Processo, principi e riforme

Il fenomeno successorio si compone di due profili: uno oggettivo, dato dal patrimonio relitto dal de cuius , equivalente del complesso di beni e rapporti giuridici di cui era titolare, e uno soggettivo, dato dalla trasmissione a determinati soggetti a subentrare in luogo del defunto, i c.d. chiamati all’eredità [1] . Nell’ambito di tale macro categoria, la dottrina distingue i “vocati”, ossia coloro che sono solo astrattamente designati alla successione, per volontà dello stesso de cuius o della legge (art. 457 c.c.), dai “delati”, ossia coloro che dal momento dell’apertura della successione hanno la concreta offerta delle sostanze ricomprese nell’asse ereditario. Se normalmente le due vesti coincidono, consentendo l’appellativo comune di “chiamato all’eredità”, in alcune ipotesi previste dalla legge, per esempio in caso di rappresentazione ex art. 467 c.c. o di sostituzione ex art. 688 c.c. determinata dalla scheda testamentaria, si può verificare uno iato che differenzia le due posizioni giuridiche. Solo il delato cioè, a differenza del vocato , è immediatamente nella condizione di accettare efficacemente e di vantare diritti sull’eredità. Nel frangente della differenziazione tra le due figure, talora non immediatamente intelleggibile nella sua complessità, si colloca la disposizione dell’ art. 480 c.c. che individua un termine di prescrizione estintiva di dieci anni con decorrenza dalla data di apertura della successione. Il vano decorso del decennio da tale data comporta, quindi, l’estinzione del diritto di accettare, da deve ritenersi consumato ex art. 2934 c.c. [2] . Nel disciplinare le modalità di accettazione o rinuncia all’eredità nelle disposizioni precedenti – artt. 475, 476, 477, 479 c.c. – l’ordinamento prende a riferimento unicamente il chiamato; su tutti i chiamati quindi, intesi tanto come delati o volgarmente “primi chiamati”, quanto come vocati, grava l’onere di rispettare il termine. Ne discende che l’inerzia del primo si ripercuote negativamente su tutti gli ulteriori che non si attivino per rispettarlo, con conseguente danno e consumazione del diritto. A tal riguardo, i vocati non delati hanno più modi per tutelare la propria posizione di aspettativa. In prima battuta, in qualità di interessati, possono adìre il Giudice affinché fissi un termine entro il quale il chiamato anteriore dichiari se intende accettare l’eredità. La c.d. actio interrogatoria – al pari del termine inserito dal testatore – tramuta così la prescrizione prevista dall’art. 480 c.c., la cui inosservanza comporta l’estinzione del diritto, in decadenza: il mancato rispetto del termine assegnato dal Giudice comporta, cioè, la consumazione del potere di espandere il proprio diritto di accettazione in titolarità [3] . In seconda battuta, in disaccordo con la dottrina [4] che ritiene che il destinatario di una delazione non ancora attuale, al momento dell’apertura della successione, sarebbe titolare di una mera situazione giuridica di aspettativa cui è riservata una tutela minore rispetto a quella riservata al c.d. delato, la giurisprudenza di legittimità ha accolto il principio di cd. simultaneità delle delazioni [5] . Ogni singolo chiamato ha quindi il diritto di accettare, anche per fatti concludenti, la delazione ereditaria; in questo modo l’accettazione diviene un atto giuridico che si riempie di contenuto – ossia dei rapporti già intestati al de cuius – solo al venir meno, vuoi per rinuncia o per decadenza, del diritto di accettare dei delati antecedenti o preferiti in grado. La giurisprudenza predilige così l’interpretazione della chiamata attuale tanto per i delati quanto per i vocati all’eredità, il cui termine di prescrizione, per tutti, decorre e si consuma col passaggio di dieci anni dal momento dell’apertura della successione. In questo senso, la prescrizione si atteggia in maniera simile a quanto dettato dall’art. 2940 c.c. in tema di adempimento spontaneo: così come il soggetto che ha spontaneamente onorato un debito prescritto non ha diritto di ripeterne il pagamento, cristallizzando un diritto adempiuto oltre la sua scadenza quasi si trattasse dell’adempimento di un’obbligazione naturale, in maniera simile l’accettazione tardiva, ossia oltre il termine decennale, non impedisce l’acquisto della qualità di erede, a patto che non venga tempestivamente eccepita da chiunque ne abbia interesse [6] . L’interesse è stato letto dalla giurisprudenza in senso affatto ampio, di modo che il rilievo può esser svolto anche un terzo non chiamato [7] , che potrebbe esser danneggiato dalla riduzione patrimoniale destinata al proprio debitore per effetto della accettazione tardiva di un altro chiamato all’eredità. Vista la validità dell’acquisto mortis causa ultradecennale e la possibilità di rinunciare all’eccezione di prescrizione ex art. 2937 c.c. [8] , c’è quindi da interrogarsi su quale sia l’effetto del rilievo dell’intervenuta prescrizione dell’acquisto effettuato dal chiamato oltre il termine decennale, ossia, in altre parole, quale sia il regime di stabilità della situazione giuridica creatasi per effetto di un atto giuridico compiuto oltre il termine stabilito dall’ordinamento per il suo perfezionamento, nel caso in cui la prescrizione venga validamente e, in ambito processuale, tempestivamente eccepita [9] . Dato per pacifico che la domanda di accertamento (o l’eccezione) di avvenuta prescrizione sollevata prima dell’accettazione ultradecennale comporta l’impossibilità di validamente subentrare nella posizione giuridica del de cuius , per intervenuta e accertata consumazione del relativo diritto in capo al (l’allora) chiamato, maggiori problemi si pongono in caso di rilievo della prescrizione svolto dopo l’accettazione ultradecennale. In tale fattispecie la prescrizione pare atteggiarsi in modalità parzialmente difforme rispetto al diritto comune disciplinato dall’ art. 2940 c.c. : se l’adempimento spontaneo tardivo non è ripetibile anche rilevandone la prescrizione, al contrario chi scrive ritiene che il rilievo del decorso del termine svolto dopo l’accettazione ultradecennale impedisca la cristallizzazione della situazione giuridica apparente, il valido acquisto della qualifica di erede e, così, comporti il ripristino dello stato anteriore all’accettazione. L’ art. 525 c.c. prevede infatti che i chiamati, anche se hanno rinunciato, possono sempre validamente accettare l’eredità se non è già stata accettata da altro dei chiamati e sino al termine di compimento della prescrizione. La rinuncia all’eredità , cioè, può esser revocata solo entro il decennio dall’apertura della successione, oltre tale termine restando insensibile il mutamento di idea del vocato al decorso del tempo. Se ciò è vero, in pari misura l’eccezione di prescrizione in ordine alla tardività dell’accettazione produce l’effetto di far decadere l’erede tardivo dalla sua qualifica, dovendo l’inerzia (ultra)decennale di quest’ultimo esser parificata alla rinuncia tardivamente revocata, impedita dall’ordinamento. Quindi, come il rinunciante non potrà più, oltre il decennio, acquistare la qualifica di erede, così il mancato esercizio del diritto, da ritenersi consumato [10] , renderà impossibile l’acquisto dell’eredità. La qualifica di erede deve ritenersi in tal caso non tanto impedita, quanto “revocata”; infatti in assenza del rilievo della tardività – come visto sopra – l’accettazione ultradecennale si considera valida ed efficace. A tal riguardo, la ratio dell’art. 525 c.c. e, così, del sistema prescrizionale in materia successoria, pare riferirsi ancora al principio per cui l’ordinamento, tra qui certat de damno vitando e qui certat de lucro captando , tutela il primo assicurando all’accettante in termini l’intangibilità dei diritti quesiti con preferenza rispetto al tardivo, in quanto quesiti oltre la scadenza fissata dall’art. 480 c.c.. [1] La successione ereditaria è un fenomeno a formazione progressiva che inizia con l’epertura della successione e si conclude con l’accettazione ex art. 459 c.c.. La Suprema Corte ha chiarito che “La delazione conseguente all'apertura della successione ereditaria, pur costituendone un presupposto, non è sufficiente per l'acquisto dell'eredità, a tal fine occorrendo anche che il chiamato proceda all'accettazione mediante una dichiarazione espressa di volontà (o con l'assunzione del titolo di erede) in un atto pubblico o in una scrittura privata (art. 475 c.c.) oppure compiendo atti che necessariamente presuppongono la volontà di accettare e che il chiamato stesso non avrebbe avuto il diritto di fare se non nella qualità di erede” (Cass. n. 9782/1995 e, dello stesso tenore, Cass. n. 1850/1971 e Cass. n. 2408/1972). [2] Si veda Cass. 2975/1989, secondo la quale “L'art. 480 comma 1 cod. civ., stabilendo che il diritto di accettare l'eredità si estingue con il decorso del tempo (dieci anni), prevede un termine di prescrizione estintiva”. [3] Sul punto, si veda G. Petrelli in Rivista del Notariato, 1993, pag. 287, secondo il quale, però, la trascrizione dell’acquisto mortis causa effettuata oltre il termine per accettare deve considerarsi valida accettazione dell’eredità, a tutela del principio dell’apparenza ereditaria, in particolare se tale aspetto non risulta dalla nota. La conclusione pare, a chi scrive, non condivisibile. Il regime della pubblicità immobiliare opera su un piano diverso da quello sostanziale, tale per cui non è elemento idoneo e/o sufficiente a sanare o colmare le lacune o invalidità della fattispecie. Ne discende, sempre a parere dello scrivente, che la consumazione del potere di accettare l’eredità, se eccepito in termini e, così, prima dell’esecuzione della formalità pubblicitaria, comporta la definitiva fuoriuscita dalla sfera giuridica soggettiva del delato, con applicazione dei rimedi previsti dall’art. 2662 c.c.. [4] Sul punto, si veda Grosso e Burdese, Le successioni, Parte generale, in Tratt. Dir. civ. it., diretto da Vassalli, pag. 72. La dottrina valorizza l’interpretazione romanistica per la quale “delata hereditas intelligitur, quam qui possit adeundo consequi”, dalla quale si desume che i chiamati in subordine sono legittimati all’accettazione solo dal momento in cui l’eredità si devolva in loro favore. Corollario di tale regola è che non solo il chiamato in subordine non ha potere di amministrare l’eredità ex art. 460 c.c. (Grosso Burdese, op. citata, pag. 164, Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle successioni, Torino 2005, pag. 83) ma, addirittura, in suo favore non debba nemmeno esser considerata aperta la successione (Capozzi, Successioni e Donazioni, Milano 2009, pag. 106). [5] Si veda Cass. 2743/2014, secondo la quale “Qualora sussista una pluralità di chiamati a succedere in ordine successivo, si realizza una delazione simultanea a favore dei primi chiamati e dei chiamati ulteriori, con la conseguenza che questi ultimi, in pendenza del termine di accettazione dell’eredità dei primi chiamati, sono abilitati ad effettuare un’accettazione anche tacita dell’eredità”. [6] “La prescrizione del diritto di accettare l'eredità, a norme dell'art. 480 c.c. opera, in mancanza di limitazioni normative, a favore di chiunque vi abbia interesse, anche se estraneo all'eredità”, Cass. 9901/1995 e Cass. 2975/1989 ma non può esser rilevata d’ufficio e, pertanto, l’eventuale accettazione tardiva è valida a condizione che nessuno abbia rilevato la prescrizione (Cass. 5633/1987 e Cass. 3529/1969; in dottrina, G. Petrelli in Rivista del Notariato, 1993, pag. 290: “Il chiamato all’eredità può porre in essere un atto di accettazione – espressa o tacita – dell’eredità anche dopo il decorso del termine prescrizionale, non essendovi peraltro alcuna possibilità di considerare invalido in tal caso il negozio di accettazione, che potrà produrre normalmente i suoi effetti se nessuno eccepirà l’avvenuta prescrizione” [7] Sembra applicabile, anche in materia successoria, l’art. 2939 c.c.. Cass. 1596/1979 ha ammesso la formulazione della relativa eccezione da parte del Curatore fallimentare. In caso di pluralità di interessati, l’eccezione svolta da uno solo d’essi giova a tutti, considerato il carattere unitario e inscindibile dalla situazione soggettiva del chiamato all’eredità. Nono potendo l’eccezione di prescrizione giovare solo a chi la eserciti e non agli altri, concernendo lo status di erede che deve avere efficacia e erga omnes, Cass. 178/1996 ha precisato che l’eccezione sollevata da uno dei convenuti in divisione opera efficacemente anche in favore degli altri, e addirittura ancorchè taluno dei condividenti abbia espressamente rinunciato. [8] La prescrizione del diritto di rinunciare all’eredità è rinunciabile. Intervenuta la prescrizione decennale ai sensi dell’art. 480 c.c., il soggetto al quale l’estinzione del diritto altrui giovi può manifestare l’inequivoca volontà di non avvalersi della prescrizione, perdendo così il potere di eccepirla in sede processuale. In tale caso, non operando la prescrizione in modalità ipso iure, il diritto colpito – precedentemente indebolito dal diritto di rilevarla del co-chiamato – riacquista il proprio vigore come se il decorso del tempo non si fosse mai verificato. In questo senso Cass. n. 263/1996, Cass. 3529/1969 e Cass. 68/1978. Si veda anche Effetti della rinuncia tacita alla prescrizione del diritto di accettare l'eredità, di Nicola de Mauro in Giust. Civ. 1996, pag. 1667. [9] Deve ritenersi applicabile, sul punto, l’art. 2938 c.c. per il quale il Giudice non può rilevare d’ufficio la prescrizione non opposta. A tal riguardo, Cass. 12646/2020 ha precisato che il chiamato può accettare l’eredità anche oltre il termine di 10 anni, se non viene eccepita la prescrizione. Precisa la Cassazione che, poiché non rilevabile d’ufficio, la prescrizione eccepita per la prima volta in grado d’appello – e così tardiva secondo le preclusioni processuali - non fa decadere il chiamato dall’accettazione, pur eseguita oltre il decennio dall’apertura della successione. [10] A commento dell’art. 525 c.c., la dottrina sostiene che “la facoltà di revoca della rinunzia viene meno se è prescritto il diritto di accettare l’eredità, ossia se sono decorsi dieci anni dall’apertura della successione” (Successioni e donazioni, G. Capozzi, Milano 2015, pag. 333). Ne deriva che, decorsi dieci anni dall’apertura della successione, se non è possibile revocare la rinuncia è conseguentemente irrealizzabile l’accettazione tardiva.

Breve nota a Cass. civ., ord., sez. V, 05-11-2021, n. 31960, Pres. CHINDEMI, Est. De Masi IL CASO Il ricorso in cassazione è stato fondato, per quanto in questa sede di interesse, sulla asserita violazione, da parte della CTR, dell’art. 3, l. n. 241 del 1990 e dell’art. 7, l. n. 212 del 2000, in ragione della ritenuta nullità della cartella di pagamento priva di adeguata motivazione in quanto non esplicitante le modalità di calcolo degli interessi richiesti sulla somma dovuta a titolo di imposta. Tale problematica, peraltro, è stata declinata da parte ricorrente, anche in ragione, della ritenuta violazione dell'art. 24 Cost., in quanto, mancando un prospetto analitico degli interessi applicati, non sarebbe dato ai contribuenti verificare e, quindi, contestare la correttezza della somma a tale titolo richiesta. Entrambe le predette censure pongono, infatti, sia pure sotto prospettive differenti, la questione dell'obbligo di motivazione della cartella di pagamento, ai sensi dell’ art. 7, l. n. 212 del 2000 , relativamente ad interessi richiesti per ritardato pagamento di tributi. La cartella non recherebbe indicazioni sufficienti (giorni, tassi d'interesse, imponibile, aliquote, ecc.) al fine di verificare la correttezza delle somme iscritte a ruolo e si appunta sul fatto che nell'atto impugnato "viene riportato solo l'importo totale degli interessi applicati (e) non un prospetto analitico anche sintetico, che spieghi modalità, tassi e criteri seguiti nella loro determinazione". Nella pronuncia impugnata la C.T.R. del Lazio aveva affermato che "le somme indicate in cartella corrispondono a quelle riportate nell'originario avviso di liquidazione, convertite in Euro e maggiorate degli interessi dovuti per legge, quindi, al tasso legale" ed inoltre che "non risulta dimostrato che l'ufficio abbia richiesto un tasso superiore a quello di legge, o abbia calcolato interessi su interessi (cd. anatocismo), come adombrato dal ricorrente in udienza". Quindi, la Commissione aveva ritenuto legittima la cartella di pagamento perché il metodo seguito dall'Amministrazione finanziaria per la liquidazione degli accessori risulta agevolmente controllabile dal contribuente, essendo la misura degli interessi applicati predeterminata dalla legge, per cui la liquidazione stessa si risolve in una operazione matematica, di natura tipicamente riscossiva. Inoltre, è stato valorizzato il fatto che la cartella di pagamento, riproduttiva del ruolo, richiama l'avviso di liquidazione prodromico, esplicita le ragioni della debenza dei tributi ("revoca benefici fiscali L. 6 agosto 1954, n. 604"), ed indica l'atto notarile presentato alla registrazione ("atto notaio C. del (OMISSIS) n. (OMISSIS)") cui la pretesa fiscale si riferisce, in tal modo rendendone conoscibili i presupposti di fatto e di diritto. La cartella informa pure che "Per ogni giorno di ritardo vanno aggiunti gli interessi di mora (calcolati a partire dalla data di notifica della presente cartella e i maggiori costi del servizio di riscossione)", che "le spese di notifica rappresentano il costo del servizio di notifica della cartella di pagamento svolto dall'Agente della riscossione (normativa di riferimento: D.Lgs. n. 112 del 1999, art. 17, comma 7 ter)", che sono dovuti dal destinatario dell'atto anche "i compensi del servizio di riscossione (o aggio di riscossione)" in misura diversa (4,65% e 9%) a seconda che il pagamento intervenga entro la scadenza o in ritardo, ed ancora che "gli interessi di mora sono dovuti dal contribuente, in aggiunta alle somme iscritte a ruolo, qualora non effettui il pagamento entro SESSANTA giorni dalla data di notifica" e fino al giorno dell'effettivo pagamento, ed infine che "il tasso di interesse applicato viene determinato con apposito atto normativo (normativa di riferimento D.P.R. n. 602 del 1973, art. 30, e norme correlate)". Peraltro, la materia del contendere investe unicamente gli interessi applicati nella misura di Euro 35.168,21 sui tributi dovuti (imposta di registro e ipocatastali), stante l'incontestabilità del relativo accertamento per effetto del giudicato tributario sul prodromico avviso di liquidazione, che ha revocato i benefici della piccola proprietà contadina, in relazione all'atto di compravendita stipulato in data. L'ORDINANZA DELLA CORTE La quinta sezione della Corte ha sottolineato come le argomentazioni della CTR siano conformi all'indirizzo giurisprudenziale di legittimità secondo il quale è legittimo il riferimento al calcolo degli interessi maturati ex lege ove sia incontestata la sorte capitale (proveniente dal precedente atto impositivo o da dichiarazione dello stesso contribuente) e il periodo per il quale sono maturati gli interessi, risolvendosi la determinazione degli accessori in una mera operazione matematica, che consente il raffronto con i tassi determinati ex lege , per la quale non ricorre l'obbligo di specifica motivazione. In particolare tale orientamento valorizza: - il fatto che, laddove nella cartella vi sia il richiamo alla dichiarazione dalla quale deriva il debito di imposta ed al conseguente periodo di competenza, il criterio di liquidazione degli interessi è predeterminato ex lege e la relativa applicazione finisce per essere una mera operazione matematica, con conseguente sufficienza della motivazione (si vedano, in senso conforme, Cass., Sez. V, 27 marzo 2019, n. 8508; Cass., Sez. V, 8 marzo 2019, n. 6812; Cass., Sez. VI, 7 giugno 2017, n. 14236); - il mero richiamo all’atto impositivo è sufficiente a far ritenere assolto l’onere motivazionale, il contribuente trovandosi già nella condizione di conoscere i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche della pretesa fiscale, anche ai fini del controllo (meramente aritmetico) della esattezza delle somme richieste (come nel caso) per "interessi.., per ritardato o omesso pagamento" sulle imposte indicate in detto atto impositivo (si veda, al riguardo, Cass., Sez. V, 15 aprile 2011, n. 8613); - il contribuente è sempre e comunque in grado di controllare quale sia il tasso di interesse applicato, perché, anche qualora manchi l'emissione del decreto ministeriale che determina annualmente la misura degli interessi di mora computabili dalla notifica della cartella fino alla data del pagamento, il tasso viene determinato ex lege sulla base del tasso fissato dall'ultimo decreto pubblicato, che resta efficace fino alla deliberazione del nuovo provvedimento (si vedano, Cass. n. 9764/2021, nonché Cass., Sez. V, 6 agosto 2020, n. 16778); - in forza dell’art. 20, d.p.r. n. 602 del 1973 [1] , il "tasso... annuo" degli interessi è noto e conoscibile perché determinato con provvedimento generale, e i limiti temporali di riferimento ( dies a quo e dies ad quem ) necessari per il calcolo sono anch'essi fissati in elementi cronologici ben individuati ("giorno successivo a quello di scadenza del pagamento" e "data di consegna... dei ruoli", rispettivamente), sicché, nell'ipotesi in cui vengano richiesti gli interessi e le sovrattasse per ritardato o omesso pagamento il contribuente si trova già nella condizione di conoscere i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche della pretesa fiscale, con l'effetto che l'onere di motivazione può considerarsi in questi casi assolto dall'Ufficio mediante mero richiamo alla dichiarazione medesima (Cass., trib., 18 dicembre 2009 n. 26671; Cass., n. 8613/2011) [2] - in tema di riscossione delle imposte sul reddito, la Corte ha espresso il principio per cui "la cartella di pagamento, nell'ipotesi di liquidazione dell'imposta ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36-bis, costituisce l'atto con il quale il contribuente viene a conoscenza per la prima volta della pretesa fiscale e come tale deve essere motivata; tuttavia, nel caso di mera liquidazione dell'imposta sulla base dei dati forniti dal contribuente medesimo nella propria dichiarazione, nonchè qualora vengano richiesti interessi e sovrattasse per ritardato od omesso pagamento, il contribuente si trova già nella condizione di conoscere i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche della pretesa fiscale, con l'effetto che l'onere di motivazione può considerarsi assolto dall'Ufficio mediante mero richiamo alla dichiarazione medesima". (Cass. n. 26671/2009). La Corte, d’altronde, dà conto di un altro indirizzo giurisprudenziale , secondo il quale: - la cartella esattoriale fondata su una sentenza passata in giudicato deve essere motivata nella parte in cui mediante la stessa venga anche richiesto per la prima volta il pagamento di crediti diversi da quelli oggetto dell'atto impositivo oggetto del giudizio, come quelli afferenti gli interessi per i quali deve essere indicato, pertanto, il criterio di calcolo seguito (Cass. n. 21851/2018, n. 28276/2013). - in particolare, "con riferimento alla cartella di pagamento emessa per un debito riconosciuto in una sentenza passata in giudicato, il richiamo alla pronuncia giudiziale e all'atto impositivo su cui la stessa è intervenuta, risulta idoneo ad assolvere all'onere motivazionale solo limitatamente alla parte del credito erariale fatto valere interessato dall'accertamento, divenuto definitivo, compiuto dal giudice, ma non anche alle altre ulteriori voci di credito che non sono state in precedenza richieste; - infatti, relativamente a tali voci, è con la cartella di pagamento che, per la prima volta, viene esercitata la pretesa impositiva, con la conseguenza che il criterio utilizzato per la loro individuazione e quantificazione deve essere ivi esplicitato e posto a conoscenza del contribuente; - in applicazione di tali principi, deve concludersi che la cartella di pagamento emessa per un debito riconosciuto in una sentenza passata in giudicato deve essere motivata in ordine al criterio utilizzato per la quantificazione degli interessi richiesti per la prima volta con tale atto, dal momento che il contribuente dev'essere messo in grado di verificare la correttezza del calcolo degli interessi medesimi (cfr. Cass., ord., 22 giugno 2017, n. 15554; Cass. 21 marzo 2012, n. 4516; Cass. 9 aprile 2009, n. 8651);" (Cass. n. 21851/2018 cit.); - con la sentenza n. 17767/2018 la Corte ha evidenziato che, nel caso ivi esaminato, "il debito scaturiva da una sentenza definitiva della Commissione tributaria centrale (vedi l'incipit della sentenza impugnata), e secondo il superiore principio di diritto la semplice pubblicazione dei tassi d'interesse secondo le modalità previste nel lungo periodo considerato (28 anni) non consentiva al contribuente di comprendere i diversi metodi di calcolo applicati negli anni, ovvero i tassi d'interesse operanti nei periodi considerati, così obbligando il medesimo contribuente ad attingere aliunde le nozioni giuridiche necessarie per ricostruire il metodo seguito dall'ufficio"; - in analoga controversia, la Corte ha confermato la decisione del giudice d'appello, favorevole alla tesi del contribuente, sul rilievo < >. (Cass. n. 15554/2017, ma anche n. 5416/2021 e n. 8611/2009). Conseguentemente, la quinta sezione, pur considerando le peculiarità delle fattispecie scrutinate e quindi la necessità di differenziare l'obbligo di motivazione a seconda del contenuto prescritto per ciascun tipo di atto, ha ritenuto sussistere le condizioni per la rimessione della causa alle Sezioni Unite , stante l'esigenza di ottenere l’enunciazione di un principio di diritto, in funzione nomofilattica rispetto a questione variamente risolta dalla Sezione e che è destinata a riproporsi in numerose controversie. [1] In forza del quale, Sulle imposte o sulle maggiori imposte dovute in base alla liquidazione ed al controllo formale della dichiarazione od all'accertamento d'ufficio si applicano, a partire dal giorno successivo a quello di scadenza del pagamento e fino alla data di consegna al concessionario dei ruoli nei quali tali imposte sono iscritte, gli interessi al tasso del cinque per cento annuo. Nel caso in cui le imposte o le maggiori imposte sono dovute in esecuzione di accordi conclusi con le autorità competenti degli Stati esteri a seguito delle procedure amichevoli interpretative a carattere generale previste dalle Convenzioni contro le doppie imposizioni sui redditi, gli interessi di cui al periodo precedente si applicano a decorrere dalla data dei predetti accordi. [2] Principio affermato con riferimento all'obbligo di motivazione degli atti tributari, previsto...per la cartella di pagamento.