Processo, principi e riforme

Processo, principi e riforme

  • La riforma della giustizia tributaria

    La riforma della Giustizia tributaria


    Il Presidente del Consiglio dei ministri, con lettera in data 6 ottobre 2020, ha trasmesso, ai sensi degli articoli 7, comma 2, lettera b), e 10-bis della legge 31 dicembre 2009, n. 196, la Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza 2020 (Doc. LVII , n. 3-bis).

    A completamento della manovra di bilancio 2020-2022, il Governo ha dichiarato quale collegato alla decisione di bilancio, tra gli altri, il disegno di legge delega della riforma della giustizia tributaria.

    Allo stato, risultano già depositate, in questa legislatura, altre due proposte di legge di iniziativa parlamentare sulla stessa materia:


    CAMERA DEI DEPUTATI

    N. 2283

    PROPOSTA DI LEGGE

    D'INIZIATIVA DEI DEPUTATI

    COLLETTI, VISCOMI

    Delega al Governo per la riforma della giustizia tributaria mediante la soppressione delle commissioni tributarie provinciali e regionali e l'istituzione di sezioni specializzate in materia tributaria presso i tribunali e le corti di appello

    Presentata il 29 novembre 2019

    ______________

    CAMERA DEI DEPUTATI

    N. 2526

    PROPOSTA DI LEGGE

    d'iniziativa del deputato DEL BASSO DE CARO

    Delega al Governo per la riforma della giustizia tributaria

    Presentata il 28 maggio 2020


    Successivamente, il Governo, in data 5 ottobre 2021, ha approvato un ulteriore disegno di legge delega, attualmente in discussione in Parlamento:

    TESTO DELLA BOZZA 


    Il disegno di legge è stato approvato con Legge n. 130 del 31 agosto 2022 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 1° settembre 2022 e in vigore dal 16 settembre 2022)

    https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2022/09/01/22G00141/sg



  • La riforma ordinamentale della magistratura

    La riforma ordinamentale della magistratura


    Atto Camera: 2681

    Disegno di legge: "Deleghe al Governo per la riforma dell'ordinamento giudiziario e per l'adeguamento dell'ordinamento giudiziario militare, nonché disposizioni in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura" (2681)


    Il disegno di legge è stato approvato con Legge del 17 giugno 2022, n. 71 [GU n. 142 del 20 giugno 2022]

    https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2022/06/20/22G00084/sg


  • Il processo amministrativo

  • La riforma del processo penale

    Delega al Governo per l'efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti d'appello


    Disegno di legge presentato il 13 marzo 2020, in esame alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati

    (sintesi del testo)


      Il testo è articolato in quattro capi.

      Il capo I contiene deleghe al Governo per l'efficienza del processo penale.

      Il capo II contiene disposizioni precettive che modificano il codice penale in materia di disciplina della prescrizione.

      Il capo III contiene norme immediatamente precettive che prevedono misure straordinarie per la celere definizione e per il contenimento della durata dei procedimenti pendenti presso le corti di appello.

      Il capo IV contiene le disposizioni finanziarie.


      L'articolo 1 del disegno di legge delega il Governo all'adozione di uno o più decreti legislativi attraverso i quali dovrà essere attuata la riforma. Lo stesso articolo disciplina il procedimento di esercizio della delega. Viene previsto che gli schemi dei decreti siano trasmessi alle Camere, perché su di essi sia espresso il parere delle Commissioni parlamentari competenti per materia e per i profili finanziari entro il termine di sessanta giorni dalla data della ricezione. Decorso il predetto termine i decreti potranno essere emanati anche in mancanza dei pareri. Nell'esercizio della delega il Governo dovrà conformarsi ai princìpi e criteri direttivi, suddivisi per aree tematiche e settori di intervento, di cui agli articoli 2 e seguenti.

      L'articolo 2 detta i princìpi e criteri direttivi per l'efficienza dei procedimenti penali e per la riforma del sistema delle notificazioni all'imputato, con norme che trovano applicazione anche alla persona sottoposta alle indagini, per effetto della regola generale di cui all'articolo 61 del codice di procedura penale.

      Sul primo versante, allo scopo di rendere il processo penale più celere ed efficiente, si prevede che il deposito di atti e documenti possa essere effettuato con modalità telematiche, demandandosi ad un decreto del Ministro della giustizia l'individuazione degli uffici giudiziari e della tipologia degli atti per i quali il deposito telematico è obbligatorio. Analogamente, si prevede che siano eseguite con modalità telematica, anche mediante soluzioni tecnologiche diverse dalla posta elettronica certificata, le comunicazioni e le notificazioni a persona diversa dall'imputato [comma 1, lettere a), b), d), e), f), g), h) e i)].

      Viene al contempo previsto che, nel caso di deposito telematico obbligatorio, spetti al capo dell'ufficio autorizzare il deposito con modalità non telematiche, subordinando tale autorizzazione alla presenza di disfunzioni dei sistemi informatici del dominio «giustizia» e alla sussistenza di una situazione d'urgenza, assicurando che agli interessati sia data conoscenza adeguata e tempestiva anche dell'avvenuta riattivazione del sistema [lettera c)].

      In relazione, invece, alla delega per la riforma del sistema delle notificazioni, si dispone che solo la prima notificazione avvenga per il tramite di un contatto personale o ravvicinato con l'accusato, secondo la disciplina già oggi dedicata alla prima notificazione all'imputato dagli articoli 156 e 157 del codice di procedura penale; tutte le notificazioni successive alla prima, invece, saranno eseguite presso il difensore, anche con modalità telematiche. Al contempo, si prevede che – al di fuori dei casi di elezione o dichiarazione di domicilio di cui agli articoli 161 e 162 del codice di procedura penale – ove il difensore non sia fiduciario e la prima notifica non sia avvenuta attraverso la consegna a mani dell'imputato o a persona stabilmente convivente con lo stesso (o al portiere), siano introdotte deroghe al meccanismo semplificato di notificazione degli atti; ciò al fine di limitare tale forma di partecipazione degli atti ai soli casi in cui tra l'imputato e il professionista sussista un rapporto tendenzialmente solido o, comunque, la possibilità concreta di intrattenere un rapporto effettivo, per avere l'interessato ricevuto la prima notifica a mani proprie o, in ogni caso, con modalità tali da assicurargli la reale conoscenza dell'atto e, con essa, la possibilità di mettersi in contatto con il legale [lettera l)].

      Il legale non potrà rifiutare le notificazioni presso il suo studio. A suo beneficio, tuttavia, è prevista l'introduzione di un sistema di esenzione da responsabilità professionale ove sia imputabile al cliente ogni eventuale difetto di comunicazione [lettera n)]. La responsabilizzazione dell'interessato, poi, risulta rafforzata dall'onere, per l'imputato che abbia ricevuto la prima notificazione, di indicare al difensore un recapito idoneo ove effettuare ogni successiva comunicazione [lettera m)].

      I princìpi e criteri direttivi per le modifiche al codice di procedura penale in materia di indagini e di udienza preliminare sono enunciati all'articolo 3.

      In primo luogo [comma 1, lettere a) e i)], si demanda al legislatore delegato la definizione di regole di giudizio più rigorose per l'esercizio dell'azione penale da parte del pubblico ministero e per la pronunzia del decreto che dispone il giudizio da parte del giudice dell'udienza preliminare. In entrambi i casi – rispettivamente disciplinati dall'articolo 125 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, e dall'articolo 425, comma 3, del codice di procedura penale – si intende evitare la celebrazione di processi penali sulla base di elementi che non siano sufficienti per giustificare una condanna. Si prevede, in tal senso, che sia richiesta (e disposta) l'archiviazione o che non sia disposto il giudizio (ma emessa sentenza di non luogo a procedere) quando gli elementi acquisiti risultino insufficienti, contraddittori o comunque non consentano una ragionevole previsione di accoglimento della prospettazione accusatoria in giudizio. Non sarà più richiesta la sola sostenibilità dell'accusa in giudizio quale parametro per l'esercizio dell'azione penale o per il rinvio a giudizio, ma occorrerà che il pubblico ministero e il giudice dell'udienza preliminare siano in grado di prevedere che il giudizio dibattimentale si concluda con una sentenza di condanna del responsabile.

      Lo stesso articolo 3, inoltre, delega al Governo un intervento volto a riformare i termini di durata delle indagini preliminari, modulando gli stessi in funzione della differente gravità dei reati per cui si procede.

      Il disegno di legge di delega prevede, altresì, una procedura di deposito degli atti di indagine, nel caso in cui il pubblico ministero non abbia notificato l'avviso di conclusione delle indagini preliminari o non abbia avanzato richiesta di archiviazione entro stringenti termini decorrenti dalla scadenza della durata massima delle indagini preliminari [lettera e)]. Tale previsione consente agli interessati di prendere visione degli atti dell'indagine preliminare dopo la scadenza dei relativi termini, anche prima che il pubblico ministero abbia assunto le proprie determinazioni in ordine all'esercizio dell'azione penale.

       Viene inoltre introdotta la responsabilità disciplinare del pubblico ministero che, dopo la notificazione dell'avviso di deposito, ometta di formulare la richiesta di archiviazione o di esercitare l'azione penale entro il termine di trenta giorni dalla presentazione della richiesta del difensore della persona sottoposta alle indagini o della parte offesa, fatte salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato [lettere f) e g)].

      Sempre con riferimento ai procedimenti penali nella fase delle indagini preliminari, si prevede, quale dovere istituzionale del procuratore della Repubblica, la redazione di criteri di priorità per ciascun ufficio, previa interlocuzione con il procuratore generale presso la corte d'appello e con il presidente del tribunale. I criteri, confluendo nei progetti organizzativi, dovranno tenere conto dei princìpi elaborati in materia dal Consiglio superiore della magistratura nonché delle specificità proprie delle realtà territoriali e delle risorse, personali e reali, disponibili [lettera h)]. Si rende in tal modo obbligatoria, la formulazione di criteri per la trattazione dei procedimenti nell'ambito delle procure della Repubblica, così disciplinando un adempimento che attualmente, secondo le circolari elaborate in materia dal Consiglio superiore della magistratura, rappresenta un potere del procuratore. Con la lettera l), infine, è previsto un meccanismo di verifica giudiziale, su richiesta di parte, della tempestività nell'iscrizione delle notizie di reato, al fine di rendere ineludibile il termine di durata massima delle indagini preliminari.

      L'articolo 4 del disegno di legge di delega enuncia i princìpi e criteri direttivi che il Governo dovrà seguire nell'esercizio della delega con riferimento alla disciplina dei procedimenti speciali, alternativi al dibattimento, che si è inteso incentivare.

      La lettera a) del comma 1 dell'articolo 4 ha ad oggetto l'applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell'articolo 444, comma 1, del codice di procedura penale. Allo scopo di incentivare il ricorso a tale procedimento speciale e, dunque, con un'evidente finalità deflativa del contenzioso, si aumenta ad otto anni di reclusione, sola o congiunta a pena pecuniaria, il limite di pena applicabile su richiesta. Al contempo, tuttavia, si prevede, rispetto all'accesso a questo ulteriore segmento di cosiddetto «patteggiamento allargato» (per la fascia di pena superiore a cinque anni di reclusione), l'estensione delle preclusioni oggettive, individuate in relazione a fattispecie di reato che si connotano per gravità e particolare allarme sociale.

      La lettera b) riguarda il giudizio abbreviato. Allo scopo di valorizzare il giudizio abbreviato condizionato si è specificato, rispetto ai presupposti, che la valutazione del criterio dell'economicità dell'integrazione probatoria debba sempre assumere quale parametro il risparmio di tempi della fase dibattimentale che il rito consente di evitare, fermo restando comunque il presupposto della necessità dell'integrazione richiesta ai fini dell'ammissione del rito.

      Con riferimento al giudizio immediato [lettera c)] si è previsto di introdurre la possibilità di avanzare richiesta di riti alternativi ulteriori in caso di rigetto dell'istanza presentata entro i termini previsti.

      Quanto, infine, al decreto penale di condanna [lettera d)], anche per omogeneità con le nuove previsioni sui termini di durata delle indagini preliminari, si è previsto di ampliare fino a un anno dall'iscrizione della notizia di reato il limite temporale entro il quale la relativa richiesta deve essere depositata.

      L'articolo 5 è dedicato ai princìpi e criteri direttivi che dovranno presiedere agli interventi sul giudizio dibattimentale.

      In primo luogo, sempre che il dibattimento non possa concludersi in un'unica udienza, dovrà essere previsto che il giudice, una volta adottata l'ordinanza sull'ammissione delle prove, fissi il calendario delle udienze che saranno dedicate all'istruzione dibattimentale e alla discussione finale [comma 1, lettera a)].

      Per consentire al giudice una valutazione adeguata ai fini della decisione in ordine alle prove, a norma degli articoli 190, comma 1, e 190-bis del codice di procedura penale, viene reintrodotta, dopo la dichiarazione di apertura del dibattimento, la relazione illustrativa delle parti sulle richieste istruttorie rispettivamente formulate [lettera b)]. Viene altresì previsto che la rinunzia di una parte all'assunzione delle prove ammesse a sua richiesta non sia condizionata al consenso delle altre parti [lettera c)].

      Si interviene [lettera e)] anche sulla disciplina della rinnovazione del dibattimento nel processo davanti al tribunale, nel caso di mutamento della persona fisica di uno dei componenti del collegio. In tale ipotesi, qualora sia richiesto l'esame di un testimone o di una delle persone indicate nell'articolo 210 del codice di procedura penale e questi abbia già reso dichiarazioni in dibattimento nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate, viene resa applicabile la regola attualmente dettata dall'articolo 190-bis dello stesso codice, che prevede la rinnovazione dell'esame solo se riguarda fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni ovvero se il giudice o taluna delle parti lo ritengono necessario sulla base di specifiche esigenze.

      Infine si prescrive [lettera f)] che sia integrato il vigente articolo 132-bis delle norme di attuazione del codice di procedura penale mediante l'inclusione dei processi relativi ai delitti colposi di comune pericolo nell'ambito dei procedimenti a trattazione prioritaria.

      Per quanto riguarda specificamente il giudizio innanzi al tribunale in composizione monocratica, l'articolo 6 demanda al Governo il compito di prevedere e disciplinare una sort di udienza-filtro, che dovrà essere tenuta innanzi a un giudice diverso da quello innanzi al quale dovrà celebrarsi il dibattimento, per valutare, sulla base degli atti presenti nel fascicolo del pubblico ministero, se il dibattimento debba essere celebrato o se, al contrario, debba intervenire immediatamente una pronuncia di sentenza di non luogo a procedere perché sussiste una causa che estingue il reato o per la quale l'azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita, perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, perché risulta che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o che si tratta di persona non punibile per qualsiasi causa o in quanto gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non consentono l'accoglimento della prospettazione accusatoria in giudizio [comma 1, lettera a)].

      L'articolo 7 contiene la delega per alcune modifiche del giudizio di appello.

      In primo luogo, si prevede che il difensore possa impugnare la sentenza solo se munito di specifico mandato a impugnare, rilasciato successivamente alla pronunzia della sentenza stessa [comma 1, lettera a)].

      Si interviene, sotto altro riguardo, anche sulle modalità di presentazione dell'atto d'impugnazione [lettera b)]: al fine di eliminare le disfunzioni e i ritardi conseguenti alla possibilità, concessa dalla normativa vigente, di depositare l'atto di impugnazione anche presso la cancelleria di un ufficio diverso da quello del giudice che ha emesso il provvedimento (articolo 582, comma 2, del codice di procedura penale) o di spedirlo per posta (articolo 583 del codice di procedura penale), viene data delega al Governo al fine di modificare tale disciplina, abrogando le disposizioni che consentono le indicate modalità di presentazione dell'impugnazione e introducendo la possibilità di trasmissione e deposito dell'atto per via telematica.

      La proposta mira, poi, ad ampliare il catalogo delle sentenze inappellabili da parte sia del pubblico ministero sia delle parti private.

      Ulteriore proposta volta ad accelerare i procedimenti di secondo grado è la previsione della competenza della corte d'appello in composizione monocratica nei procedimenti a citazione diretta [lettera f)]. 

      Risponde a intenti di razionalizzazione e semplificazione anche l'alleggerimento delle forme del giudizio di appello, che si prevede possa essere svolto, qualora ne faccia richiesta l'imputato o il suo difensore, con rito camerale non partecipato nei procedimenti di impugnazione innanzi alla corte d'appello in composizione monocratica, secondo il modello previsto per il giudizio di cassazione dal vigente articolo 611 del codice di procedura penale [lettera g)]. Analogamente, si prevede la forma del rito camerale non partecipato, ove ne faccia richiesta l'imputato o il suo difensore, nei casi in cui già si procede con udienza in camera di consiglio ai sensi dell'articolo 599 del codice di procedura penale, ossia quando l'appello ha esclusivamente per oggetto la specie o la misura della pena, anche con riferimento al giudizio di comparazione fra circostanze, o l'applicabilità delle circostanze attenuanti generiche, di sanzioni sostitutive, della sospensione condizionale della pena o della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale [lettera h)]. In ambedue le ipotesi, viene fatta salva la necessità della partecipazione delle parti nel caso in cui occorra la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale.

      L'articolo 8 del disegno di legge di delega fissa princìpi e criteri direttivi cui il Governo dovrà adeguarsi nell'esercizio della delega in materia di condizioni di procedibilità.

      In primo luogo, è previsto che sia ripristinata la procedibilità a querela per il reato di lesioni personali colpose gravi previsto dall'articolo 590-bis, primo comma, del codice penale [comma 1, lettera a)].

      Ulteriori princìpi e criteri direttivi in materia di procedibilità sono funzionali a garantire la serietà della volontà punitiva manifestata dalla persona offesa con la querela. La previsione di un'ipotesi tipica di remissione tacita della querela nel caso di ingiustificata mancata comparizione del querelante all'udienza dibattimentale cui sia stato citato in qualità di testimone [lettera c)] si accompagna, per garantire certezza nelle comunicazioni e nelle citazioni, al principio in forza del quale nell'atto di querela è richiesta la dichiarazione o l'elezione del domicilio per le notificazioni, ammettendosi a tale fine anche l'indicazione di un indirizzo di posta elettronica certificata [lettera b)].

      Al fine di agevolare l'applicazione delle sanzioni sostitutive, limitare le impugnazioni strumentali e, indirettamente, facilitare l'accesso a riti alternativi quale, in primis, l'applicazione della pena su richiesta di parte, l'articolo 9 del disegno di legge di delega interviene prescrivendo la revisione dei criteri di ragguaglio della pena detentiva alla pena pecuniaria, diminuendo l'attuale misura di euro 250 per ogni giorno di pena detentiva, da sostituire con un importo inferiore, determinato comunque in una somma non superiore a euro 180.

      L'articolo 10 del disegno di legge enuncia princìpi e criteri direttivi cui il Governo dovrà conformarsi nell'esercizio della delega in materia di contravvenzioni. In particolare, il Governo dovrà individuare un gruppo di reati contravvenzionali in relazione ai quali, fermo restando per la polizia giudiziaria l'obbligo di riferire al pubblico ministero la notizia di reato, il procedimento penale è sospeso fino alla scadenza del termine che sarà concesso al contravventore per l'adempimento delle prescrizioni impostegli al fine di elidere le conseguenze dannose o pericolose del reato e per il pagamento di una somma di denaro (con possibilità, in alternativa, della prestazione di lavoro di pubblica utilità), secondo un modello di estinzione del reato già sperimentato per le contravvenzioni in materia di sicurezza sul lavoro e in materia ambientale. Viene anche prevista la possibilità di accordare una riduzione di pena nel caso di adempimento tardivo.

      L'articolo 11 contiene un criterio di delega per l'adeguamento della disciplina processuale ai princìpi della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, con i relativi Protocolli, in materia di controllo giurisdizionale della legittimità della perquisizione. Si prevede, a tal fine, l'introduzione di uno strumento di impugnazione del decreto di perquisizione e del decreto di convalida della perquisizione su iniziativa della polizia giudiziaria, anche quando a essa non consegua un provvedimento di sequestro. 

      L'articolo 12 delega il Governo a disciplinare la durata dei processi, nei vari gradi del giudizio, responsabilizzando i magistrati affinché, nell'esercizio delle rispettive funzioni (ossia quale assegnatario del procedimento, quale presidente del collegio o quale dirigente della sezione o dell'ufficio), adottino strumenti organizzativi volti ad assicurare il rispetto di specifici termini di durata del processo: i termini previsti dalla legge 24 marzo 2001, n. 89 (cosiddetta «legge Pinto») per i procedimenti per i più gravi reati contro la pubblica amministrazione e l'economia; un anno per il primo grado, due anni per il secondo grado, un anno per il giudizio di legittimità nei procedimenti per i reati di cui all'articolo 33-ter del codice di procedura penale (attribuiti al tribunale in composizione monocratica); due anni per il primo grado, due anni per il secondo grado, un anno per il giudizio di legittimità nei procedimenti per i reati di cui all'articolo 33-bis del codice di procedura penale (attribuiti al tribunale in composizione collegiale).

      Detti termini, peraltro, potranno essere stabiliti in misura diversa dal Consiglio superiore della magistratura, sentito il Ministro della giustizia, in relazione a ciascun ufficio, con cadenza biennale, tenendo conto delle pendenze, delle sopravvenienze, della natura dei procedimenti e della loro complessità, delle risorse disponibili e degli ulteriori dati risultanti dai programmi di gestione redatti dai capi degli uffici giudiziari. Con tale previsione, quindi, si rimette l'effettiva individuazione dei tempi di definizione dei procedimenti a una valutazione concreta, tarata sulle specificità dei singoli uffici, da compiere, con cadenza ravvicinata, ad opera del Consiglio superiore della magistratura, anche con il coinvolgimento del Ministro della giustizia.

        L'articolo 13, in collegamento con la sospensione del corso della prescrizione in grado di appello, contiene la delega al Governo ad adottare misure normative per garantire la celere trattazione dei giudizi di impugnazione avverso le sentenze di condanna. Si prevede, a tale fine, che ogni parte possa presentare istanza di immediata definizione del processo, allorché siano decorsi i termini di durata dei giudizi in grado di appello e in cassazione, come determinati ai sensi dell'articolo precedente; in tal caso, il processo deve essere definito nei sei mesi successivi all'istanza. A detti termini, in ogni caso, si aggiunge l'eventuale periodo di tempo nel quale il processo è sospeso ai sensi dell'articolo 159, primo comma, del codice penale e, nel giudizio d'appello, anche il periodo di tempo occorrente per l'eventuale rinnovazione dell'istruzione dibattimentale.

      Anche in questo caso, all'adozione delle indicate scansioni temporali segue l'obbligo del dirigente dell'ufficio giudiziario di adottare ogni misura organizzativa idonea a consentire il rispetto del termine di sei mesi e, per i magistrati assegnatari del procedimento, quello di definire il procedimento nel medesimo termine: questi obblighi sono assistiti da responsabilità disciplinare nel caso di inottemperanza dovuta a negligenza inescusabile.

      

      Il capo II contiene disposizioni che modificano il codice penale.

       L'intervento normativo, compendiato nell'articolo 14, è finalizzato ad incidere sull'articolo 159 del codice penale, come risultante dalle modifiche apportate con l'articolo 1 della legge 9 gennaio 2019, n. 3, che ha introdotto il principio di generalizzata sospensione della prescrizione dopo la pronuncia della sentenza di primo grado o del decreto di condanna e fino alla data della loro esecutività.

      La modifica aveva lo scopo di evitare che i reati rispetto ai quali lo Stato ha manifestato un concreto interesse al loro accertamento, tanto da essere giunto, nel processo, fino all'adozione di un provvedimento di primo grado, andassero esenti da un giudizio definitivo sulla loro sussistenza in conseguenza del solo decorso del tempo. Una situazione, questa, che nel precedente regime della prescrizione poteva indurre gli imputati a rinunciare ai riti speciali e a prolungare al massimo i tempi di conclusione del processo, coltivando impugnazioni, anche pretestuose, al fine di godere del maturare del termine di prescrizione, con estinzione del reato.

      In questa stessa logica si è ritenuto corretto, quindi, valorizzare la differenza di posizione tra coloro nei cui confronti l'interesse dello Stato al perseguimento dei reati contestati si è concretizzato in un provvedimento di accertamento (pur non definitivo) della loro responsabilità e coloro i quali, invece, sono stati assolti. In tal senso si spiega la modifica al secondo comma dell'articolo 159 del codice penale, con la previsione che il corso della prescrizione sia sospeso solo per le sentenze di condanna (oltre che per i decreti penali). L'effetto sospensivo generalizzato di cui all'articolo 159, secondo comma, resta invece precluso per le sentenze di assoluzione.

      Rispetto a questa innovazione, tuttavia, permane l'esigenza che, anche in relazione alla pronuncia di proscioglimento, sia comunque evitato il rischio che i reati oggetto del procedimento possano estinguersi per prescrizione, senza che vi sia il tempo per compiere una rivalutazione nel merito della decisione assolutoria adottata. A tal fine, si introduce un'ipotesi limitata e selettiva di sospensione della prescrizione a seguito di impugnazione della sentenza di proscioglimento: sospensione limitata alla durata massima di un anno e sei mesi in relazione al giudizio di appello e di sei mesi in relazione al giudizio di cassazione, nel solo caso in cui per uno dei reati per cui si procede la prescrizione maturi entro un anno dalla scadenza del termine concesso per il deposito della sentenza di primo grado. Ciò allo scopo di consentire agli uffici giudiziari di disporre di un lasso di tempo congruo – anche alla luce della complessiva riforma del processo penale – per pervenire a rivalutare, eventualmente, il precedente giudizio di assoluzione, evitando il rischio che quella rivalutazione non si possa compiere per lo spirare del termine di prescrizione.

      Per questa stessa ragione si è altresì precisato che anche rispetto ai termini ora indicati operano le ulteriori cause di sospensione di cui al primo comma dell'articolo 159 del codice penale.

      Infine, la modifica illustrata introduce anche un meccanismo volto a perequare la condizione dell'imputato condannato in primo grado, che venga successivamente assolto in grado di appello, con quella dell'imputato assolto in primo grado. Infatti, oltre a prevedere che dopo l'assoluzione in grado di appello la prescrizione riprenda il suo corso, si è anche stabilito che in questo caso i periodi di sospensione conseguiti all'applicazione del secondo comma dell'articolo 159 del codice penale siano computati (ex post) ai fini della determinazione del tempo necessario al maturare della prescrizione. Analoga modalità di recupero del periodo di sospensione ai fini prescrizionali viene prevista per il caso di doppia conferma assolutoria.


      Il capo III del disegno di legge, composto da tre articoli, contiene disposizioni concernenti l'arretrato penale presso le corti d'appello e la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti.

      L'articolo 15 reca misure straordinarie per la definizione dell'arretrato penale presso le corti di appello e introduce, con norma immediatamente precettiva, modifiche al decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, nella parte riguardante la disciplina dei giudici ausiliari in appello.

      Viene innanzitutto estesa – al fine di concorrere, sul piano delle risorse, alla definizione dell'arretrato penale presso le corti d'appello – la finalità della predetta disciplina, prevedendo l'utilizzo dei giudici ausiliari anche nei procedimenti penali. Si stabilisce inoltre l'ampliamento, nella misura di 500 unità, del contingente previsto dei giudici ausiliari scelti tra magistrati ordinari, contabili e amministrativi e avvocati dello Stato a riposo, professori universitari di prima e seconda fascia, anche a tempo definito o a riposo, ricercatori universitari, nonché avvocati e notai anche a riposo. Si determina così un contingente complessivo di 850 unità, da ripartire presso le singole corti d'appello mediante una nuova adozione del decreto di determinazione delle piante organiche, previsto dall'articolo 65, comma 1, del decreto-legge n. 69 del 2013.

        L'articolo 16 autorizza infine assunzioni straordinarie per favorire il migliore funzionamento degli uffici giudiziari in funzione della celere definizione dei processi e del contenimento della durata dei procedimenti giudiziari pendenti.


    Il disegno di legge è stato approvato con Legge del 27.9.2021 n. 134 [GU 4.10.21 n. 237, in vigore dal 19 ottobre 2021]

    https://www.gazzettaufficiale.it/eli/gu/2021/10/04/237/sg/pdf


      

  • Disposizioni in materia di "class action"

    Il 19 maggio 2021 sono finalmente entrate in vigore le nuove disposizioni in materia di azione di classe.

    Dopo il titolo VIII del libro quarto  del  codice  di  procedura civile è stato aggiunto il titolo VIII-bis "dei procedimenti collettivi".

    Al fine di tutela dei  diritti  individuali omogenei un'organizzazione o un'associazione senza  scopo  di lucro i cui obiettivi statutari comprendano la  tutela  dei  predetti diritti (o ciascun componente della classe) possono  agire nei  confronti dell'autore  della  condotta   lesiva per l'accertamento   della responsabilità e per la condanna al risarcimento del  danno e alle restituzioni. 

    All'interno degli enti collettivi sopra citati possono promuovere l'azione in esame esclusivamente le organizzazioni e le associazioni iscritte in un elenco pubblico istituito presso il Ministero della giustizia. 

    Soggetti passivi dell'azione di classe sono le imprese o gli enti gestori di servizi  pubblici o  di

    pubblica utilità relativamente ad atti  e comportamenti  posti  in essere nello svolgimento delle loro rispettive attività.  

    Non è ammesso l'intervento dei terzi. 

    Nel caso in cui, a seguito di accordi transattivi o conciliativi intercorsi tra  le  parti,  vengano  a mancare  in  tutto  le  part ricorrenti, il  tribunale assegna  agli  aderenti  un  termine,  non inferiore a sessanta giorni e non superiore a novanta giorni, per  la prosecuzione della causa, che deve avvenire con  la  costituzione  in giudizio di almeno uno degli aderenti mediante  il  ministero di un difensore.

    Nel caso in cui, decorso inutilmente il termine sopra descritto, non  avvenga  la  prosecuzione  del procedimento,  il tribunale ne dichiara l'estinzione. A seguito dell'estinzione,  resta comunque  salvo  il  diritto  all'azione  individuale dei   soggetti aderenti oppure all'avvio di una nuova azione di classe. 

    La domanda per l'azione di classe si propone con ricorso esclusivamente  davanti alla sezione specializzata in materia di impresa  competente per  il luogo ove ha sede la parte resistente. 

    Il ricorso, unitamente al decreto di fissazione dell'udienza,  è pubblicato, a cura  della cancelleria ed  entro  dieci  giorni  dal deposito del decreto, nell'area  pubblica  del portale  dei  servizi telematici  gestito  dal Ministero della  giustizia,  in  modo   da assicurare  l'agevole reperibilità  delle  informazioni   in   esso contenute. 

    Il procedimento è regolato dal rito sommario  di cognizione  di cui agli articoli 702-bis e seguenti del codice di procedura civile ed è  definito  con  sentenza, resa nel termine di trenta giorni successivi alla  discussione  orale della causa. Non può essere disposto il mutamento del rito. Entro il termine di trenta giorni dalla prima udienza il tribunale decide  con ordinanza sull'ammissibilità della domanda, ma può sospendere  il giudizio quando sui fatti rilevanti ai fini del decidere è in corso un'istruttoria davanti a un'autorità indipendente ovvero un giudizio davanti al giudice amministrativo.  

    La domanda è dichiarata inammissibile: 

     a) quando è manifestamente infondata; 

     b) quando il tribunale  non  ravvisa  omogeneità dei  diritti individuali tutelabili; 

     c)  quando  il  ricorrente  versa  in  stato  di  conflitto  di interessi nei confronti del resistente; 

     d)  quando  il  ricorrente  non  appare  in  grado  di   curare adeguatamente  i  diritti  individuali omogenei  fatti   valere  in giudizio. 

    Quando l'inammissibilità è dichiarata per manifesta infondatezza, il ricorrente può riproporre l'azione di classe quando si siano verificati mutamenti delle  circostanze  o vengano dedotte nuove ragioni di fatto o di diritto. 

    L'ordinanza che decide sull'ammissibilità dell'azione di  classe è reclamabile dalle parti davanti alla corte di appello nel  termine di trenta giorni dalla sua comunicazione o dalla  sua notificazione se anteriore. 

    In caso di accertamento dell'ammissibilità della domanda, la corte di appello trasmette gli atti al tribunale adito  per  la  prosecuzione  della causa. Il reclamo  avverso  le ordinanze ammissive  non sospende  il   procedimento   davanti  al tribunale. 

    Decorsi sessanta giorni dalla data di  pubblicazione del  ricorso  nell'area pubblica del portale  dei servizi  telematici di  cui  all'articolo 840-ter, secondo comma c.p.c., non possono essere proposte ulteriori  azioni di classe sulla base dei medesimi fatti e nei confronti del  medesimo resistente e quelle proposte sono cancellate dal ruolo. Le azioni di classe proposte tra la data di deposito del ricorso e il  termine  d cui al primo periodo sono riunite all'azione principale. 

    E' fatta salva la proponibilità delle azioni di classe a tutela dei diritti che non potevano essere fatti valere entro la citata scadenza di sessanta giorni.

    Con  l'ordinanza  con  cui ammette l'azione di classe, il tribunale fissa un termine perentorio non inferiore a sessanta giorni  e non  superiore  a centocinquanta giorni dalla data di pubblicazione dell'ordinanza  nel  portale  dei servizi telematici di cui all'articolo 840-ter, secondo  comma,  per l'adesione all'azione medesima da parte  dei soggetti  portatori  di diritti individuali  omogenei.

    L'aderente non  assume  la qualità di parte e ha diritto ad accedere al fascicolo informatico e a ricevere tutte le comunicazioni a cura della cancelleria. I diritti di coloro che aderiscono nel termine fissato dal tribunale sono  accertati successivamente alla pronuncia della sentenza che accoglie  l'azione di classe. 

    Il  tribunale,  omessa  ogni   formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che  ritiene  più  opportuno  agli atti di istruzione rilevanti in relazione all'oggetto del giudizio. 

    Ai fini dell'accertamento della responsabilità del resistente il tribunale  può  avvalersi  di  dati statistici  e  di   presunzioni semplici

    Su istanza motivata del ricorrente, contenente l'indicazione  di fatti  e  prove  ragionevolmente   disponibili   dalla   controparte, sufficienti a sostenere la plausibilità della  domanda, il giudice può ordinare al resistente l'esibizione delle  prove rilevanti  cherientrano nella sua disponibilità. 

    Quando la richiesta o l'ordine di esibizione  hanno per  oggetto informazioni riservate,  il  giudice dispone specifiche  misure  di tutela tra le quali, ad esempio, l'obbligo del segreto, e la possibilità di  non rendere visibili le parti riservate di un documento, o la conduzione di audizioni a porte chiuse.

    Si considerano informazioni riservate  i  documenti che  contengono informazioni  riservate  di carattere personale, commerciale, industriale e finanziario  relative a persone ed imprese, nonchè i segreti commerciali. 

    Alla parte che rifiuta senza giustificato  motivo  di rispettare l'ordine di esibizione del giudice  o non adempie allo stesso il giudice applica una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 a euro 100.000 che è devoluta a favore della Cassa delle ammende. 

    Ferma  restando  l'applicazione  delle  sanzioni   amministrative pecuniarie,  se  la  parte rifiuta senza  giustificato  motivo  di   rispettare  l'ordine  di esibizione del giudice o non adempie allo stesso, ovvero  distrugge prove rilevanti ai fini del giudizio di  risarcimento,  il  giudice, valutato ogni elemento di prova, può ritenere provato il  fatto al quale la prova si riferisce. 

    Il tribunale  accoglie  o  rigetta  nel  merito  la domanda  con sentenza che deve essere pubblicata nell'area  pubblica  del  portale dei servizi telematici di cui all'articolo  840-ter, secondo  comma c.p.c. entro quindici giorni dal deposito. 

    Con la sentenza che accoglie l'azione di classe, il tribunale: 

          a) provvede in ordine alle domande risarcitorie o  restitutorie proposte dal ricorrente, quando l'azione  e'  stata  proposta  da  un soggetto diverso da un'organizzazione o da  un'associazione inserita nel prescritto elenco; 

          b) accerta che il resistente, con la condotta addebitatagli dal ricorrente, ha leso diritti individuali omogenei; 

          c) definisce i caratteri dei diritti  individuali omogenei  di cui  alla  lettera  b),  specificando  gli elementi  necessari   per l'inclusione nella classe dei soggetti di cui alla lettera e); 

          d) stabilisce la documentazione che deve essere eventualmente prodotta per fornire prova della titolarità dei diritti  individuali omogenei di cui alla lettera b); 

          e) dichiara aperta la procedura di adesione e fissa il  termine perentorio, non  inferiore  a sessanta  giorni  e  non  superiore  a centocinquanta giorni, per l'adesione all'azione di classe  da  parte dei soggetti portatori di diritti individuali omogenei  di  cui  alla lettera b) nonchè per l'eventuale integrazione degli atti e  per  il compimento delle attività da parte di coloro che hanno aderito entro il termine stabilito dal giudice con  l'ordinanza  con  cui ha amesso l'azione di classe; 

          f) nomina il giudice delegato per la procedura di adesione; 

          g)  nomina  il  rappresentante  comune degli aderenti  tra  i soggetti aventi i requisiti per la nomina a curatore fallimentare; 

          h) determina, ove necessario, l'importo da versare  a  cura  di ciascun aderente, a titolo di fondo  spese  e stabilisce le modalità di versamento. 

    Il rappresentante comune degli aderenti e' pubblico ufficiale. 

    L'adesione all'azione di classe si propone mediante inserimento della relativa domanda nel fascicolo informatico e deve contenere,  a  pena  di inammissibilità, deve contenere: 

          a) l'indicazione del tribunale e i dati relativi all'azione  di classe a cui il soggetto chiede di aderire; 

          b) i dati identificativi dell'aderente; 

          c) l'indirizzo  di  posta  elettronica  certificata  ovvero  il servizio   elettronico   di    recapito    certificato    qualificato dell'aderente o del suo difensore; 

          d) la determinazione dell'oggetto della domanda; 

          e) l'esposizione dei fatti costituenti le ragioni della domanda di adesione; 

          f) l'indice dei documenti probatori eventualmente prodotti; 

          g) la seguente attestazione: "Consapevole della responsabilità penale  prevista  dalle  disposizioni in  materia  di  dichiarazioni sostitutive, attesto che i dati e i fatti esposti nella domanda e nei documenti prodotti sono veritieri"; 

          h) il conferimento al  rappresentante  comune  degli  aderenti, già nominato o  che  sarà nominato dal  giudice,  del  potere  di rappresentare l'aderente e di compiere nel suo  interesse  tutti  gli

    atti, di natura sia sostanziale sia processuale, relativi al  diritto individuale omogeneo esposto nella domanda di adesione; 

          i) i dati necessari per l'accredito delle  somme  che  verranno eventualmente riconosciute in favore dell'aderente; 

          l) la dichiarazione di aver provveduto al versamento del  fondo spese di cui all'articolo 840-sexies, primo comma, lettera h) c.p.c.. 

    La  domanda  di  adesione  produce  gli  effetti  della   domanda giudiziale e può essere presentata anche senza il  ministero  di  un difensore

    L'adesione diventa inefficace in caso di  revoca  del potere  di rappresentanza conferito al rappresentante comune. L'inefficacia opera di diritto  ed  è  rilevabile d'ufficio.

    Nella  procedura  di adesione  non  sono  ammessi mezzi  di  prova  diversi  dalla  prova documentale

    Il giudice delegato, con decreto  motivato,  quando accoglie  in tutto o in parte la domanda di adesione, condanna il resistente al pagamento delle somme o delle cose dovute a ciascun aderente a titolo di risarcimento o di restituzione. Il  provvedimento  costituisce titolo esecutivo ed è comunicato al resistente,  agli  aderenti,  al

    rappresentante comune e ai difensori. 

    Con il decreto motivato di cui sopra, il giudice delegato  condanna  il resistente a corrispondere direttamente al rappresentante comune degli aderenti, a titolo di compenso, un importo stabilito in considerazione  del  numero  dei  componenti la classe  in   misura progressiva.

    Gli atti di impugnazione della sentenza e i provvedimenti  che  definiscono  i  giudizi  di   impugnazione sono pubblicati nell'area pubblica del portale dei servizi  telematici  di cui all'articolo 840-ter, secondo comma c.p.c..

    Contro il decreto con cui il giudice delegato accoglie  in tutto o in parte la domanda di adesione può  essere proposta opposizione con ricorso depositato  presso  la cancelleria del tribunale. 

    Entro trenta giorni dall'udienza di comparizione delle parti,  il tribunale provvede con decreto motivato,  con  il  quale  conferma, modifica o revoca il provvedimento impugnato. 

    Quando il  debitore provvede spontaneamente al pagamento delle  somme  stabilite con il decreto con cui il giudice delegato accoglie  in tutto o in parte la domanda di adesione, le  somme sono

    versate su un  conto  corrente  bancario o postale intestato  alla procedura aperta con la sentenza.

    Il  rappresentante comune degli aderenti deposita con la massima sollecitudine il piano di riparto e il giudice delegato ordina il pagamento  delle somme  spettanti a ciascun aderente. 

    L'esecuzione forzata del  decreto con cui il giudice delegato  accoglie  in tutto o in parte la domanda di adesione, è promossa dal rappresentante comune  degli  aderenti, che compie tutti gli atti nell'interesse degli aderenti, ivi compresi quelli relativi agli eventuali giudizi di  opposizione.  Non è  mai ammessa  l'esecuzione  forzata  di tale decreto  su  iniziativa  di soggetti diversi dal rappresentante comune. 

    Il tribunale, fino alla  discussione  orale della causa,  formula  ove possibile,  avuto riguardo   al   valore   della   controversia  e all'esistenza di questioni di facile e pronta soluzione  di  diritto, una proposta transattiva o conciliativa.

    L'accordo  transattivo  o  conciliativo  concluso  tra le  parti  è inserito nell'area pubblica ed è comunicato all'indirizzo di posta elettronica certificata ovvero al servizio  elettronico di recapito

    certificato qualificato indicato da ciascun aderente, il  quale  può dichiarare di voler accedere all'accordo  medesimo mediante dichiarazione inserita nel fascicolo informatico nel termine indicato dal giudice. 

    La chiusura della procedura di adesione è dichiarata con decreto motivato reclamabile del giudice delegato.

    Gli aderenti riacquistano il libero esercizio delle azioni  verso il debitore per  la  parte non soddisfatta  dei  loro  crediti  per capitale e interessi. 

    Chiunque abbia  interesse  alla  pronuncia  di  una inibitoria  di   atti   e comportamenti, posti in essere in pregiudizio di  una  pluralità  di individui o enti, può agire per ottenere l'ordine di cessazione o il divieto di reiterazione della  condotta omissiva o  commissiva.  Le organizzazioni o le associazioni senza scopo di lucro i cui obiettivi statutari comprendano la tutela degli interessi pregiudicati  dalla condotta di cui sopra sono legittimate a proporre l'azione, qualora iscritte nel precritto elenco.

    L'azione può essere esperita nei confronti di imprese o di  enti gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità relativamente  ad atti e comportamenti posti in essere  nello svolgimento delle  loro rispettive attività. 

    La domanda si propone con le  forme del procedimento  camerale, regolato dagli  articoli 737  e  seguenti del codice di procedura civile,  in quanto  compatibili, esclusivamente dinanzi alla sezione  specializzata in  materia  di impresa competente per il luogo dove ha sede la parte resistente.  Il ricorso e' notificato al pubblico ministero. 

    Con  la  condanna  alla  cessazione  della condotta omissiva  o commissiva, il tribunale può,  su istanza  di  parte,  adottare  i provvedimenti di cui all'articolo 614-bis del codice di procedura civile (misure di coercizione indiretta), anche fuori dei casi  ivi previsti. 

    Con  la  condanna  alla  cessazione  della  condotta omissiva  o commissiva, il tribunale può, su richiesta del pubblico ministero  o delle parti, ordinare che  la  parte  soccombente  adotti  le misure idonee ad eliminare o ridurre gli effetti delle violazioni accertate. 

    Il giudice, su istanza di parte, condanna la parte soccombente  a dare diffusione del provvedimento, nei  modi e nei tempi definiti nello stesso, mediante utilizzo dei mezzi di comunicazione  ritenuti piu' appropriati. 

    Quando l'azione inibitoria collettiva è proposta congiuntamente all'azione di classe, il giudice dispone la separazione delle cause. 

     

  • Articoli e commenti

    Sono di seguito riportate analisi e osservazioni sui più importanti istituti e modifiche ordinamentali.

Autore: a cura dell'Avv. Simone Voltarel 20 febbraio 2022
Il fenomeno successorio si compone di due profili: uno oggettivo, dato dal patrimonio relitto dal de cuius , equivalente del complesso di beni e rapporti giuridici di cui era titolare, e uno soggettivo, dato dalla trasmissione a determinati soggetti a subentrare in luogo del defunto, i c.d. chiamati all’eredità [1] . Nell’ambito di tale macro categoria, la dottrina distingue i “vocati”, ossia coloro che sono solo astrattamente designati alla successione, per volontà dello stesso de cuius o della legge (art. 457 c.c.), dai “delati”, ossia coloro che dal momento dell’apertura della successione hanno la concreta offerta delle sostanze ricomprese nell’asse ereditario. Se normalmente le due vesti coincidono, consentendo l’appellativo comune di “chiamato all’eredità”, in alcune ipotesi previste dalla legge, per esempio in caso di rappresentazione ex art. 467 c.c. o di sostituzione ex art. 688 c.c. determinata dalla scheda testamentaria, si può verificare uno iato che differenzia le due posizioni giuridiche. Solo il delato cioè, a differenza del vocato , è immediatamente nella condizione di accettare efficacemente e di vantare diritti sull’eredità. Nel frangente della differenziazione tra le due figure, talora non immediatamente intelleggibile nella sua complessità, si colloca la disposizione dell’ art. 480 c.c. che individua un termine di prescrizione estintiva di dieci anni con decorrenza dalla data di apertura della successione. Il vano decorso del decennio da tale data comporta, quindi, l’estinzione del diritto di accettare, da deve ritenersi consumato ex art. 2934 c.c. [2] . Nel disciplinare le modalità di accettazione o rinuncia all’eredità nelle disposizioni precedenti – artt. 475, 476, 477, 479 c.c. – l’ordinamento prende a riferimento unicamente il chiamato; su tutti i chiamati quindi, intesi tanto come delati o volgarmente “primi chiamati”, quanto come vocati, grava l’onere di rispettare il termine. Ne discende che l’inerzia del primo si ripercuote negativamente su tutti gli ulteriori che non si attivino per rispettarlo, con conseguente danno e consumazione del diritto. A tal riguardo, i vocati non delati hanno più modi per tutelare la propria posizione di aspettativa. In prima battuta, in qualità di interessati, possono adìre il Giudice affinché fissi un termine entro il quale il chiamato anteriore dichiari se intende accettare l’eredità. La c.d. actio interrogatoria – al pari del termine inserito dal testatore – tramuta così la prescrizione prevista dall’art. 480 c.c., la cui inosservanza comporta l’estinzione del diritto, in decadenza: il mancato rispetto del termine assegnato dal Giudice comporta, cioè, la consumazione del potere di espandere il proprio diritto di accettazione in titolarità [3] . In seconda battuta, in disaccordo con la dottrina [4] che ritiene che il destinatario di una delazione non ancora attuale, al momento dell’apertura della successione, sarebbe titolare di una mera situazione giuridica di aspettativa cui è riservata una tutela minore rispetto a quella riservata al c.d. delato, la giurisprudenza di legittimità ha accolto il principio di cd. simultaneità delle delazioni [5] . Ogni singolo chiamato ha quindi il diritto di accettare, anche per fatti concludenti, la delazione ereditaria; in questo modo l’accettazione diviene un atto giuridico che si riempie di contenuto – ossia dei rapporti già intestati al de cuius – solo al venir meno, vuoi per rinuncia o per decadenza, del diritto di accettare dei delati antecedenti o preferiti in grado. La giurisprudenza predilige così l’interpretazione della chiamata attuale tanto per i delati quanto per i vocati all’eredità, il cui termine di prescrizione, per tutti, decorre e si consuma col passaggio di dieci anni dal momento dell’apertura della successione. In questo senso, la prescrizione si atteggia in maniera simile a quanto dettato dall’art. 2940 c.c. in tema di adempimento spontaneo: così come il soggetto che ha spontaneamente onorato un debito prescritto non ha diritto di ripeterne il pagamento, cristallizzando un diritto adempiuto oltre la sua scadenza quasi si trattasse dell’adempimento di un’obbligazione naturale, in maniera simile l’accettazione tardiva, ossia oltre il termine decennale, non impedisce l’acquisto della qualità di erede, a patto che non venga tempestivamente eccepita da chiunque ne abbia interesse [6] . L’interesse è stato letto dalla giurisprudenza in senso affatto ampio, di modo che il rilievo può esser svolto anche un terzo non chiamato [7] , che potrebbe esser danneggiato dalla riduzione patrimoniale destinata al proprio debitore per effetto della accettazione tardiva di un altro chiamato all’eredità. Vista la validità dell’acquisto mortis causa ultradecennale e la possibilità di rinunciare all’eccezione di prescrizione ex art. 2937 c.c. [8] , c’è quindi da interrogarsi su quale sia l’effetto del rilievo dell’intervenuta prescrizione dell’acquisto effettuato dal chiamato oltre il termine decennale, ossia, in altre parole, quale sia il regime di stabilità della situazione giuridica creatasi per effetto di un atto giuridico compiuto oltre il termine stabilito dall’ordinamento per il suo perfezionamento, nel caso in cui la prescrizione venga validamente e, in ambito processuale, tempestivamente eccepita [9] . Dato per pacifico che la domanda di accertamento (o l’eccezione) di avvenuta prescrizione sollevata prima dell’accettazione ultradecennale comporta l’impossibilità di validamente subentrare nella posizione giuridica del de cuius , per intervenuta e accertata consumazione del relativo diritto in capo al (l’allora) chiamato, maggiori problemi si pongono in caso di rilievo della prescrizione svolto dopo l’accettazione ultradecennale. In tale fattispecie la prescrizione pare atteggiarsi in modalità parzialmente difforme rispetto al diritto comune disciplinato dall’ art. 2940 c.c. : se l’adempimento spontaneo tardivo non è ripetibile anche rilevandone la prescrizione, al contrario chi scrive ritiene che il rilievo del decorso del termine svolto dopo l’accettazione ultradecennale impedisca la cristallizzazione della situazione giuridica apparente, il valido acquisto della qualifica di erede e, così, comporti il ripristino dello stato anteriore all’accettazione. L’ art. 525 c.c. prevede infatti che i chiamati, anche se hanno rinunciato, possono sempre validamente accettare l’eredità se non è già stata accettata da altro dei chiamati e sino al termine di compimento della prescrizione. La rinuncia all’eredità , cioè, può esser revocata solo entro il decennio dall’apertura della successione, oltre tale termine restando insensibile il mutamento di idea del vocato al decorso del tempo. Se ciò è vero, in pari misura l’eccezione di prescrizione in ordine alla tardività dell’accettazione produce l’effetto di far decadere l’erede tardivo dalla sua qualifica, dovendo l’inerzia (ultra)decennale di quest’ultimo esser parificata alla rinuncia tardivamente revocata, impedita dall’ordinamento. Quindi, come il rinunciante non potrà più, oltre il decennio, acquistare la qualifica di erede, così il mancato esercizio del diritto, da ritenersi consumato [10] , renderà impossibile l’acquisto dell’eredità. La qualifica di erede deve ritenersi in tal caso non tanto impedita, quanto “revocata”; infatti in assenza del rilievo della tardività – come visto sopra – l’accettazione ultradecennale si considera valida ed efficace. A tal riguardo, la ratio dell’art. 525 c.c. e, così, del sistema prescrizionale in materia successoria, pare riferirsi ancora al principio per cui l’ordinamento, tra qui certat de damno vitando e qui certat de lucro captando , tutela il primo assicurando all’accettante in termini l’intangibilità dei diritti quesiti con preferenza rispetto al tardivo, in quanto quesiti oltre la scadenza fissata dall’art. 480 c.c.. [1] La successione ereditaria è un fenomeno a formazione progressiva che inizia con l’epertura della successione e si conclude con l’accettazione ex art. 459 c.c.. La Suprema Corte ha chiarito che “La delazione conseguente all'apertura della successione ereditaria, pur costituendone un presupposto, non è sufficiente per l'acquisto dell'eredità, a tal fine occorrendo anche che il chiamato proceda all'accettazione mediante una dichiarazione espressa di volontà (o con l'assunzione del titolo di erede) in un atto pubblico o in una scrittura privata (art. 475 c.c.) oppure compiendo atti che necessariamente presuppongono la volontà di accettare e che il chiamato stesso non avrebbe avuto il diritto di fare se non nella qualità di erede” (Cass. n. 9782/1995 e, dello stesso tenore, Cass. n. 1850/1971 e Cass. n. 2408/1972). [2] Si veda Cass. 2975/1989, secondo la quale “L'art. 480 comma 1 cod. civ., stabilendo che il diritto di accettare l'eredità si estingue con il decorso del tempo (dieci anni), prevede un termine di prescrizione estintiva”. [3] Sul punto, si veda G. Petrelli in Rivista del Notariato, 1993, pag. 287, secondo il quale, però, la trascrizione dell’acquisto mortis causa effettuata oltre il termine per accettare deve considerarsi valida accettazione dell’eredità, a tutela del principio dell’apparenza ereditaria, in particolare se tale aspetto non risulta dalla nota. La conclusione pare, a chi scrive, non condivisibile. Il regime della pubblicità immobiliare opera su un piano diverso da quello sostanziale, tale per cui non è elemento idoneo e/o sufficiente a sanare o colmare le lacune o invalidità della fattispecie. Ne discende, sempre a parere dello scrivente, che la consumazione del potere di accettare l’eredità, se eccepito in termini e, così, prima dell’esecuzione della formalità pubblicitaria, comporta la definitiva fuoriuscita dalla sfera giuridica soggettiva del delato, con applicazione dei rimedi previsti dall’art. 2662 c.c.. [4] Sul punto, si veda Grosso e Burdese, Le successioni, Parte generale, in Tratt. Dir. civ. it., diretto da Vassalli, pag. 72. La dottrina valorizza l’interpretazione romanistica per la quale “delata hereditas intelligitur, quam qui possit adeundo consequi”, dalla quale si desume che i chiamati in subordine sono legittimati all’accettazione solo dal momento in cui l’eredità si devolva in loro favore. Corollario di tale regola è che non solo il chiamato in subordine non ha potere di amministrare l’eredità ex art. 460 c.c. (Grosso Burdese, op. citata, pag. 164, Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle successioni, Torino 2005, pag. 83) ma, addirittura, in suo favore non debba nemmeno esser considerata aperta la successione (Capozzi, Successioni e Donazioni, Milano 2009, pag. 106). [5] Si veda Cass. 2743/2014, secondo la quale “Qualora sussista una pluralità di chiamati a succedere in ordine successivo, si realizza una delazione simultanea a favore dei primi chiamati e dei chiamati ulteriori, con la conseguenza che questi ultimi, in pendenza del termine di accettazione dell’eredità dei primi chiamati, sono abilitati ad effettuare un’accettazione anche tacita dell’eredità”. [6] “La prescrizione del diritto di accettare l'eredità, a norme dell'art. 480 c.c. opera, in mancanza di limitazioni normative, a favore di chiunque vi abbia interesse, anche se estraneo all'eredità”, Cass. 9901/1995 e Cass. 2975/1989 ma non può esser rilevata d’ufficio e, pertanto, l’eventuale accettazione tardiva è valida a condizione che nessuno abbia rilevato la prescrizione (Cass. 5633/1987 e Cass. 3529/1969; in dottrina, G. Petrelli in Rivista del Notariato, 1993, pag. 290: “Il chiamato all’eredità può porre in essere un atto di accettazione – espressa o tacita – dell’eredità anche dopo il decorso del termine prescrizionale, non essendovi peraltro alcuna possibilità di considerare invalido in tal caso il negozio di accettazione, che potrà produrre normalmente i suoi effetti se nessuno eccepirà l’avvenuta prescrizione” [7] Sembra applicabile, anche in materia successoria, l’art. 2939 c.c.. Cass. 1596/1979 ha ammesso la formulazione della relativa eccezione da parte del Curatore fallimentare. In caso di pluralità di interessati, l’eccezione svolta da uno solo d’essi giova a tutti, considerato il carattere unitario e inscindibile dalla situazione soggettiva del chiamato all’eredità. Nono potendo l’eccezione di prescrizione giovare solo a chi la eserciti e non agli altri, concernendo lo status di erede che deve avere efficacia e erga omnes, Cass. 178/1996 ha precisato che l’eccezione sollevata da uno dei convenuti in divisione opera efficacemente anche in favore degli altri, e addirittura ancorchè taluno dei condividenti abbia espressamente rinunciato. [8] La prescrizione del diritto di rinunciare all’eredità è rinunciabile. Intervenuta la prescrizione decennale ai sensi dell’art. 480 c.c., il soggetto al quale l’estinzione del diritto altrui giovi può manifestare l’inequivoca volontà di non avvalersi della prescrizione, perdendo così il potere di eccepirla in sede processuale. In tale caso, non operando la prescrizione in modalità ipso iure, il diritto colpito – precedentemente indebolito dal diritto di rilevarla del co-chiamato – riacquista il proprio vigore come se il decorso del tempo non si fosse mai verificato. In questo senso Cass. n. 263/1996, Cass. 3529/1969 e Cass. 68/1978. Si veda anche Effetti della rinuncia tacita alla prescrizione del diritto di accettare l'eredità, di Nicola de Mauro in Giust. Civ. 1996, pag. 1667. [9] Deve ritenersi applicabile, sul punto, l’art. 2938 c.c. per il quale il Giudice non può rilevare d’ufficio la prescrizione non opposta. A tal riguardo, Cass. 12646/2020 ha precisato che il chiamato può accettare l’eredità anche oltre il termine di 10 anni, se non viene eccepita la prescrizione. Precisa la Cassazione che, poiché non rilevabile d’ufficio, la prescrizione eccepita per la prima volta in grado d’appello – e così tardiva secondo le preclusioni processuali - non fa decadere il chiamato dall’accettazione, pur eseguita oltre il decennio dall’apertura della successione. [10] A commento dell’art. 525 c.c., la dottrina sostiene che “la facoltà di revoca della rinunzia viene meno se è prescritto il diritto di accettare l’eredità, ossia se sono decorsi dieci anni dall’apertura della successione” (Successioni e donazioni, G. Capozzi, Milano 2015, pag. 333). Ne deriva che, decorsi dieci anni dall’apertura della successione, se non è possibile revocare la rinuncia è conseguentemente irrealizzabile l’accettazione tardiva.
Autore: di Paolo Nasini 23 novembre 2021
Breve nota a Cass. civ., ord., sez. V, 05-11-2021, n. 31960, Pres. CHINDEMI, Est. De Masi IL CASO Il ricorso in cassazione è stato fondato, per quanto in questa sede di interesse, sulla asserita violazione, da parte della CTR, dell’art. 3, l. n. 241 del 1990 e dell’art. 7, l. n. 212 del 2000, in ragione della ritenuta nullità della cartella di pagamento priva di adeguata motivazione in quanto non esplicitante le modalità di calcolo degli interessi richiesti sulla somma dovuta a titolo di imposta. Tale problematica, peraltro, è stata declinata da parte ricorrente, anche in ragione, della ritenuta violazione dell'art. 24 Cost., in quanto, mancando un prospetto analitico degli interessi applicati, non sarebbe dato ai contribuenti verificare e, quindi, contestare la correttezza della somma a tale titolo richiesta. Entrambe le predette censure pongono, infatti, sia pure sotto prospettive differenti, la questione dell'obbligo di motivazione della cartella di pagamento, ai sensi dell’ art. 7, l. n. 212 del 2000 , relativamente ad interessi richiesti per ritardato pagamento di tributi. La cartella non recherebbe indicazioni sufficienti (giorni, tassi d'interesse, imponibile, aliquote, ecc.) al fine di verificare la correttezza delle somme iscritte a ruolo e si appunta sul fatto che nell'atto impugnato "viene riportato solo l'importo totale degli interessi applicati (e) non un prospetto analitico anche sintetico, che spieghi modalità, tassi e criteri seguiti nella loro determinazione". Nella pronuncia impugnata la C.T.R. del Lazio aveva affermato che "le somme indicate in cartella corrispondono a quelle riportate nell'originario avviso di liquidazione, convertite in Euro e maggiorate degli interessi dovuti per legge, quindi, al tasso legale" ed inoltre che "non risulta dimostrato che l'ufficio abbia richiesto un tasso superiore a quello di legge, o abbia calcolato interessi su interessi (cd. anatocismo), come adombrato dal ricorrente in udienza". Quindi, la Commissione aveva ritenuto legittima la cartella di pagamento perché il metodo seguito dall'Amministrazione finanziaria per la liquidazione degli accessori risulta agevolmente controllabile dal contribuente, essendo la misura degli interessi applicati predeterminata dalla legge, per cui la liquidazione stessa si risolve in una operazione matematica, di natura tipicamente riscossiva. Inoltre, è stato valorizzato il fatto che la cartella di pagamento, riproduttiva del ruolo, richiama l'avviso di liquidazione prodromico, esplicita le ragioni della debenza dei tributi ("revoca benefici fiscali L. 6 agosto 1954, n. 604"), ed indica l'atto notarile presentato alla registrazione ("atto notaio C. del (OMISSIS) n. (OMISSIS)") cui la pretesa fiscale si riferisce, in tal modo rendendone conoscibili i presupposti di fatto e di diritto. La cartella informa pure che "Per ogni giorno di ritardo vanno aggiunti gli interessi di mora (calcolati a partire dalla data di notifica della presente cartella e i maggiori costi del servizio di riscossione)", che "le spese di notifica rappresentano il costo del servizio di notifica della cartella di pagamento svolto dall'Agente della riscossione (normativa di riferimento: D.Lgs. n. 112 del 1999, art. 17, comma 7 ter)", che sono dovuti dal destinatario dell'atto anche "i compensi del servizio di riscossione (o aggio di riscossione)" in misura diversa (4,65% e 9%) a seconda che il pagamento intervenga entro la scadenza o in ritardo, ed ancora che "gli interessi di mora sono dovuti dal contribuente, in aggiunta alle somme iscritte a ruolo, qualora non effettui il pagamento entro SESSANTA giorni dalla data di notifica" e fino al giorno dell'effettivo pagamento, ed infine che "il tasso di interesse applicato viene determinato con apposito atto normativo (normativa di riferimento D.P.R. n. 602 del 1973, art. 30, e norme correlate)". Peraltro, la materia del contendere investe unicamente gli interessi applicati nella misura di Euro 35.168,21 sui tributi dovuti (imposta di registro e ipocatastali), stante l'incontestabilità del relativo accertamento per effetto del giudicato tributario sul prodromico avviso di liquidazione, che ha revocato i benefici della piccola proprietà contadina, in relazione all'atto di compravendita stipulato in data. L'ORDINANZA DELLA CORTE La quinta sezione della Corte ha sottolineato come le argomentazioni della CTR siano conformi all'indirizzo giurisprudenziale di legittimità secondo il quale è legittimo il riferimento al calcolo degli interessi maturati ex lege ove sia incontestata la sorte capitale (proveniente dal precedente atto impositivo o da dichiarazione dello stesso contribuente) e il periodo per il quale sono maturati gli interessi, risolvendosi la determinazione degli accessori in una mera operazione matematica, che consente il raffronto con i tassi determinati ex lege , per la quale non ricorre l'obbligo di specifica motivazione. In particolare tale orientamento valorizza: - il fatto che, laddove nella cartella vi sia il richiamo alla dichiarazione dalla quale deriva il debito di imposta ed al conseguente periodo di competenza, il criterio di liquidazione degli interessi è predeterminato ex lege e la relativa applicazione finisce per essere una mera operazione matematica, con conseguente sufficienza della motivazione (si vedano, in senso conforme, Cass., Sez. V, 27 marzo 2019, n. 8508; Cass., Sez. V, 8 marzo 2019, n. 6812; Cass., Sez. VI, 7 giugno 2017, n. 14236); - il mero richiamo all’atto impositivo è sufficiente a far ritenere assolto l’onere motivazionale, il contribuente trovandosi già nella condizione di conoscere i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche della pretesa fiscale, anche ai fini del controllo (meramente aritmetico) della esattezza delle somme richieste (come nel caso) per "interessi.., per ritardato o omesso pagamento" sulle imposte indicate in detto atto impositivo (si veda, al riguardo, Cass., Sez. V, 15 aprile 2011, n. 8613); - il contribuente è sempre e comunque in grado di controllare quale sia il tasso di interesse applicato, perché, anche qualora manchi l'emissione del decreto ministeriale che determina annualmente la misura degli interessi di mora computabili dalla notifica della cartella fino alla data del pagamento, il tasso viene determinato ex lege sulla base del tasso fissato dall'ultimo decreto pubblicato, che resta efficace fino alla deliberazione del nuovo provvedimento (si vedano, Cass. n. 9764/2021, nonché Cass., Sez. V, 6 agosto 2020, n. 16778); - in forza dell’art. 20, d.p.r. n. 602 del 1973 [1] , il "tasso... annuo" degli interessi è noto e conoscibile perché determinato con provvedimento generale, e i limiti temporali di riferimento ( dies a quo e dies ad quem ) necessari per il calcolo sono anch'essi fissati in elementi cronologici ben individuati ("giorno successivo a quello di scadenza del pagamento" e "data di consegna... dei ruoli", rispettivamente), sicché, nell'ipotesi in cui vengano richiesti gli interessi e le sovrattasse per ritardato o omesso pagamento il contribuente si trova già nella condizione di conoscere i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche della pretesa fiscale, con l'effetto che l'onere di motivazione può considerarsi in questi casi assolto dall'Ufficio mediante mero richiamo alla dichiarazione medesima (Cass., trib., 18 dicembre 2009 n. 26671; Cass., n. 8613/2011) [2] - in tema di riscossione delle imposte sul reddito, la Corte ha espresso il principio per cui "la cartella di pagamento, nell'ipotesi di liquidazione dell'imposta ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36-bis, costituisce l'atto con il quale il contribuente viene a conoscenza per la prima volta della pretesa fiscale e come tale deve essere motivata; tuttavia, nel caso di mera liquidazione dell'imposta sulla base dei dati forniti dal contribuente medesimo nella propria dichiarazione, nonchè qualora vengano richiesti interessi e sovrattasse per ritardato od omesso pagamento, il contribuente si trova già nella condizione di conoscere i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche della pretesa fiscale, con l'effetto che l'onere di motivazione può considerarsi assolto dall'Ufficio mediante mero richiamo alla dichiarazione medesima". (Cass. n. 26671/2009). La Corte, d’altronde, dà conto di un altro indirizzo giurisprudenziale , secondo il quale: - la cartella esattoriale fondata su una sentenza passata in giudicato deve essere motivata nella parte in cui mediante la stessa venga anche richiesto per la prima volta il pagamento di crediti diversi da quelli oggetto dell'atto impositivo oggetto del giudizio, come quelli afferenti gli interessi per i quali deve essere indicato, pertanto, il criterio di calcolo seguito (Cass. n. 21851/2018, n. 28276/2013). - in particolare, "con riferimento alla cartella di pagamento emessa per un debito riconosciuto in una sentenza passata in giudicato, il richiamo alla pronuncia giudiziale e all'atto impositivo su cui la stessa è intervenuta, risulta idoneo ad assolvere all'onere motivazionale solo limitatamente alla parte del credito erariale fatto valere interessato dall'accertamento, divenuto definitivo, compiuto dal giudice, ma non anche alle altre ulteriori voci di credito che non sono state in precedenza richieste; - infatti, relativamente a tali voci, è con la cartella di pagamento che, per la prima volta, viene esercitata la pretesa impositiva, con la conseguenza che il criterio utilizzato per la loro individuazione e quantificazione deve essere ivi esplicitato e posto a conoscenza del contribuente; - in applicazione di tali principi, deve concludersi che la cartella di pagamento emessa per un debito riconosciuto in una sentenza passata in giudicato deve essere motivata in ordine al criterio utilizzato per la quantificazione degli interessi richiesti per la prima volta con tale atto, dal momento che il contribuente dev'essere messo in grado di verificare la correttezza del calcolo degli interessi medesimi (cfr. Cass., ord., 22 giugno 2017, n. 15554; Cass. 21 marzo 2012, n. 4516; Cass. 9 aprile 2009, n. 8651);" (Cass. n. 21851/2018 cit.); - con la sentenza n. 17767/2018 la Corte ha evidenziato che, nel caso ivi esaminato, "il debito scaturiva da una sentenza definitiva della Commissione tributaria centrale (vedi l'incipit della sentenza impugnata), e secondo il superiore principio di diritto la semplice pubblicazione dei tassi d'interesse secondo le modalità previste nel lungo periodo considerato (28 anni) non consentiva al contribuente di comprendere i diversi metodi di calcolo applicati negli anni, ovvero i tassi d'interesse operanti nei periodi considerati, così obbligando il medesimo contribuente ad attingere aliunde le nozioni giuridiche necessarie per ricostruire il metodo seguito dall'ufficio"; - in analoga controversia, la Corte ha confermato la decisione del giudice d'appello, favorevole alla tesi del contribuente, sul rilievo < >. (Cass. n. 15554/2017, ma anche n. 5416/2021 e n. 8611/2009). Conseguentemente, la quinta sezione, pur considerando le peculiarità delle fattispecie scrutinate e quindi la necessità di differenziare l'obbligo di motivazione a seconda del contenuto prescritto per ciascun tipo di atto, ha ritenuto sussistere le condizioni per la rimessione della causa alle Sezioni Unite , stante l'esigenza di ottenere l’enunciazione di un principio di diritto, in funzione nomofilattica rispetto a questione variamente risolta dalla Sezione e che è destinata a riproporsi in numerose controversie. [1] In forza del quale, Sulle imposte o sulle maggiori imposte dovute in base alla liquidazione ed al controllo formale della dichiarazione od all'accertamento d'ufficio si applicano, a partire dal giorno successivo a quello di scadenza del pagamento e fino alla data di consegna al concessionario dei ruoli nei quali tali imposte sono iscritte, gli interessi al tasso del cinque per cento annuo. Nel caso in cui le imposte o le maggiori imposte sono dovute in esecuzione di accordi conclusi con le autorità competenti degli Stati esteri a seguito delle procedure amichevoli interpretative a carattere generale previste dalle Convenzioni contro le doppie imposizioni sui redditi, gli interessi di cui al periodo precedente si applicano a decorrere dalla data dei predetti accordi​. [2] Principio affermato con riferimento all'obbligo di motivazione degli atti tributari, previsto...per la cartella di pagamento.
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