Il caso e il giudizio precedente
I comproprietari di una struttura alberghiera sita in Sondalo hanno chiesto, nel lontano 2002, il rilascio di una concessione edilizia in deroga agli strumenti urbanistici all’epoca vigenti, per la ristrutturazione e l’ampliamento di tale immobile, sostenendo che l’intervento non necessitasse di piano attuativo.
Il diniego del Consiglio comunale veniva impugnato avanti al Tar Lombardia, che con sentenza n. 540 del 2008 respingeva il ricorso.
In sede di appello a tale sentenza, peraltro, il Consiglio di Stato, con sentenza n. 2310 pubblicata il 7 aprile del 2020, annullava la delibera consiliare.
In particolare, il Giudice di secondo grado reputava che nel caso di specie si fosse in presenza di notevoli contraddizioni del provvedimento amministrativo impugnato, che ne avrebbero minato la logicità intrinseca ed estrinseca.
In fatto, secondo il Consiglio di Stato, era stato accertato che la zona su cui dovrebbe insistere l’opera fosse completamente urbanizzata, e da ciò ne conseguiva che non occorreva necessariamente un piano attuativo di zona per derogare agli strumenti urbanistici.
Secondo il Comune e il TAR Lombardia, invece, l’area sarebbe stata parzialmente urbanizzata.
A seguito di consulenza tecnica di ufficio disposta in primo grado, peraltro, tale assunto era stato "approfonditamente smentito", in quanto il sopralluogo al riguardo effettuato aveva evidenziato una zona densamente edificata ed urbanizzata, con la presenza di tutte le opere di urbanizzazione primaria (rete idrica, rete fognaria e di illuminazione pubblica) nonché di tutti i servizi necessari alla collettività.
Avendo l’intervento di interesse delle parti private ad oggetto l’ampliamento di una struttura alberghiera già esistente e operativa, nonché già servita da tutte le urbanizzazioni, e non l’edificazione di un nuovo manufatto, la deroga richiesta non comportava la necessità di dar corso alla preventiva approvazione di un piano attuativo, posto che la giurisprudenza amministrativa ha individuato situazioni, tra le quali era inquadrabile anche quella esaminata, in presenza delle quali il permesso di costruire può essere legittimamente rilasciato anche in assenza del piano attuativo richiesto dallo strumento urbanistico sovra ordinato, specie qualora nel comprensorio interessato sussista una situazione di fatto corrispondente a quella derivante dall’attuazione del piano esecutivo richiesto dallo strumento urbanistico generale, ovvero siano presenti opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standards urbanistici minimi prescritti, sì da rendere superflui gli strumenti attuativi stessi.
Il Consiglio di Stato ha dunque ritenuto la proposta progettuale congrua rispetto agli standard e migliorativa del tessuto urbano, e, a fronte di tale proposta, il diniego dell’amministrazione, alla luce del quadro normativo e giurisprudenziale nonché delle risultanze fattuali, contraddittorio e basato su presupposti non aderenti al reale stato dei luoghi.
Gli aventi causa degli originari comproprietari, forti di tale pronuncia resa in appello, hanno adesso proposto ricorso al giudice di primo grado chiedendo il risarcimento dei danni subiti per effetto della delibera consiliare annullata, sia in relazione al danno emergente, pari ai maggiori costi sostenuti per realizzare il progetto del 2003, che in relazione al lucro cessante, pari alle somme non incassate per il mancato ampliamento dell’albergo e per la mancata realizzazione e utilizzazione delle strutture ricreative annesse (ristorante, pub e discoteca).
La decisione. IL RISARCIMENTO DEL DANNO E LA "SPETTANZA" DEL BENE DELLA VITA
La sentenza in esame affronta il tipico caso di risarcimento per diniego illegittimo di rilascio di un titolo edilizio.
Nel caso in esame si trattava di una concessione edilizia in deroga, atto di competenza del Consiglio comunale.
Mentre la domanda di concessione in deroga è stata presentata nel 2002, la domanda risarcitoria è stata proposta nel 2021, a seguito della conclusione favorevole, per i privati, di un lungo iter giudiziario.
Nella ricostruzione degli elementi dell’illecito extracontrattuale, il Tar si è soffermato sull’elemento oggettivo, che secondo i ricorrenti sussisterebbe, in quanto l’approvazione del progetto di edificazione in deroga da parte del Consiglio Comunale sarebbe stato atto dovuto e quindi l’annullamento della deliberazione avrebbe implicato il rilascio del titolo ad edificare, senza alcun residuo potere in capo all’amministrazione.
Erano state allegate, dalla difesa dei ricorrenti, ulteriori circostanze a riprova del carattere vincolato del rilascio del titolo in deroga, quali l’approvazione pregressa del progetto di ampliamento dell’albergo e quindi il riconoscimento della valenza positiva per l’economia locale della struttura, l’inserimento dei proprietari in una graduatoria dei beneficiari delle agevolazioni per gli operatori del settore turistico, la trasmissione al Consiglio comunale del progetto da parte dell’Ufficio tecnico e il parere positivo dei Vigili del Fuoco di Sondrio.
Il Tar ha però escluso che tutti gli elementi rappresentati avessero la capacità di rendere “vincolata” l’attività conseguente alla sentenza del Consiglio di Stato, che conteneva soltanto una statuizione di annullamento della deliberazione consiliare impugnata, senza alcuna ulteriore pronuncia di accertamento o di condanna dell’amministrazione al rilascio del titolo o all’eventuale risarcimento del danno, anche in forma specifica.
La conseguenza diretta ed immediata della sentenza di appello, secondo l’interpretazione che ne dà il TAR competente, è nel senso che l’attività edilizia richiesta non necessiti del piano attuativo, senza peraltro che vi sia alcun’altra statuizione in ordine agli altri presupposti per l’edificazione, per cui non sarebbe possibile sostenere, secondo il Giudice adito in sede risarcitoria, che l’attività di esecuzione della sentenza d’appello si risolva nel rilascio tout court della concessione edilizia (ora permesso di costruire) in deroga, senza alcuna attività istruttoria da parte del Comune.
E’ stato quindi escluso l’elemento oggettivo del danno, in quanto non si possono ipotizzare un “danno emergente” in termini di maggiori costi di edificazione ed un “lucro cessante” quale mancato guadagno negli anni trascorsi, nel momento in cui dall’annullamento della deliberazione impugnata non deriva quale conseguenza vincolata il rilascio del titolo in deroga, e in concreto il titolo stesso non viene rilasciato.
Sul punto, la sentenza si inserisce nel filone prevalente secondo cui l’annullamento giurisdizionale di un provvedimento amministrativo non fa sorgere automaticamente il diritto al risarcimento del danno, se il richiedente non prova la “spettanza” del c.d. bene della vita, vale a dire dell’utilità finale cui lo stesso aspira.
D’altra parte, il Giudice adito, a riprova di tale circostanza – ovvero la non spettanza del bene della vita – ha dato atto in sentenza che il responsabile del Servizio competente, al termine del procedimento riavviato nei confronti degli esponenti, ha negato il rilascio del permesso di costruire in deroga.
Tale provvedimento, pur essendo stato oggetto di impugnazione in altro giudizio, è allo stato efficace e preclusivo, per gli interessati, non solo dello svolgimento di qualsiasi attività edilizia finalizzata all’ampliamento dell’albergo e alla realizzazione delle altre strutture turistiche, ma anche dell’ottenimento di un risarcimento del danno in conseguenza dell'originaria attività procedimentale, che è stata peraltro senz’altro illegittima.
Il TAR Lombardia richiama al riguardo anche il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui l’annullamento di un provvedimento amministrativo per vizi per così dire procedimentali, quali il difetto di istruttoria o di motivazione, non contenendo alcun accertamento in ordine alla spettanza del bene della vita coinvolto dal provvedimento impugnato, non consente di accogliere la domanda finalizzata al perseguimento della pretesa sostanziale, quale è il risarcimento del danno.
Si tratta di una peculiarità connessa alla natura della posizione soggettiva di cui si chiede tutela, ovvero l’interesse legittimo pretensivo, la cui lesione, per essere risarcibile, deve accompagnarsi ad un giudizio prognostico - con accertamento in termini di certezza o, quanto meno, di probabilità vicina alla certezza - che il provvedimento sarebbe stato rilasciato, se non fosse intervenuto l’agere illegittimo della pubblica amministrazione.
Va anche detto, per completezza, che il vizio di illogicità e contraddittorietà di tale agere, come desumibile da una motivazione errata, tende a traslare l’illegittimità rilevata da un piano formale ad un piano sostanziale, quando, come nel caso di specie, la pronuncia di annullamento dell’atto impugnato (lesivo dell’interesse pretensivo dedotto in giudizio) si spinge ad eliminare in radice il vincolo opposto dall’amministrazione, ritenendolo inesigibile.
In altri termini, la rilevata non necessità di un piano attuativo per l’ottenimento della concessione edilizia in deroga – come accertata in sede giudiziale -, posto che era stato proprio quello l’ostacolo ravvisato dall’amministrazione procedente rispetto al conseguimento del bene della vita da parte dei privati, avrebbe dovuto vincolare strettamente, quanto meno in sede conformativa (ma di tale aspetto purtroppo il Consiglio di Stato non si è occupato), l’attività successiva del Comune, in modo da lasciare spazio, dopo quasi venti anni, ad una soluzione che potesse “monetizzare”, in un modo o nell’altro, il
vulnus oggettivamente subito dai ricorrenti.