IL CASO
Un Consigliere di Stato viene imputato di concorso in più delitti di corruzione in atti giudiziari, posti in essere attraverso fatti singolarmente riconducibili a episodi di corruzione per l’esercizio della funzione e di corruzione per atti contrari ai doveri di ufficio.
In particolare, il magistrato, da un lato, avrebbe agevolato in alcuni giudizi dinanzi al Consiglio di Stato un avvocato e il di lui cliente imprenditore, a fronte di utilità economicamente valutabili in circa 64.000,00 euro per sé e per suo padre; dall’altro, sarebbe intervenuto presso i suoi colleghi e avrebbe partecipato egli stesso a decisioni di giudizi proposti avanti al Consiglio di Stato, in cui erano coinvolte società di interesse di un avvocato suo amico, ricevendo, a fronte del suo apporto istigatorio e decisionale, somme per complessivi € 18.500,00.
E’ stato accertato, sotto quest’ultimo profilo, che il Consigliere di Stato avesse ricevuto dazioni di denaro in tre diverse tranches, in cambio di decisioni favorevoli del Giudice amministrativo di appello in altrettanti contenziosi.
I TRE CONTENZIOSI “SOSPETTI” DINANZI AL CONSIGLIO DI STATO
Il Tribunale di Roma parte da una chiamata di correo dell’avvocato amico del Consigliere di Stato, per vagliare la credibilità non solo dell’accusatore, ma anche l’attendibilità estrinseca delle sue accuse, attraverso una lente di ingrandimento sui contenziosi “incriminati”.
Una prima analisi concerne l’esito in appello di un’ordinanza cautelare a mezzo della quale, in primo grado, il TAR per il Lazio aveva respinto la domanda di sospensione incidentale del provvedimento con cui Consip S.p.A. aveva escluso per difetto dei requisiti una società cooperativa dalla gara per l’affidamento di servizi di pulizia.
In questo caso, l’imputato era stato relatore ed estensore dell’ordinanza con cui il Consiglio di Stato, in riforma della decisione cautelare del giudice di primo grado, aveva disposto una sollecita fissazione dell’udienza di merito dinanzi al TAR, ai sensi dell’art. 55, comma 10, del c.p.a., e contestualmente accolto la domanda di sospensione dei provvedimenti impugnati.
A fronte di tale decisione, che rimetteva in gioco la ricorrente e che “sposava” di fatto uno dei due orientamenti all’epoca esistenti in ordine all’applicazione retroattiva del disposto di cui all’art. 31, comma 8 del d.l. n. 69 del 2013, in materia di dichiarazioni di regolarità contributiva, il Tribunale di Roma ha ritenuto accertato che, dopo una decina di giorni dall’adozione dell’ordinanza di cui era stato relatore ed estensore, l’imputato si fosse fatto vanto della decisione stessa con l’amico avvocato, che aveva partecipato all’udienza in delega, e gli avesse poi chiesto un prestito (mai restituito) di € 8.500,00.
La seconda analisi concerne l’esito in appello di un’ordinanza cautelare a mezzo della quale, in primo grado, il TAR per il Lazio aveva respinto la domanda di sospensione incidentale del provvedimento con cui Consip S.p.A. aveva aggiudicato a società diversa dalla società ricorrente la gara per l’affidamento del servizio luce.
In questo caso, l’imputato aveva partecipato al Collegio decidente, ma non era stato né relatore né estensore del provvedimento cautelare favorevole alla ricorrente; tale provvedimento era stato basato sul presupposto che l’aggiudicataria avesse inserito indicazioni di carattere economico nell’offerta tecnica, e che per ciò solo avrebbe dovuto essere esclusa dalla gara, coerentemente a quanto disposto dalla lex specialis.
La terza analisi, speculare alla seconda, concerne l’esito in appello di un’ordinanza cautelare a mezzo della quale, in primo grado, il TAR per il Lazio aveva respinto la domanda di sospensione incidentale del provvedimento con cui Consip S.p.A. aveva aggiudicato a società diversa dalla società ricorrente la gara per l’affidamento dei servizi di gestione integrata della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro.
In questo caso, l’imputato non aveva partecipato al Collegio decidente, ma si era “speso dall’interno”, e il provvedimento era stato redatto dallo stesso estensore dell’ordinanza cautelare pronunciata sulla gara per l’affidamento del servizio luce, basandosi nuovamente sul presupposto che l’aggiudicataria avesse inserito indicazioni di carattere economico nell’offerta tecnica, e che per ciò solo avrebbe dovuto essere esclusa dalla gara, coerentemente a quanto disposto dalla lex specialis.
In quest’ultimo contenzioso, peraltro, si sarebbe verificata, secondo il Tribunale di Roma, anche una vistosa anomalia processuale, avendo il Consiglio di Stato sospeso (sempre con lo stesso estensore) il dispositivo della sentenza di primo grado con cui il TAR per il Lazio aveva ribadito il suo orientamento sfavorevole alla società ricorrente, nonostante nel frattempo i giudici di primo grado avessero depositato anche le motivazioni della sentenza e l’appellante non avesse ancora impugnato con motivi aggiunti tali motivazioni.
In particolare, avrebbe destato “sospetto”, in relazione agli effetti di una condotta di agevolazione in favore dell’appellante da parte dell’imputato, la sospensione in sede cautelare e al “buio” (senza cioè conoscere la motivazione della decisione di merito di primo grado) della convenzione nel frattempo stipulata, sulla base dell’esito favorevole del contenzioso dinanzi al TAR Lazio, tra l’aggiudicataria e la stazione appaltante.
A fronte delle decisioni del Consiglio di Stato in questi due giudizi, l’imputato veniva pagato con altri due prestiti dissimulati, facendo valere in un caso (quello in cui faceva parte del collegio decidente) l’espressa richiesta di intervento dell’amico avvocato, e, nell’altro caso, (quello in cui non faceva parte del collegio decidente) un’iniziativa personale, “spontanea” e risolutiva.
PROFILI PROCESSUALI E SOSTANZIALI DI RESPONSABILITA’
Il Tribunale ha ritenuto accertata la responsabilità dell’imputato al di là di ogni ragionevole dubbio.
La chiamata in correità dell’avvocato amico del Consigliere di Stato è risultata intrinsecamente credibile perché sorretta dall’effettiva possibilità dell’accusatore di conoscere i fatti narrati, dall’adeguato grado di conoscenza della materia “incriminata”, dal tipo e dall’intensità dei rapporti intrattenuti con i protagonisti della vicenda e dall’assenza di un movente calunnioso, essendo indifferente a tali fini il fatto di mirare anche alla fruizione di vantaggi (in sede cautelare e di patteggiamento) in funzione della collaborazione prestata.
A tale intrinseca credibilità si è affiancato l’accertamento della sussistenza di adeguati riscontri estrinseci (indipendenti e avulsi dalla chiamata in correità), specifici ed individualizzati, quali conferme documentali e storiche, elementi di prova logica e un’altra chiamata in correità, seppure sulla base di dichiarazione de relato.
Sotto il profilo sostanziale, il Tribunale ha precisato che, secondo la fattispecie tipica, l’alternativa alla dazione di somme di danaro – in relazione alla ricompensa dell’accordo corruttivo – rifluisce nella nozione di “altra utilità”, che consiste in un qualsiasi vantaggio materiale o morale concretamente attribuito a sé o ad altri; nel caso di specie, può considerarsi in tale concetto la nomina retribuita del padre dell’imputato a presidente di un collegio arbitrale.
I giudici di primo grado hanno poi chiarito che è indifferente che l’utilità data o promessa sia antecedente o susseguente al compimento dell’atto, come pure è irrilevante stabilire se l’atto in concreto sia o non sia contrario ai doveri di ufficio; ciò che conta è la finalità perseguita al momento del compimento dell’atto proprio del pubblico ufficiale: se essa è diretta a favorire o danneggiare una parte in un processo, risulta indifferente ricevere l’utilità dopo il compimento dell’atto (corruzione susseguente) o prima dell’atto (corruzione antecedente).
L’imputato ha realizzato, con le sue plurime condotte, entrambe le fattispecie (integrando a seconda dei casi una condotta contraria ai doveri di ufficio o apparentemente coerente con i doveri di ufficio, ma di per sé viziata dall’essere venuto meno al dovere di imparzialità e terzietà non solo soggettiva ma anche oggettiva); l’imputato ha altresì realizzato una ipotesi di corruzione in atti giudiziari anche commettendo fatti sussumibili sotto l’ipotesi dell’art. 318 c.p., con il mettersi a disposizione agli interessi dell’extraneus, e tramite l’asservimento della funzione pubblica ad interessi privati, al di là dell’adozione di atti determinati.
In quest’ultimo senso, la posizione del Consigliere di Stato condannato è stata definita dal Tribunale di Roma in termini “parassitari, ossia di vera e propria ricerca di rendita, tipica del funzionario corrotto che può contare (…) sulla stabilità del patto illecito e sull’appartenenza ad una selezione cerchia di beneficiari, condizioni che rendono efficace e sicura la ripartizione di lucrosi profitti nel lungo termine ed a più riprese”.
I REATI DI CORRUZIONE E IL RUOLO DEL PUBBLICO UFFICIALE "PRESSO" IL COLLEGIO GIUDICANTE
Il delitto descritto dall’art. 319-ter del codice penale consiste in una fattispecie autonoma rispetto ai delitti di cui agli artt. 318 e 319 c.p., la cui peculiarità è individuabile nell’oggetto del “pactum sceleris”, consistente nel compimento di un fatto corruttivo al fine di favorire o danneggiare una parte in un processo (civile, penale o amministrativo, ma anche, estensivamente, tributario o dinanzi alla Corte dei Conti).
Tale elemento costitutivo determina la natura plurioffensiva del reato, idoneo a ledere non solo il buon andamento e l’imparzialità dell’attività amministrativa – al pari delle altre fattispecie corruttive – ma anche il corretto esercizio delle funzioni giudiziarie.
A ciò corrisponde un inasprimento sanzionatorio rispetto alle fattispecie di cui all’art. 318 e 319 c.p., al quale si affianca l’aggravamento della pena per l’ipotesi in cui dal fatto derivi un’ingiusta condanna di natura penale.
Ulteriore elemento specializzante è la particolare connotazione soggettiva dell’autore del reato, che deve rivestire necessariamente la qualifica di pubblico ufficiale.
Sotto quest’ultimo profilo, occorre precisare che, secondo l’orientamento giurisprudenziale più recente, l’individuazione del soggetto agente e la perimetrazione della nozione di pubblico ufficiale richiamata dall’art. 319-ter c.p. devono essere condotte alla luce di una nozione ampia di atti giudiziari, nella quale viene fatto rientrare ogni atto funzionale ad un procedimento giudiziario, che si ponga quale strumento per arrecare un favore o un danno nei confronti di una parte del processo.
Da tale soluzione ermeneutica discende che la predetta qualifica soggettiva può essere rivestita da tutti quei pubblici ufficiali che si trovino a compiere degli atti, direttamente o indirettamente, idonei ad influire sull’esito di un processo (ad esempio, il teste che deponga nell’ambito di un processo penale o il funzionario di cancelleria).
Di regola, peraltro, il pactum sceleris interviene tra un privato extraneus ed un magistrato con funzioni requirenti o giudicanti, il quale in simili ipotesi viene meno ai propri doveri costituzionali di imparzialità e terzietà soggettiva e oggettiva, alterando così la dialettica processuale.
La condotta tipica del delitto di corruzione in atti giudiziari viene descritta mediante il rinvio agli artt. 318 e 319 c.p., i quali prevedono e puniscono rispettivamente la corruzione per l’esercizio della funzione e la corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio.
Il delitto di cui all’art. 318 c.p., riformulato nella sua struttura nel 2012 – e, quanto al trattamento sanzionatorio, nel 2019 – consiste nel ricevere, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o nell’accettarne la promessa per l’esercizio della propria funzione o del proprio potere.
Ai fini della consumazione del reato, pertanto, è richiesta la conclusione di un accordo avente ad oggetto la compravendita dell’esercizio delle funzioni o dei poteri di un funzionario pubblico, intervenuto tra un extraneus, che dà o promette denaro o altra utilità, ed un intraneus che riceve tali beni o ne accetta la promessa.
In particolare, tale delitto si configura per effetto della violazione del dovere di ricevere indebite remunerazioni per lo svolgimento del munus publicum, prescindendo dal giudizio di conformità o meno ai doveri di ufficio della condotta posta in essere in adempimento dell’accordo corruttivo.
In seguito alla novella introdotta con la legge n. 190 del 2012, la commissione dell’illecito è svincolata dal compimento di uno specifico atto di ufficio e il disvalore del fatto discende dall’indebita remunerazione per l’esercizio delle funzioni ossia dall’asservimento della funzione pubblica ad interessi privati e della messa a disposizione retribuita del soggetto pubblico (c.d. messa a libro paga).
Quanto alla fattispecie di cui all’art. 319 c.p., il delitto di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio consiste nel fatto del pubblico ufficiale che riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa per omettere o ritardare o per avere omesso o ritardato un atto del suo ufficio ovvero per compiere o avere compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio.
Anche in questo caso si è in presenza di un accordo tra un intraneus, che riceve o accetta una promessa di denaro o altra utilità, e un extraneus che dà o promette denaro o altra utilità.
La principale differenza tra tale delitto e quello di cui all’art. 318 c.p. è ravvisabile nella centralità assunta dal compimento dell’atto, che, a seconda dei casi, può essere un atto dell’ufficio omesso o ritardato o un atto contrario ai doveri di ufficio.
In altri termini, il reato di cui all’art. 318 c.p. ha natura di reato di pericolo, e lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi è sussumibile nella previsione di cui all’art. 319 c.p. soltanto se la messa a disposizione della funzione abbia in concreto prodotto il compimento di specifici e individuabili atti contrari ai doveri di ufficio.
La linea di confine tra la fattispecie sulla funzione di cui all’art. 318 c.p. e quella di cui all’art. 319 c.p. cade dunque sul grado di determinatezza dell’oggetto dell’accordo corruttivo e comunque dell’atto da compiere; se l’utilità viene corrisposta per garantire atti non determinati né determinabili e quindi generici e futuri favori resta integrata la fattispecie della corruzione per l’esercizio della funzione, ma se sussiste una vera e propria “vendita” della funzione si rientra nell’ipotesi di cui all’art. 319 c.p., qualora venga provato che oggetto del patto corruttivo sia la stessa funzione, che viene integralmente asservita agli interessi del privato.
Soltanto con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 319 c.p., poi, ha rilievo la distinzione tra corruzione antecedente – riferibile alle situazioni in cui l’accordo corruttivo si correli ad un atto che il pubblico ufficiale deve ancora compiere – e corruzione susseguente – qualora l’accordo corruttivo si riferisca ad un atto che il pubblico ufficiale ha già compiuto.
Nella sfera di applicazione dell’art. 319-ter c.p. rientrano tutte le categorie delittuose previste dalle fattispecie di cui agli artt. 318 e 319 c.p., ivi comprese anche le ipotesi di corruzione susseguente.
Ciò che conta, per la configurabilità del più grave delitto di corruzione in atti giudiziari, è la finalità perseguita al momento del compimento dell’atto dal pubblico ufficiale: se essa è diretta a favorire o danneggiare una parte in un processo, è indifferente che l’utilità data o promessa sia antecedente o susseguente al compimento dell’atto, come pure è irrilevante stabilire se l’atto in concreto sia o non sia contrario ai doveri di ufficio.
Quanto all’elemento soggettivo, poi, ai fini dell’integrazione dell’illecito previsto dall’art. 319-ter c.p. è necessario che la condotta sia sorretta dal dolo specifico, consistente nel fine di favorire una parte in un processo civile, penale o amministrativo (ma anche tributario o dinanzi alla Corte dei Conti).
Qualora un magistrato sia parte di un accordo corruttivo sorretto dall’elemento psicologico sopra citato, il disvalore della condotta è tale da rendere indifferente che l’atto compiuto sia conforme o meno ai doveri di ufficio, andando ad inficiare il metodo con cui si perviene alla decisione, giacché il giudice che riceva da una delle parti denaro o altra utilità, o ne accetti la promessa, rimane inevitabilmente condizionato nei suoi percorsi valutativi, e la soluzione del caso portato al suo esame – pur se formalmente corretta sul piano giuridico – soffre comunque dell’inquinamento metodologico “a monte”.
Inoltre, la particolare potenzialità offensiva del fatto è considerata tale da compromettere anche le deliberazioni assunte da un collegio giudicante, sul presupposto che la presenza di un componente privo del requisito dell’imparzialità, perché partecipe ad un accordo corruttivo, inficia, nonostante l’estraneità degli altri componenti all’accordo corruttivo, la validità dell’intero iter decisionale, per sua natura dialettico e sinergico.
Sotto quest’ultimo profilo, una differenza rispetto alla validità del provvedimento giudiziario emanato può essere rinvenuta tra l’ipotesi in cui il corrotto faccia parte del collegio giudicante e l’ipotesi in cui il corrotto non faccia parte del collegio giudicante, ma si attivi “dall’interno” – in quanto magistrato dello stesso Ufficio giudiziario – per favorire una parte del processo.
La struttura del reato (reato di pericolo astratto) è tale da consentire l’incriminazione e la condanna del magistrato, anche se questi accetta denaro o promessa di denaro per favorire una decisione alla quale non parteciperà, e a prescindere dal “buon esito” del suo intervento sulla decisione stessa.
Se tuttavia il magistrato del collegio decidente che ha subito “pressioni” dal corrotto, pur nella inconsapevolezza dell’esistenza a monte di un accordo corruttivo, si fa influenzare da tali pressioni, non denunciandole nelle competenti sedi o comunque avallando in sede decisoria gli argomenti giuridici a lui “suggeriti”, anche solo sulla base di un rapporto di amicizia e/o stima professionale, la mancata configurazione nella sua condotta del reato di corruzione in atti giudiziari - non sussistendone né l’elemento oggettivo né l’elemento soggettivo – non escluderà la possibile realizzabilità, da parte sua, di una violazione deontologica, in quanto ai magistrati è affidata in ultima istanza la tutela dei diritti di ogni consociato, e per tale ragione gli stessi sono tenuti non solo a conformare oggettivamente la propria condotta ai più rigorosi standard di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio nell’esercizio delle funzioni, ma anche ad apparire indipendenti e imparziali agli occhi della collettività, evitando di esporsi a qualsiasi sospetto di perseguire interessi di parte nell’adempimento delle proprie funzioni.
E ciò, secondo la Corte costituzionale (cfr. sentenza n. 197 del 2018) “per evitare di minare, con la propria condotta, la fiducia dei consociati nel sistema giudiziario, che è valore essenziale per il funzionamento dello Stato di diritto”.