarebbe sussistente e insanabile il pregiudizio per il diritto di difesa degli imputati e per il loro diritto ad un equo processo.

Ma qual è la norma processuale oggetto di discordia?

Secondo il combinato disposto degli artt. 420-bis e 420-quater del codice di procedura penale, per procedere in assenza dell’imputato occorre una situazione di piena conoscenza personale o di comprovato rifiuto della chiamata in giudizio.

In altri termini, il Giudice penale che procede deve avere certezza che l’imputato sia a conoscenza dell’udienza da celebrare, ed è previsto un meccanismo riparatorio nel caso in cui l’imputato provi successivamente che la sua assenza era stata dovuta ad una incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo.

D’altra parte, anche le situazioni pregresse che possono essere considerate indici di conoscenza del processo (dichiarazione od elezione di domicilio, applicazione di misure precautelari o cautelari, nomina di un difensore di fiducia), per essere dimostrative dell’effettiva conoscenza del procedimento, devono avere acquisito un certo grado di effettività.

Il parametro da rispettare è innanzitutto l’art. 6 CEDU, secondo cui un processo può considerarsi equo solo se da parte dell’imputato vi è stata conoscenza effettiva della vocatio in iudicium (ovvero del contenuto dell’accusa e del giorno e luogo della udienza).

La Corte d'Assise aveva d'altra parte riconosciuto anche la sistematica inerzia delle Autorità egiziane rispetto alle richieste italiane e la circostanza oggettiva che gli imputati, in qualità di appartenenti, all'epoca dei fatti, ad apparati di polizia governativi, fossero nelle condizioni di conoscenza privilegiata delle fonti informative e delle interlocuzioni tra gli Stati italiano ed egiziano.

Orbene, dalla istruttoria conseguita al ritorno agli uffici del GUP degli atti, ai fini di un nuovo rinvio a giudizio, è emersa definitivamente la volontà delle Autorità di governo egiziane e della Procura generale de Il Cairo - che è un organo giudiziario dipendente dal potete esecutivo - di non prestare alcuna collaborazione al Ministero della Giustizia e all’Autorità giudiziaria italiana per il processo a carico dei quattro imputati di sequestro di persona e di omicidio nei confronti di Giulio Regeni.

Paradossalmente, il rifiuto di collaborazione è stato argomentato con il principio del bis in idem, in relazione all'archiviazione degli stessi fatti da parte della Procura generale de Il Cairo, che però è il medesimo organo che ha svolto le indagini, procedendo alla suddetta archiviazione senza lo svolgimento di alcun processo.

Si è trattato, in altri termini, di un'auto-archiviazione.

In punto di diritto, l'attuale normativa del processo in assenza, contenuta nella cosiddetta "riforma Cartabia", è stata introdotta per adeguare quella precedente alla giurisprudenza della CEDU e della Corte di cassazione, che avevano escluso ogni possibilità di procedere in assenza in base alla presunzione di conoscenza del procedimento.

In tal senso, il nuovo art. 420-bis c.p.p. fa riferimento alla conoscenza effettiva, e non presunta, del procedimento stesso, di modo che va escluso che la volontà di sottrarvisi possa essere desunta dall'ampia risonanza mediatica del fatto, dalle prese di posizione pubbliche nello Stato degli imputati o dalla circostanza che gli interessati abbiano preso parte attivamente alle indagini condotte sul reato a loro stessi contestato.

Si tratta infatti di elementi estranei alla specifica volontà di sottrarsi al procedimento penale aperto nei loro confronti.

Tuttavia, una volta trovatosi si fronte al vicolo cieco previsto dal nuovo art. 420 quater c.p.p. - così come reso applicabile alla vicenda giudiziaria de qua dall'art. 89 comma 2 del d.lgs. n. 150 del 2022 -, secondo cui, se non è possibile accertare la volontaria sottrazione al processo degli imputati. occorre dichiarare il non doversi procedere per mancata conoscenza del processo, il GUP si è interrogato sulla legittimità costituzionale della nuova disciplina.

La conclusione del Giudice investito della questione è stata nel senso che l'attuale impossibilità di celebrare un processo in cui sono contestati fatti di tortura e di omicidio doloso (anche se all'epoca il reato di tortura vero e proprio ancora non esisteva nell'ordinamento interno), in un caso come quello di Regeni, violi diverse norme costituzionali.

Innanzitutto, l'art. 24 della Costituzione, con riferimento alla compressione intollerabile del diritto di difesa delle persone offese e dei soggetti danneggiati dal reato.

In secondo luogo, vengono in gioco gli artt. 2 e 3 della Costituzione, in relazione alla creazione artificiosa di una immunità non riconosciuta da alcuna norma dell'ordinamento internazionale.

Infine, gli artt. 112 e 117 della Costituzione; il primo, con riguardo all'impossibilità di fatto per il pubblico ministero di esercitare l'azione penale (obbligatoria) nei confronti di cittadini stranieri considerati perseguibili ai sensi della legge processuale; il secondo, in virtù del mancato rispetto del vincolo derivante dalla ratifica della Convenzione internazionale contro la tortura.

Investita a sua volta della questione di costituzionalità, la Corte costituzionale ha quindi dichiarato l'illegittimità della norma censurata, ovvero dell’art. 420-bis, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’art. 1, comma 1, della Convenzione di New York contro la tortura, quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato, è impossibile avere la prova che quest’ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo, fatto salvo il diritto dell’imputato stesso a un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa [1].

Sono subito fioccati i commenti giuridici e meta-giuridici.

Accanto al comprensibile plauso della famiglia Regeni e di chi vuole che giustizia sia fatta nei confronti di chi si è reso responsabile di un crimine così odioso, un giurista apprezzato come il prof. Gatta [2] ha pubblicamente parlato di sentenza "ad regenim", mentre gli avvocati penalisti dell'UCPI hanno di fatto criticato la scelta della Corte, etichettandola espressamente come fonte di limitazione di una precisa garanzia che l'ordinamento pone a presidio del giusto processo, la quale non potrebbe essere controbilanciata con le prerogative della persona offesa.

Si teme, in altri termini, un effetto di "abbassamento" delle garanzie dell'imputato, con l'estensione dell'eccezione individuata dalla Corte costituzionale ad altri casi di mancata partecipazione al processo.

Orbene, è chiaro che la risposta della Corte costituzionale è una risposta eccezionale ad una situazione eccezionale, dove la cooperazione leale tra Stati si è fermata per volontà unilaterale di uno di essi.

Né ha molto senso rifarsi alla necessità di riservare alla politica e alle relazioni internazionali la risoluzione dei problemi di cooperazione tra Stati, quando la logica è quella di far prevalere il principio della forza, nei casi di convenienza dell'apparato governativo di turno. 

E tuttavia, è l'interpretazione in sé della norma in questione - quella secondo cui l'imputato che si nasconde deve partecipare "a tutti i costi" al processo, quanto meno tramite conoscenza effettiva di accusa, luogo e data di udienza - a lasciare perplessi.

In uno Stato di diritto persona offesa e reo dovrebbero essere sullo stesso piano, dal punto di vista del giusto processo. La peculiarità della posizione della vittima, quando è anche fisicamente "palpabile", è che diventa lo stesso Stato il suo rappresentante di fatto, mentre un ulteriore difensore ne tutela la posizione sotto il profilo risarcitorio, adiuvando con le sue (limitate) prerogative l'attività del pubblico ministero.

Se questo è il presupposto di fondo, evitare il processo all'imputato - perché è di questo che si tratta -, soltanto poiché lo stesso si sottrae, più o meno consapevolmente, ad ogni forma di notificazione e di reperibilità, può costituire in alcuni casi una mortificazione e un vulnus insanabile al sistema stesso del giusto processo.

Il processo, prima ancora di essere giusto, deve esserci.

Altrimenti viene meno ogni forma di credibilità del sistema giudiziario.

Si parla di onere di diligenza in capo a chi è sospettato di avere commesso reati e più in generale di onere di diligenza tout court. Fin dove arriva e fino a che punto è esigibile quest'onere? Quanto rispetto deve avere il presunto criminale nei confronti di chi è già stato vittima una volta, prima del processo? 

Ricominciamo dall'inizio, e dimentichiamoci per un attimo che l'omicidio Regeni è stato commesso a Il Cairo. Dimentichiamoci proprio che la vittima si chiamava Regeni. 

Quattro individui rapiscono, imprigionano e riempiono di botte e legnate un altro individuo fino ad ucciderlo. Una morte lenta e terribile.

Le indagini portano all'identificazione dei quattro aggressori, il pubblico ministero formula un capo di accusa e un giudice dice che ci deve essere un processo per provare la responsabilità degli accusati.

Ma costoro nel frattempo spariscono dai radar o comunque non sono più rintracciabili sul pianeta Terra, non importa per colpa di chi. Siamo proprio sicuri che tanto basta ad impedire alla giustizia di fare il suo corso? È un giusto processo o la negazione stessa della giustizia sostanziale?

Quando la forma prevale in modo assoluto sul merito delle vicende umane, senza se e senza ma, forse occorre chiedersi se la giustizia è ancora amministrata in nome del popolo. [3]



[1] https://www.cortecostituzionale.it/documenti/comunicatistampa/CC_CS_20230927165042.pdf

[2] Consigliere per le libere professioni della ministra Marta Cartabia con incarico conferito con d.m. 22 febbraio 2021 

[3] La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge (art. 101 della Costituzione)



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