Diritto amministrativo

Tar Lombardia, sez. III, sentenza n. 745/2025, pubblicata il 5 marzo 2025 IL CASO E LA DECISIONE Un cittadino straniero, dopo essere entrato sul territorio nazionale in condizioni di clandestinità, essere stato allontanato da un centro di accoglienza e avere contratto matrimonio con una cittadina italiana (dalla quale peraltro si era successivamente separato, con strascichi penali a suo carico), prova ad accedere alla “sanatoria” di cui al d.l. n. 34 del 2020 . Il beneficio gli viene peraltro negato in relazione all’insussistenza delle condizioni stabilite dalla norma in questione. In particolare, l’amministrazione compulsata aveva rilevato che l’interessato era stato condannato nel giugno del 2022 a quattro mesi di reclusione per una condotta di atti persecutori nei confronti della coniuge separata, condotta da lui tenuta tra il 2018 e il 2019. La pena finale applicata dal Giudice era stata peraltro lieve, in quanto commisurata alla contenuta offensività dei fatti, all’incensuratezza dell’imputato e alla concessione in suo favore delle circostanze attenuanti generiche, ma in ogni caso la condanna, rientrando tra le fattispecie elencate alla lett. c) del comma 10 dell’art. 103 del d.l. n. 34 del 2020 , era da considerarsi automaticamente preclusiva dell’esito positivo dell’istanza di emersione dal lavoro irregolare. Presentato ricorso avanti al Giudice amministrativo di primo grado, la difesa del cittadino straniero, consapevole dell’esistenza di una causa ostativa prevista direttamente dalla legge, rispetto alla quale l’amministrazione era vincolata e si è dunque mantenuta nei binari di un compito meramente esecutivo, ha chiesto di sollevare questione di costituzionalità per arrivare a una dichiarazione di illegittimità della norma dichiaratamente ostativa rispetto al beneficio richiesto. Il TAR Milano ha tuttavia respinto il ricorso, ritenendo manifestamente infondata la questione di costituzionalità dedotta dalla parte. In particolare, il Giudice meneghino, nell’evidenziare le differenze tra la fattispecie oggetto del suo esame e quella scrutinata dalla Corte costituzionale nel procedimento a seguito del quale è stata emessa la sentenza di accoglimento n. 43 del 2024 , ha affermato che le questioni non erano sovrapponibili per due diversi motivi. Innanzitutto, il reato ostativo preso in considerazione dalla Corte costituzionale era quello di detenzione illecita o spaccio di lieve entità ( art. 73, comma 5 del d.P.R. n. 309 del 1990 ), da considerarsi fattispecie autonoma rispetto al reato di detenzione e spaccio di stupefacenti di cui all’art. 73, comma 1 del d.P.R. n. 309 del 1990: da ciò consegue che il giudizio non è andato a sindacare la pena in concreto emessa in sede penale o la tipologia di condotta effettivamente tenuta all’interno di una fattispecie unitaria. In secondo luogo, il delitto di atti persecutori, a differenza di quello autonomo previsto e punito dal comma 5 dell’art. 73 del testo unico in materia di stupefacenti, comporta sempre l’ obbligatorietà dell’arresto in flagranza di reato . Conseguentemente, trattandosi di due differenti fattispecie penali – così come unitariamente considerate dalla lett. c) del comma 10 dell’art. 103 del d.l. n. 34 del 2020 – mentre è da considerarsi irragionevole la scelta del legislatore di escludere automaticamente la sanabilità della posizione di irregolarità nel Paese di un soggetto che è stato condannato per il reato di “spaccio lieve”, è al contrario da considerarsi razionale e proporzionata la scelta di far derivare conseguenze ostative automatiche alla condanna per il reato di stalking , anche perché tale delitto “ è di per sé suscettibile, se portato alle estreme conseguenze, di ledere irrimediabilmente beni costituzionalmente protetti al massimo livello... ”. Sotto altro aspetto, il TAR Milano ha respinto anche la censura di violazione dell’art. 19, comma 1.1., terzo e quarto periodo del d.lgs. n. 286 del 1998 , nella disciplina vigente ratione temporis , in quanto “ l’intrusione nella vita privata dell’interessato conseguente automaticamente alla fattispecie normativa in questione risulta giustificata sulla base delle circostanze di diritto e di fatto esistenti nel caso di specie ”. PROFILI DI CRITICITA’ DELLA NORMATIVA SUI REATI OSTATIVI IN MATERIA DI IMMIGRAZIONE La normativa in materia di procedimenti inerenti all ’immigrazione contempla due particolari discipline sulle condotte penali (e non) “interferenti” in senso negativo con la possibilità di accedere ai benefici di legge previsti in vista del soggiorno legale sul territorio italiano. Viene in primo luogo in considerazione il combinato disposto di cui all’ art. 5, comma 5, e 4, comma 4, del d.lgs. n. 286 del 1998 . Invero, “ il permesso di soggiorno o il suo rinnovo sono rifiutati e, se il permesso di soggiorno è stato rilasciato, esso è revocato quando mancano o vengono a mancare i requisiti richiesti per l'ingresso e il soggiorno nel territorio dello Stato ”; tra i requisiti richiesti c’è anche il fatto di non essere considerati “una minaccia per l'ordine pubblico o la sicurezza dello Stato o di uno dei Paesi con i quali l'Italia abbia sottoscritto accordi per la soppressone dei controlli alle frontiere interne e la libera circolazione delle persone”, o comunque di non risultare “ condannato, anche con sentenza non definitiva, compresa quella adottata a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per reati previsti dall'articolo 380, commi 1 e 2, del codice di procedura penale, per i reati di cui all'articolo 582, nel caso di cui al secondo comma, secondo periodo, e agli articoli 583-bis e 583-quinquies del codice penale, ovvero per reati inerenti gli stupefacenti, la libertà sessuale, il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina verso l'Italia e dell'emigrazione clandestina dall'Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite ”. Impedisce l'ingresso dello straniero in Italia anche la condanna con sentenza irrevocabile per uno dei reati previsti dalle disposizioni del titolo III, capo III, sezione II, della legge 22 aprile 1941, n. 633, relativi alla tutela del diritto di autore, e degli articoli 473 e 474 del codice penale, nonché dall'articolo 1 del decreto legislativo 22 gennaio 1948, n. 66, e dall'articolo 24 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773. Se per lo straniero in questione è stato richiesto il ricongiungimento familiare , poi, lo stesso non è ammesso in Italia “ quando rappresenti una minaccia concreta e attuale per l'ordine pubblico o la sicurezza dello Stato o di uno dei Paesi con i quali l'Italia abbia sottoscritto accordi per la soppressione dei controlli alle frontiere interne e la libera circolazione delle persone ”. Sotto altro fronte, ai sensi del comma 10 dell’art. 103 del d.l. n. 34, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 77 del 2020 , non sono ammessi alle procedure di emersione di rapporti di lavoro irregolari svolti con riferimento ad alcune specifiche attività – rispetto ai quali cioè lo straniero non aveva conseguito permesso di soggiorno per lavoro subordinato – coloro “ che risultino condannati, anche con sentenza non definitiva, compresa quella adottata a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per uno dei reati previsti dall'articolo 380 del codice di procedura penale o per i delitti contro la libertà personale ovvero per i reati inerenti agli stupefacenti, il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina verso l'Italia e dell'emigrazione clandestina dall'Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite ”. Stessa preclusione per coloro che siano comunque considerati una minaccia per l'ordine pubblico o la sicurezza dello Stato o di uno dei Paesi con i quali l'Italia abbia sottoscritto accordi per la soppressione dei controlli alle frontiere interne e la libera circolazione delle persone. Le due discipline normative sopra citate sono state oggetto di incisivi interventi della Corte costituzionale, la quale ha dovuto affrontare, nella sostanza, il tema dell’ automatismo introdotto dal legislatore tra l'applicazione di determinate condanne penali e il diniego del titolo di soggiorno. Con una prima pronuncia di carattere generale, la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 5, comma 5, del testo unico sull’immigrazione (d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286), nella parte in cui prevedeva che la valutazione discrezionale in esso stabilita (tenere conto, nella decisione finale sulla posizione del richiedente, anche della natura e della effettività dei vincoli familiari dell'interessato e dell'esistenza di legami familiari e sociali con il suo Paese d'origine, nonché, per lo straniero già presente sul territorio nazionale, della durata del suo soggiorno nel medesimo territorio) si applicasse solo allo straniero che «ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare» o al «familiare ricongiunto», e non anche allo straniero «che abbia legami familiari nel territorio dello Stato » ( sentenza 3 - 18 luglio 2013, n. 202 ). Successivamente, la Corte costituzionale ha dichiarato, più nello specifico, l'illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 4, comma 3, e 5, comma 5, del decreto legislativo sopra citato, nella parte in cui ricomprendeva, tra le ipotesi di condanna automaticamente ostative al rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro, anche quelle, pur non definitive, per il reato di cui all'art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 e quelle definitive per il reato di cui all'art. 474, secondo comma, del codice penale , senza prevedere che l'autorità competente verificasse in concreto la pericolosità sociale del richiedente ( sentenza 9 marzo - 8 maggio 2023, n. 88 ). Quanto poi al d.l. n. 34 del 2020, la Corte costituzionale ha dichiarato, con la recente sentenza n. 43 del 2024 , l'illegittimità costituzionale dell'art. 103, comma 10, lettera c) di tale decreto nella parte in cui, nel prevedere i «reati inerenti agli stupefacenti» come ostativi al buon esito della procedura di regolarizzazione, non escludeva il reato di cui all'art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 ( fatto di lieve entità di cessione o detenzione illecita di sostanze stupefacenti o psicotrope ). In sostanza, con le due ultime pronunce, il Giudice delle leggi ha denunciato l’irragionevolezza e la mancanza di proporzionalità di una scelta legislativa che faccia conseguire alla mera condanna per un delitto di modesta entità – a cui non segue neppure un’ipotesi di arresto obbligatorio in flagranza di reato – la preclusione automatica ai benefici di legge in materia di titoli di soggiorno sul territorio nazionale. Sulla scia di tali sentenze, si è posto allora il problema se altri automatismi connessi alla commissione di fattispecie penali lievi ma considerate ostative non debbano seguire la stessa sorte del reato di spaccio di lieve entità. L’attenzione si è in particolare appuntata sulla modalità concreta della condotta tenuta dal soggetto condannato, posto che ci sono alcuni reati (tra cui i maltrattamenti e lo stalking) in cui le situazioni possono essere tra di loro diversissime e conseguentemente portare a pene molto differenti. Nel caso affrontato dal TAR Milano e che qui si commenta, la difesa dello straniero ha messo in discussione la scelta del legislatore di sancire il diniego all’istanza di emersione del lavoro irregolare sulla sola base di una condanna per un fatto lieve di stalking . Il Giudice adito ha però respinto questa impostazione – che avrebbe dovuto condurre, in teoria, ad un nuovo giudizio dinanzi alla Corte costituzionale –, in quanto il reato normativamente considerato, nel caso di specie, come automaticamente ostativo ad un esito favorevole della procedura di “sanatoria” (reato di cui all’art. 612-bis c.p.) è stato oggetto, nell’ordinamento penale, di valutazione astratta unitaria , anche se in concreto può portare, in relazione alla oggettiva gravità della condotta, all’applicazione di pene finali tra di loro molto differenti. D’altra parte, non è stata ritenuta di per sé irragionevole la scelta del legislatore di escludere automaticamente la sanabilità della posizione di irregolarità nel Paese di un soggetto che è stato condannato per un reato suscettibile, se portato alle estreme conseguenze, di ledere irrimediabilmente beni costituzionalmente protetti al massimo livello, quali la libertà e l’incolumità personale. Inoltre, afferma sempre il Giudice meneghino, “ il delitto di atti persecutori, a differenza della “spaccio lieve”, comporta sempre l’obbligatorietà dell’arresto in flagranza di reato ”. Si tratta, in altri termini, di una fattispecie e di una soluzione legislativa diversa da quella già scrutinata e “bocciata” in due distinte occasioni dalla Corte costituzionale. Resta peraltro sullo sfondo, in quanto non specificamente affrontata dal TAR (che pure ha tenuto implicitamente distinte, quanto ad effetti concreti, le fattispecie di rinnovo di permesso di soggiorno da quello di domanda in sanatoria), l’ulteriore questione dell’eventuale contrasto della norma nazionale primaria con il parametro dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU , sotto il profilo della “protezione della vita privata”. D’altra parte, l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale e convenzionale in tema di proporzionalità si è sviluppata proprio e in particolare con riguardo all’art. 8 CEDU, e la Corte costituzionale, nel superare la precedente pronuncia del 2008, con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 5, comma 5 del d.lgs. n. 286 del 1998, in connessione con la preclusione derivante dal reato di spaccio di lieve entità, ha evidenziato che “ l’interesse dello Stato alla sicurezza e all’ordine pubblico non subisce alcun pregiudizio dalla sola circostanza che l’autorità amministrativa operi, in presenza di una condanna per il reato di cui si tratta, un apprezzamento concreto della situazione personale dell’interessato, a sua volta soggetto all’eventuale sindacato di legittimità operato dal giudice ”.

Cons. Stato, VII sez. 29 gennaio 2025, n. 711; Tar Emilia Romagna, sez. II, 14 ottobre 2020, n. 628 IL CASO E LE DUE SENTENZE A CONFRONTO Il caso che è stato esaminato in primo e in secondo grado, con visioni opposte, è relativo all’insediamento di scultori e performers denominato “Mutoid Waste Company” in Sant’Arcangelo di Romagna, dove, sin dall’inizio degli anni ’90, un gruppo di artisti noti a livello internazionale - specializzati nella scultura e nella trasformazione dei rottami e degli scarti - si è stabilito in area demaniale già destinata ad attività estrattiva e lavorazione ghiaie e poi dismessa, creando un parco con esposizione di sculture a cielo aperto; il tutto però in zona sottoposta a vincolo paesaggistico e senza alcun titolo. Su sollecitazione di un vicino, venivano dunque emesse dal Comune delle ordinanze di demolizione , fra l’altro, di camper, roulottes, pullman, furgoni, container, tettoie, cassoni, abusivamente realizzati. In un secondo momento, il Comune di Sant’Arcangelo di Romagna ha tuttavia riflettuto sul valore artistico del parco e sulla valorizzazione che esso era in grado di offrire ad una zona altrimenti abbandonata. Dunque, per legittimare i manufatti abusivi, acquisiti i pareri favorevoli della Soprintendenza, ha adottato uno specifico Piano Operativo Comunale Tematico (il Parco Artistico Mutonia, “Luogo del contemporaneo”) ed ha revocato le ordinanze di demolizione, vista l’incompatibilità della demolizione e rimessa in pristino con le nuove scelte politico-amministrative. In particolare, con il provvedimento di revoca il Comune, per un verso, dà atto di “ aver emanato legittimamente provvedimenti di demolizione e sgombero, in presenza di un accertamento di violazioni urbanistiche/edilizie ”; per altro verso motiva la revoca in relazione “ ad una volontà politica evolutasi nel tempo e oggi sfociata nell’adozione di uno specifico POC che recupera e ripropone la permanenza in loco della compagnia Mutoid Waste Company; di conseguenza i provvedimenti di demolizione e rimessa in pristino, di per sé incontestabili dal punto di vista giuridico/amministrativo al momento della loro emissione, sono diventati incoerenti od incompatibili con le nuove scelte amministrativo-politiche dell’Amministrazione, dettate da una sopravvenuta valutazione del prevalente interesse pubblico ”. La revoca viene quindi motivata sia come esercizio di jus poenitendi , sia in relazione a scelte politiche nel senso della inopportunità delle demolizioni per sopravvenuti motivi di pubblico interesse. In primo grado, il Tar Emilia Romagna, sez. II, 14 ottobre 2020, n. 628, ha rigettato il ricorso proposto dal vicino avverso i suddetti atti di “sanatoria” degli abusi, affermando fra l’altro che: “ Nel caso di specie, la disposta revoca non si dirige nei confronti di un provvedimento ad effetti continuativi, ma investe un ordine che non ha ancora esaurito gli effetti tipici che lo connotano, non essendosi ancora realizzati il concreto ripristino dello stato dei luoghi, l’esecuzione d’ufficio ovvero l’acquisizione coattiva al patrimonio comunale. L’ammissibilità della revoca nel peculiare caso esaminato consente di riportarsi alle condizioni previste dal legislatore, e in particolare ai “sopravvenuti motivi di pubblico interesse” e alla “nuova valutazione dell'interesse pubblico originario”, non rinvenendosi un’attribuzione di vantaggi economici (cfr. art. 21-quinques comma 1). Come hanno sostenuto le difese delle parti resistenti, nella fattispecie la scelta di mantenere l’insediamento trae sostegno dalla riconosciuta preminenza dell’interesse pubblico culturale, artistico e paesaggistico, che ha stimolato l’avvio del procedimento di adozione di un POC specifico. E’ assodato che alcun ripensamento dell’amministrazione è ordinariamente ammesso a fronte di un illecito edilizio acclarato, che legittima un’attività repressiva totalmente priva di discrezionalità; tuttavia, il vincolo all’azione amministrativa risulta (eccezionalmente) depotenziato a seguito della concorde valutazione degli Enti preposti alla tutela di interessi pubblici costituzionalmente tutelati". I due pareri favorevoli della Soprintendenza " sono stati espressi dalle amministrazioni istituzionalmente competenti alla protezione dell’ambiente, del paesaggio e dei beni storici e artistici. Le ampie e univoche riflessioni sviluppate – recepite nel POC adottato – hanno reso l’ordinanza di demolizione e remissione in pristino non più in linea con la volontà del competente soggetto pianificatore: quest’ultima è in altri termini divenuta incompatibile con gli effetti tipici del provvedimento repressivo assunto in precedenza. L’evoluzione successiva del processo di programmazione dell’assetto dell’area coinvolta è stata poi coerente con l’input proveniente dalla Soprintendenza ai Beni Architettonici e Paesaggistici e dalla Soprintendenza per i Beni Storici e Artistici. In ogni caso, per quanto attiene all’oggetto del gravame, i significativi elementi di cui si è dato conto (pareri e POC adottato) hanno avallato e legittimato il revirement contestato in questa sede: la revoca risulta in buona sostanza supportata da sufficienti ragioni giustificatrici… ”. In grado di appello, il Consiglio di Stato, VII sez., 29 gennaio 2025, n. 711, ha riformato la sentenza di primo grado. Secondo il Consiglio di Stato: “ È illegittimo il provvedimento di revoca di ordinanze di demolizione di opere abusive che sia motivato con la sopravvenuta valutazione del prevalente interesse pubblico al mantenimento dei manufatti (nella specie, sfociata nella adozione di un piano operativo comunale che consente il recupero) poiché l’ampia discrezionalità del potere di revoca presuppone la natura a sua volta discrezionale del provvedimento di primo grado che, nel caso di ordinanza di demolizione di opere abusive, va esclusa trattandosi di potere vincolato. L’ampia discrezionalità propria dello jus poenitendi non può surrogare l’assenza di discrezionalità del provvedimento repressivo degli abusi edilizi e l’accertata abusività degli interventi edilizi impedisce di dare rilevanza agli elementi sopravvenuti". È dunque “ illegittima la delibera di approvazione del piano operativo comunale tematico (POC) che tenda non tanto alla riqualificazione di fabbricati esistenti, quanto alla sanatoria di opere abusive. Difatti, gli obiettivi del recupero, della rinaturalizzazione e della valorizzazione dell’area, oltre a dover risultare coerenti con la pianificazione sovraordinata (nella specie, con il piano strutturale comunale - PSC e con il piano territoriale di coordinamento provinciale - PTCP), non possono avere ad oggetto insediamenti da demolire in forza di provvedimenti comunali repressivi degli abusi accertati (...) In argomento va anzitutto osservato che la “nuova” valutazione dell’interesse pubblico presuppone un originario, analogo potere valutativo: laddove gli interessi pubblici implicati nella vicenda dedotta sono sottratti ex se alla valutazione discrezionale dell’amministrazione circa la rimessione in pristino già in sede di originaria decisione circa la sorte dei manufatti (trattasi di area demaniale soggetta a vincolo paesaggistico), e dunque a fortiori lo sono in caso di revoca. Proprio l’ampia discrezionalità della revoca invocata dalle parti appellate presuppone la natura a sua volta discrezionale del provvedimento revocando: nel caso di specie quest’ultimo è un’ordinanza che, accertata la natura abusiva delle opere (non smentita neppure in sede di esercizio dell’autotutela), risulta vincolato nel senso della loro eliminazione e della rimessione in pristino del sito (la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato in argomento è pacifica e consolidata: ex multis e da ultimo, sez. VI, sentenza n. 6734/2024). Non può dunque essere recuperato in sede di esercizio dell’autotutela il carattere discrezionale inesistente ab origine con riguardo alla specifica tipologica provvedimentale che viene in considerazione: l’ampia discrezionalità propria dello jus poenitendi non può evidentemente surrogare l’assenza di discrezionalità del provvedimento repressivo degli abusi edilizi. Le sopravvenienze allegate dall’amministrazione in sede di motivazione della revoca – in disparte quanto si dirà in relazione alle censure relative al POC - non sono dunque tali da supportarne legittimamente l’adozione: proprio l’aver ribadito la perdurante sussistenza in fatto e in diritto dell’accertata abusività degli interventi edilizi in questione impedisce di dare rilevanza agli elementi sopravvenuti, che peraltro hanno riguardo a scelte politico-amministrative che, a loro volta, devono comunque potersi attuare in un contesto (anche fisico) di piena legittimità (non potendo evidentemente tali scelte legittimare la permanenza sul territorio di insediamenti la cui abusività è stata accertata ed anzi ribadita in sede di esercizio dell’autotutela)… ”. REVOCA DEGLI ATTI AMMINISTRATIVI, LIMITI E NATURA DEL POTERE ESERCITATO La potestà di revoca degli atti amministrativi è una particolare manifestazione delle potestà generali che l’amministrazione possiede al fine di adeguare permanentemente e congruamente situazioni giuridiche originate da precedenti atti alle sopravvenienze e a quello che è l’interesse pubblico attuale, mediante l’eliminazione con efficacia ex nunc della precedente determinazione. L’amministrazione è infatti chiamata a monitorare (di regola nei rapporti regolati da provvedimenti amministrativi discrezionali con efficacia protratta nel tempo) la costante opportunità dei propri atti e a verificare l’eventuale esistenza di interessi pubblici sopravvenuti che richiedono la privazione di effetti del provvedimento in precedenza adottato, tutto ciò a prescindere dalla presenza di profili patologici dell’atto. Così come l’amministrazione, nei rapporti di durata, è tenuta a verificare costantemente l’incidenza dei fatti sopravvenuti sulle condizioni di appagamento dell’interesse pubblico. Si tratta dunque di un potere – di adeguare costantemente il contenuto dell’atto rispetto all’interesse pubblico perseguito (il quale può variare esso stesso o richiedere un adeguamento dei mezzi in conseguenza di una modificazione della situazione fattuale originaria) – che nel contesto storico attuale, caratterizzato da repentini e imprevedibili sconvolgimenti, si sta rivelando particolarmente efficace e di grande utilità per le pubbliche amministrazioni. E’ un potere di adeguamento dell’assetto giuridico posto in essere dal primo provvedimento alla luce di fatti sopravvenuti che garantisce flessibilità all’azione amministrativa e che non trova rispondenza in omologhi istituti del diritto privato, dove mancano rimedi e strumenti atti a ricalibrare gli accordi contrattuali in presenza di sopravvenienze tali da alterarne l’equilibrio originario (senza che si configuri l’eccessiva onerosità sopravvenuta di cui all’ art. 1467 c.c. ). Il potere di revoca non deve però sembrare un privilegio della pubblica amministrazione, in quanto si tratta di una prerogativa consustanziale all’azione amministrativa, la quale deve essere sempre orientata al perseguimento dell’interesse pubblico del momento e deve essere espletata con i mezzi che in un determinato e mutevole contesto si rivelano di volta in volta i più adeguati. Presupposti della revoca in base all’ art. 21 quinquies della legge n. 241 del 1990 , sono: a) sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero mutamento della situazione di fatto non prevedibile; b) nuova valutazione dell’interesse pubblico originario : esercizio dello ius poenitendi che incide fortemente sull’affidamento ingenerato nel privato e che però, in base alla modifica apportata nel 2014, non è ammesso laddove vengano in rilievo provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici; tali provvedimenti non sono dunque più soggetti al mero ripensamento dell’amministrazione. Con riferimento all’oggetto, rimangono fuori dalla revoca gli atti non ancora efficaci, soggetti invece a ritiro , e gli atti con effetti istantanei , cioè quelli non in grado di produrre ancora i propri effetti nel momento in cui la P.A. ne valuta la perdurante operatività, nonché, di regola e salvo quanto si dirà in relazione al caso esaminato (ovvero alle ordinanze di demolizione non ancora eseguite), i provvedimenti vincolati . Con riferimento al tempo, il legislatore non dà elementi in ordine al momento entro il quale, a differenza dell’annullamento, può essere adottato il provvedimento di revoca. Pertanto la revoca in linea di principio è praticabile in ogni tempo. Quanto all’ affidamento del destinatario , a differenza che nell’annullamento d’ufficio, ove si richiede di tener “conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati”, esso non costituisce un ostacolo all’adozione della revoca: invero, qualsiasi affidamento privato è destinato a soccombere rispetto alle sopravvenienze di pubblico interesse. L’interesse del privato è tutelato unicamente sul piano patrimoniale attraverso l’ indennizzo . La previsione dell’indennizzo si atteggia infatti a contrappeso dell’ampio potere di revoca ed è sorretto da ragioni di giustizia distributiva e di attenuazione del pregiudizio sofferto dal privato, il quale otterrà un ristoro parziale di natura pecuniaria conseguente ad un atto lecito. Nondimeno, specie nel caso di esercizio dello ius poenitendi , l’esercizio del potere di revoca deve essere adeguatamente motivato in considerazione delle posizioni consolidate in capo al destinatario dell’atto revocando e dell’affidamento ingenerato. Quanto alla natura del potere esercitato , secondo una certa dottrina (v. da ultimo, Clara Napolitano “La revoca: profili di un potere di amministrazione attiva” in www.giustizia-amministrativa.it), il potere di revoca non sarebbe inquadrabile pienamente nell’ambito dell’autotutela, bensì nell’ambito dell’amministrazione attiva, riconoscendovi l’immanenza della funzione di tutela dell’interesse pubblico della quale la p.a. è istituzionalmente investita. Infatti, mentre l’annullamento d’ufficio nella sua veste di presidio della legalità starebbe perdendo i tratti dello strumento d’amministrazione attiva e si starebbe progressivamente avvicinando alla giustizialità (basti pensare, per esempio, ai termini d’operatività sempre più rigorosi – oggi, 12 mesi dall’adozione del provvedimento contra legem – con successivo consolidamento dell’atto illegittimo in caso di mancato esercizio di quel potere); la revoca, viceversa, assumerebbe sempre più i tratti di un provvedimento espressivo della buona amministrazione e dell’attenta capacità valutativa di una p.a. che contempera interessi anche dopo l’adozione di un provvedimento ed esercita il suo potere funzionalizzato per adeguarne il contenuto in occorrenza di sopravvenienze. “ Dunque più che il profilo d’atto di autotutela, nella revoca pare emergerne un altro. Che nulla ha a che vedere con l’attività giustiziale: bensì con una valutazione sorvegliata circa l’opportunità dei propri atti, tale da consentire alla stessa p.a. – stante l’unilateralità del suo potere – d’intervenire ed eliminarne gli effetti, alla ricorrenza di determinati presupposti. Come a dire che con la revoca la p.a. non si “autotutela” in senso tecnico: semplicemente si limita a gestire l’interesse di cui è portatrice, né più né meno di come aveva fatto con il provvedimento originario, veglia sugli interessi pubblici perseguiti in origine e, se questi mutano o richiedono un diverso intervento, interrompe gli effetti del provvedimento che li amministra ” (così la dottrina citata). Non v’è dubbio che queste due differenti letture (giustizialità/amministrazione attiva) comportino altrettanti precipitati: ove si aderisse all’idea che la revoca si identifichi sostanzialmente con un potere modificativo di una prima decisione amministrativa , e dunque che si tratti dell’esercizio della stessa funzione affidata all’autorità amministrativa emanante il primo provvedimento, solamente esercitata in senso inverso, allora l’interesse pubblico che si intende soddisfare con il provvedimento di revoca deve appartenere all’area di interessi propri al settore nel quale è preordinato ad operare l’atto da revocare. Dunque, ad esempio, vi dovrebbe essere corrispondenza fra decisione di far cessare gli effetti di un provvedimento ampliativo e possibilità di denegare quel provvedimento ove venisse richiesto in quello stesso momento. Cioè l’ambito di operatività della potestà di revocare e l’ambito della potestà di adottare/denegare quel medesimo provvedimento ampliativo dovrebbero coincidere. Perciò, venendo al caso esaminato, se il provvedimento originario è di tipo repressivo ed è vincolato (come nel caso di un’ordinanza di demolizione) non v’è spazio per la revoca. Ove invece si optasse per la seconda opzione interpretativa, svincolando il potere di revoca da quello di amministrazione attiva per farlo rientrare nel più generale potere di autotutela , allora la discrezionalità potrebbe allargarsi e lo spettro d’interessi oggetto di valutazione potrebbe essere più ampio e generale, potendo anche non riguardare direttamente la sfera di competenza dell’amministrazione emanante ed attingere a esigenze avvertite da altre amministrazioni, con la prima tuttavia in fatto coordinate. Anche rispetto a provvedimenti di tipo repressivo-ripristinatorio come le ordinanze di demolizione (i cui effetti tipici non si sono ancora completamente realizzati, perché non ancora eseguite, come nel particolare caso in esame) vi potrebbe essere spazio per l’esercizio del potere di revoca, involgendosi un livello d’interessi diverso e superiore. Ebbene, sembra che le due differenti soluzioni date al caso in esame rispettivamente dagli organi di giustizia amministrativa di primo e secondo grado, riflettano tali due differenti concezioni della revoca. Infatti, il T.a.r. Emilia Romagna sembra essersi mosso sulla base della concezione della revoca come autotutela, non ravvisando preclusioni all’esercizio di tale potere discrezionale pur in presenza di un provvedimento in origine vincolato, proprio perché si tratterebbe di due poteri diversi, dei quali, quello di autotutela è più esteso e nella fattispecie non limitato dalla considerazione di interessi di natura strettamente edilizia ma aperto alla considerazione di interessi di natura politico-amministrativa di ampio spettro. Invece, il Consiglio di Stato, si è mosso sulla base della considerazione della revoca come esercizio del medesimo potere di amministrazione attiva espletato con il provvedimento originario, con la conseguenza che se quel potere è in origine vincolato non potrà non esserlo anche in sede di revoca. A parere di chi scrive l’impostazione inizialmente adottata dal T.a.r. sembra garantire una certa flessibilità all’azione amministrativa in modo maggiormente rispondente alla ratio del potere di revoca, permettendo di giungere alla soluzione, più opportuna e giuridicamente accettabile, di consentire il mantenimento del parco artistico una volta che le ordinanze di demolizione (nel frattempo non attuate) non erano più in linea con il nuovo strumento pianificatorio, quest’ultimo adottato dal Comune sulla base di un propria ragionevole scelta di natura politico-amministrativa e sulla base dei pareri positivi della Soprintendenza. Viceversa, la soluzione adottata dal Consiglio di Stato appare frutto di un astratto e soffocante sillogismo avulso dalle circostanze concrete: la revoca non si applica ai provvedimenti vincolati/ le ordinanze di demolizione sono provvedimenti vincolati = la revoca non si applica alle ordinanze di demolizione. Con la conseguenza, invero troppo rigida, per cui il previo esercizio del potere repressivo non sarebbe in alcun modo superabile da una sopravvenuta valutazione del prevalente interesse pubblico culturale, artistico e paesaggistico effettuata dagli organi politici del Comune.