(Nota a margine della sentenza della Cass. Sez. Un. 14 aprile 2021, n. 9839)
1. Premessa.
Le Sezioni Unite intervengono con una importante e attesa decisione che consente di fare chiarezza in ordine ad alcune questioni in diritto che da anni dividono la giurisprudenza e che sono di rilevanza centrale nell’ambito dei giudizi in materia condominiale.
La controversia che ha originato la decisione della Suprema Corte è la – si può dire “ordinaria” – opposizione a decreto ingiuntivo interposta da un condomino avverso il provvedimento monitorio emesso dal Tribunale di Messina su ricorso del Condominio per il pagamento della quota delle spese relative ai lavori di rifacimento e di impermeabilizzazione del lastrico solare dell'edificio condominiale, poste a carico dell'ingiunto nella misura di cui all'art. 1126 c.c.
Nella sua difesa in giudizio, in particolare, l’opponente aveva contestato il fatto che nessuna delle deliberazioni assembleari poste a fondamento del decreto avrebbe disposto la ripartizione delle spese di riparazione del lastrico solare secondo il criterio di cui all'art. 1126 c.c. (un terzo a carico dei condomini che ne hanno l'uso esclusivo, due terzi a carico degli altri); che la deliberazione del 14 dicembre 1999 sarebbe stata affetta da nullità per mancata comunicazione dell'avviso di convocazione dell'assemblea; che, in ogni caso, le spese afferenti il lastrico solare avrebbero dovuto essere ripartite secondo le quote millesimali, come previsto dall'art. 1123 c.c., e non secondo il criterio di cui all'art. 1126 c.c., in quanto egli, pur essendo proprietario del lastrico, non ne avrebbe avuto l'uso esclusivo, essendo lo stesso adoperato indistintamente da tutti i condomini.
In altre parole, come spesso, anzi normalmente, accade nelle opposizioni a decreto ingiuntivo, l’opponente ha contestato la validità ed efficacia del “titolo” del credito oggetto del provvedimento monitorio, cioè la delibera assembleare.
Conseguentemente, i motivi di ricorso in Cassazione sui quali sono intervenute le Sezioni Unite riguardano le seguenti questioni:
a. se le deliberazioni dell'assemblea condominiale, con le quali le spese per la gestione delle cose e dei servizi comuni siano ripartite tra i condomini in violazione dei criteri legali dettati dagli artt. 1123 ss. c.c. o stabiliti con apposita convenzione, debbano ritenersi sempre affette da nullità (come tali sottratte al regime di cui all'art. 1137 c.c.) ovvero se le dette deliberazioni possano ritenersi nulle soltanto quando l'assemblea abbia inteso modificare stabilmente (a maggioranza) i criteri di riparto stabiliti dalla legge o dalla unanime convenzione, dovendo invece ritenersi meramente annullabili (come tali soggette alla disciplina dell'art. 1137 c.c.) nel caso in cui tali criteri siano soltanto episodicamente disattesi;
b. se, nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione dei contributi per le spese condominiali, ai sensi dell'art. 63 disp. att. c.c., il giudice possa sindacare le eventuali ragioni di nullità della deliberazione assembleare di ripartizione delle spese su cui è fondata l'ingiunzione di pagamento ovvero se, invece, la delibazione della nullità della deliberazione debba essere riservata al giudice davanti al quale la medesima sia stata impugnata in via immediata nelle forme di cui all'art. 1137 c.c..
2. La prima questione (sub b che precede): può il giudice dell’opposizione sindacare la validità della deliberazione assembleare di ripartizione delle spese su cui è fondata l'ingiunzione di pagamento?
La necessità di dare una risposta univoca a tale quesito discende dal fatto che la stessa giurisprudenza di legittimità si è fortemente divisa dando origine a due orientamenti sostanzialmente opposti.
Secondo un “tradizionale” orientamento, infatti, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo concernente il pagamento di contributi per le spese condominiali, il condomino opponente non può far valere questioni attinenti alla validità della delibera condominiale, ma solo questioni riguardanti l'efficacia della medesima [1]: in particolare, il giudice dell'opposizione deve limitarsi a verificare la perdurante esistenza ed efficacia della delibera assembleare, senza poter sindacare, neppure in via incidentale, la sua validità, essendo tale sindacato riservato al giudice davanti al quale detta delibera sia stata impugnata [2].
L’opposizione avente ad oggetto “il titolo” del credito, ovvero la delibera condominiale, può quindi essere accolta solo se quest’ultima abbia perduto la sua efficacia, per essere stata, nell’ambito di un diverso giudizio, annullata o per esserne stata sospesa l'esecuzione dal giudice dell'impugnazione [3].
Secondo un diverso orientamento, affermatosi più di recente nella giurisprudenza di legittimità, invece, il giudice dell’opposizione, può, anche d’ufficio, rilevare l’invalidità della delibera condominiale costituente il “titolo” del credito, qualora il vizio della delibera integri un’ipotesi di nullità: la validità della delibera, infatti, rappresenta un elemento costitutivo della domanda di pagamento, ed essendo la stessa nulla, non può produrre effetti, sicché da essa non può sorgere alcun diritto di credito in capo al Condominio [4].
Le Sezioni Unite nel rispondere al suesteso quesito hanno – condivisibilmente - rilevato come manchino ragioni sufficienti per negare al giudice dell'opposizione al decreto ingiuntivo il potere di sindacare la validità della deliberazione assembleare posta a fondamento dell'ingiunzione, dovendosi, anzi, sottolineare come tale potere di accertamento sia necessariamente connaturato con la natura del procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo, sia pure tenendo conto delle specificità della fattispecie in esame.
Secondo i principi generali, infatti, l'opposizione a decreto ingiuntivo apre un ordinario giudizio di cognizione sulla domanda proposta dal creditore con il ricorso per ingiunzione, il cui oggetto non è ristretto alla verifica delle condizioni di ammissibilità e di validità del decreto stesso, ma si estende all'accertamento dei fatti costitutivi del diritto in contestazione, ossia al merito del diritto fatto valere dal creditore con la domanda di ingiunzione [5].
In questo senso, quindi, trattandosi di un ordinario giudizio di cognizione, il giudice dell’opposizione, nell’accertare se il decreto emesso sia da confermare o revocare, deve necessariamente verificare non solo l’efficacia, ma anche la validità del titolo posto a fondamento dell'ingiunzione, trattandosi di un presupposto imprescindibile per la pronuncia di rigetto o di accoglimento dell’opposizione.
Per contro, manca, nella materia condominiale, una puntuale previsione di legge che deroghi a tale principio generale, tanto da giustificare l’applicazione di una sorta di ius singulare.
Sotto altro profilo, del resto, il potere-dovere del giudice dell’opposizione a decreto ingiuntivo, emesso a tutela di un credito originato da una delibera assembleare, di decidere anche in ordine all’accertamento della nullità o annullabilità della delibera risponde ad un principio di economia processuale, nel rispetto del precetto costituzionale della ragionevole durata del processo (art. 111, comma 2, Cost.). Attraverso la concentrazione delle tutele si evita, altresì, il contrasto di giudicati: argomentando in senso contrario, infatti, si incorre nel rischio di moltiplicare i giudizi, il condomino “ingiunto” vedendosi, da un lato, respingere l’opposizione a decreto ingiuntivo e, dall’altro, dovendo proporre un autonomo giudizio impugnatorio per contestare il titolo, con il paradosso di dover altresì procedere ad un giudizio di opposizione all’esecuzione o di accertamento e ripetizione di indebito per recuperare quanto eventualmente ingiustamente corrisposto.
Confermato il potere del giudice dell’opposizione di conoscere anche della validità del “titolo” del credito, si pone il problema della “latitudine” in concreto di tale potere.
Certamente esso comprende il potere di accertare, anche d’ufficio, la nullità della delibera assembleare.
La nullità, infatti, costituisce un vizio radicale del negozio giuridico, anche unilaterale o collegiale, che, salvi i casi e le particolari fattispecie previste da puntuali norme di legge, impedisce allo stesso di produrre effetti nel mondo del diritto [6], sì che tale vizio può essere fatto valere da chiunque vi abbia interesse [7], nonché può essere anche rilevato d’ufficio dal giudice, previa instaurazione del contraddittorio tra le parti ai sensi dell’art. 101 c.p.c. [8].
D’altronde, il potere di accertamento non può essere escluso nemmeno per il vizio dell’annullabilità, sia pure con le particolarità che si andranno subito ad esaminare.
L’annullabilità, al contrario della nullità, in via generale, non può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse [9], ma solo dalla parte nel cui interesse è prevista tale facoltà dalla legge [10], così come non è imprescrittibile, ma, di regola, si prescrive in cinque anni [11]; non solo, ma spesso, come nel caso dell’art. 1137 c.c. del resto, la domanda di annullamento può essere sottoposta ad un termine di decadenza breve.
Tale ultima norma, al comma secondo [12], prevede, infatti, che, contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio, ogni condomino assente, dissenziente o astenuto può adire l'autorità giudiziaria chiedendone l'annullamento nel termine perentorio di trenta giorni, che decorre dalla data della deliberazione per i dissenzienti o astenuti e dalla data di comunicazione della deliberazione per gli assenti.
Tale norma, d’altronde, non prevede, nemmeno in via meramente interpretativa, che l'esercizio dell'azione di annullamento sia riservata ad un apposito autonomo giudizio a ciò destinato, sicché l’opponente a decreto ingiuntivo, rivestendo la qualità di convenuto sostanziale [13], può, al fine di contestare l’annullabilità della delibera assembleare, proporre domanda riconvenzionale esercitando la domanda di annullamento ai sensi dell’art. 1137, comma 2, c.c.
D’altronde, la specificità della fattispecie disciplinata dall’art. 1337, comma 2, c.c. si rivela nel senso che la contestazione dell’annullabilità, avanti al giudice dell’opposizione, non solo dipende dalla domanda di parte [14], ma può essere proposta solo in via di azione, attraverso, quindi, una domanda – ancorché riconvenzionale – e non in via di mera eccezione.
In altre parole, secondo le Sezioni Unite, in deroga rispetto, ad es., a quanto previsto dall’art. 1442, comma 3, c.c., l’annullamento della delibera assembleare condominiale può essere domandato o con autonoma domanda in un autonomo e separato giudizio, ovvero con la domanda riconvenzionale in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, ma non può essere meramente eccepita l’annullabilità della delibera.
L’impossibilità di far valere in via di mera eccezione l’annullamento discenderebbe, secondo la Cassazione, in primo luogo, dalla ratio sottesa alla previsione dell’art. 1137 c.c., che, come detto, impone, tra l’altro, un termine molto breve di decadenza: occorre garantire la certezza e la stabilità dei rapporti condominiali, al fine di consentire un’adeguata conservazione e gestione delle cose comuni da parte del Condominio, nell’interesse dei partecipanti allo stesso.
In senso conforme, per un verso, l’art. 1137, comma 3, c.c. ha sancito il principio dell'esecutività delle deliberazioni dell'assemblea, prevedendo che l'azione di annullamento non sospende l'esecuzione della deliberazione, salvo che la sospensione sia ordinata dall'autorità giudiziaria.
Per altro verso, l’art. 1137, comma 1, c.c. impone l’obbligatorietà delle delibere assembleari per tutti i condomini, anche, quindi, per i condomini dissenzienti, astenuti o assenti, effetto cui si correla il principio [15] secondo il quale la sentenza di annullamento della deliberazione dell'assemblea ha efficacia di giudicato, in ordine alla causa di invalidità accertata, nei confronti di tutti i condomini, compresi quelli che non abbiano partecipato al giudizio di impugnativa promosso da uno o da alcuni di loro [16].
Ciò comporta, d’altronde, che, la delibera, avendo un’efficacia “inscindibile” nei confronti di tutti i condomini, sì che non è possibile che la stessa sia obbligatoria per alcuni e non per altri, non possa essere giudizialmente annullata con effetto limitato al solo impugnante, rimanendo invece vincolante per gli altri partecipanti: <<la natura di ente collettivo del condomino, gestore di beni e di servizi comuni, esige che le deliberazioni assembleari debbano valere o non valere per tutti>>.
Di qui la necessità che l’annullabilità della delibera assembleare sia sollevata attraverso la proposizione di una specifica domanda – anche riconvenzionale – attraverso la quale ottenere una pronuncia costitutiva di “rimozione” (l’annullamento) dell’atto in questione, avente un effetto “erga omnes” (rispetto alla collettività condominiale).
Ovviamente, la domanda riconvenzionale proposta in sede di opposizione a decreto ingiuntivo deve essere proposta, dall’opponente, quale convenuto in senso sostanziale, a pena di decadenza con l’atto di citazione in opposizione, che corrisponde alla comparsa di risposta del convenuto di cui all'art. 167 c.p.c. [17].
L’eccezione di annullamento, al contrario, avrebbe solo l’effetto di “paralizzare” nei confronti dell’ingiunto la vincolatività della delibera, permanendo, d’altronde, la validità ed efficacia della stessa nei confronti degli altri condomini.
Ciò in contrasto con l’esigenza, sopra ricordata, di garantire la stabile e ordinata gestione del condominio: nel caso di annullabilità delle delibere che, come nel caso di specie, prevedono i riparti delle quote di contribuzione alle spese condominiali, incidere su una delle quote in capo a un singolo condomino, significa incidere su tutte le altre. Ciascuna quota di contribuzione di ciascun partecipante al condominio, infatti, è rapportata alla quota di contribuzione degli altri.
Secondo le Sezioni Unite, quindi, l’art. 1137, comma 2, c.c. costituisce <<norma speciale di ordine pubblico>>, posta a tutela dell'interesse pubblico al funzionamento della collettività condominiale, derogatoria rispetto alle ordinarie regole dettate nella materia contrattuale.
In tal senso, quindi, si tratterebbe di materia sottratta alla disponibilità delle parti, di modo che la mancata deduzione dell’annullabilità nelle forme prescritte dalla legge, ossia con l'azione di annullamento, dà luogo a decadenza per mancato compimento dell'atto previsto dalla legge, che è rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del procedimento (a differenza di quanto vale per la decadenza discendente dalla scadenza del termine di cui all'art. 1137, secondo comma, cod. civ., che è riservata all'eccezione di parte, ai sensi dell'art. 2969 cod. civ.).
Il giudice, quindi, deve dichiarare inammissibile l'eventuale eccezione con cui, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, l'opponente deduca l'eventuale annullabilità della deliberazione posta a fondamento dell'ingiunzione senza formulare specifica domanda riconvenzionale al riguardo o senza aver, separatamente, esperito autonomo giudizio di annullamento in via principale.
A questo proposito, la Corte precisa che l’eventuale giudizio autonomo di annullamento può non essere antecedente, ma anche solo essere instaurato successivamente a quello di opposizione a decreto ingiuntivo, purché nel rispetto del sopra ricordato termine di decadenza dell’azione.
Al riguardo, ciascun condomino è tenuto, secondo quanto prescrive l'art. 1137 c.c., a far valere l'annullabilità della deliberazione dell'assemblea condominiale, a pena di decadenza, entro il termine perentorio di trenta giorni decorrente, per i condomini assenti, dalla comunicazione della deliberazione (e, per i condomini dissenzienti o astenuti, dalla data della sua approvazione), quest’ultima divenendo, in mancanza, valida ed efficace nei confronti di tutti i partecipanti al condominio [18].
La decadenza dal diritto di impugnare per l'avvenuta scadenza del termine perentorio, d’altronde, essendo di carattere temporale e relativa ad una materia non sottratta alla disponibilità delle parti, non può essere rilevata d'ufficio dal giudice (art. 2969 cod. civ.), ma è deducibile solo dalla parte a mezzo di eccezione [19].
3. La seconda questione (sub a che precede): la delibera assembleare che viola i criteri dettati dagli artt. 1123 e ss. c.c. è annullabile o nulla?
La sentenza in commento, al riguardo, rammenta come prima dell’arresto delle stesse sezioni Unite, con la pronuncia 7 marzo 2005, n. 4806, la Suprema Corte aveva affermato che <<riguardo alle delibere della assemblea di condominio aventi ad oggetto la ripartizione delle spese comuni, occorre distinguere quelle con le quali sono stabiliti i criteri di ripartizione ai sensi dell'art. 1123 cod. civ. ovvero sono modificati i criteri fissati in precedenza, per le quali è necessario, a pena di radicale nullità, il consenso unanime dei condomini, da quelle con le quali, nell'esercizio delle attribuzioni assembleari previste dall'art. 1135, nn. 2 e 3, cod. civ., vengono in concreto ripartite le spese medesime, atteso che soltanto queste ultime, ove adottate in violazione dei criteri già stabiliti, devono considerarsi annullabili e la relativa impugnazione va proposta nel termine di decadenza, di trenta giorni, previsto dall'art. 1137, secondo comma, cod. civ.>> [20].
Le Sezioni Unite, con la pronuncia da ultimo citata hanno più in generale tracciato il criterio discretivo tra annullabilità e nullità nel senso che tale ultimo vizio “radicale” sussiste nel caso di delibere condominiali prive degli elementi essenziali, con oggetto impossibile o illecito (contrario all'ordine pubblico, alla morale o al buon costume), con oggetto che non rientra nella competenza dell'assemblea, di delibere che incidono sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini, di delibere comunque invalide in relazione all'oggetto.
Sono solamente annullabili, invece, le delibere con vizi relativi alla regolare costituzione dell'assemblea, quelle adottate con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale, quelle affette da vizi formali, in violazione di prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari, attinenti al procedimento di convocazione o di informazione dell'assemblea, quelle genericamente affette da irregolarità nel procedimento di convocazione, quelle che violano norme richiedenti qualificate maggioranze in relazione all'oggetto.
Le Sezioni Unite, quindi, avevano distinto tra “vizi di sostanza” (nullità) e “vizi di forma” (annullabilità).
I primi, attinenti al contenuto delle deliberazioni, ricorrono quanto le delibere presentano un oggetto impossibile o illecito.
I vizi “di forma”, afferendo alle regole procedimentali per la formazione delle deliberazioni assembleari, ricorrono quando le deliberazioni sono state assunte dall'assemblea senza l'osservanza delle forme prescritte dall'art. 1136 c.c. per la convocazione, la costituzione, la discussione e la votazione in collegio, pur sempre nei limiti delle attribuzioni specificate dagli artt. 1120, 1121, 1129, 1132, 1135 c.c.
A fronte di tale criterio discretivo, d’altronde, con riguardo alle delibere assembleari aventi ad oggetto la ripartizione, tra i condòmini, delle spese afferenti alla gestione delle cose e dei servizi comuni in violazione dei criteri stabiliti dalla legge (artt. 1123 e segg. cod. civ.) o dal regolamento condominiale contrattuale, si è delineato un contrasto nella giurisprudenza di legittimità.
Secondo alcune pronunce, infatti, riprendendo l’orientamento tradizionale sopra ricordato, occorre distinguere tra i casi di nullità, quando con le delibere, a maggioranza, siano stabiliti o modificati i criteri di ripartizione delle spese comuni in difformità da quanto previsto dall'art. 1123 c.c. o dal regolamento condominiale contrattuale, essendo in tal caso necessario per esse il consenso unanime dei condomini; e i casi di annullabilità, con conseguente rispetto del termine di decadenza ex art. 1137, comma 2, c.c. - per le delibere con cui l'assemblea, nell'esercizio delle attribuzioni previste dall'art. 1135, nn. 2 e 3, c.c., determina in concreto la ripartizione delle spese medesime in violazione dei criteri dettati dall’art. 1123 c.c. o stabiliti convenzionalmente da tutti i condomini [21].
Secondo un altro orientamento, invece, le deliberazioni dell'assemblea adottate in violazione dei criteri normativi o regolamentari di ripartizione delle spese sono da considerare comunque nulle per impossibilità dell'oggetto, e non meramente annullabili, seppur limitate alla suddivisione di un determinato affare o di una specifica gestione, trattandosi di invalidità da ricondursi alla "sostanza" dell'atto e non connessa con le regole procedimentali relative alla formazione delle decisioni del collegio, non potendo la maggioranza dei partecipanti incidere sulla misura degli obblighi dei singoli condomini fissata per legge o per contratto [22].
Le Sezioni Unite, con la pronuncia in esame, pur partendo dalla “bipartizione” di cui alla precedente decisione del 2005, hanno modificato il contenuto della stessa, valorizzando e declinando la dicotomia nullità-annullabilità in relazione alla specificità della materia condominiale e, in particolare, di quanto previsto dall’art. 1137 c.c.
In termini generali, la “nullità” è una categoria dell’invalidità dei negozi giuridici la cui immanenza nell’ordinamento prescinde dalla puntuale previsione di essa per ciascuna tipologia di negozi, l’elaborazione della stessa essendo fondata sulla mancanza o sull’impossibilità di un elemento [23] o comunque su un vizio “strutturale” dell’atto giuridico di riferimento, ovvero sul contrasto dell’atto giuridico con i valori fondanti del sistema giuridico [24].
L’art. 1418 c.c., in tal senso, individua tra le cause di nullità del contratto, la mancanza di uno degli elementi essenziali (l'accordo delle parti; la causa; l'oggetto; la forma quando richiesta a pena di nullità), nonché l’illiceità degli stessi, intesa come contrarietà alle norme imperative, all'ordine pubblico o al buon costume.
Ai sensi dell’art. 1324 c.c., salvo diverse disposizioni di legge, le norme che regolano i contratti si osservano, in quanto compatibili, per gli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale.
D’altronde, occorre verificare se e in quali termini le previsioni dell’art. 1418 c.c. possano valere per le deliberazioni dell’assemblea di condominio: si tratta in tal caso, infatti, non di un contratto, e nemmeno di un atto unilaterale, ma di un atto collegiale, fondato, peraltro, sul principio maggioritario, in ordine al quale, come detto, sussiste una disciplina speciale relativa alle impugnazioni in materia condominiale, quella dell’art. 1337 c.c.
A questo proposito, la disciplina condominiale, più che quella della comunione, è, a ben vedere, specificamente orientata a garantire la stabilità e certezza dei rapporti condominiali, al fine di consentire una gestione adeguata della “cosa comune”.
Il Condominio, infatti, a differenza della comunione “ordinaria” si caratterizza per essere una “comunione forzosa” per la gestione di una serie di beni e utilità comuni al fine di garantire a ciascun condomino il miglior godimento delle singole proprietà individuali che vengono a trovarsi fisicamente, oltreché funzionalmente, in qualche modo tra loro connesse o comunque tra di loro “interferenti”.
La più volte citata necessità di certezza, stabilità e funzionalità della gestione delle parti comuni, giustifica, quindi, da un lato, che la volontà del gruppo venga sublimata dalle decisioni della maggioranza, tramite il c.d. “metodo collegiale” con adozione del principio maggioritario, e che tali decisioni siano, come detto, vincolanti per tutti i condomini, ancorché dissenzienti o assenti; dall’altro lato, le delibere dell’assemblea, ancorché annullabili, sono efficaci ed esecutive finché non sono sospese ovvero annullate dal giudice.
In questo senso, non irrilevante, secondo le Sezioni Unite, è il fatto che l’art. 1137 c.c. non contempli delle ipotesi di nullità specifiche delle delibere assembleari, a differenza di quanto previsto dal legislatore in materia societaria [25], laddove, pure, le decisioni dell’assemblea sono regolate dal principio maggioritario.
Non solo, ma il legislatore ha, secondo la Suprema Corte, accentuato il disfavore nei confronti della categoria della nullità applicata alle delibere condominiali, avendo modificato l’art. 1137 c.c. [26] facendo specifico riferimento all’azione di “annullamento” - lemma non presente nella disposizione in precedenza – da proporre «contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio».
Ciò, se non esclude l’applicabilità della categoria generale della nullità, in mancanza di espressa previsione contraria, o di disposizioni che comunque espressamente ne circoscrivono la portata (come in ambito societario), impone di doverne ricostruire sul piano interpretativo in modo comunque “restrittivo” l’ambito di operatività.
Il legislatore, infatti, nell’elevare, come detto, l’annullabilità a categoria di rilevanza “generale” (a differenza che nel caso del contratto), ha, correlativamente, confinato la nullità nell’area della residualità e dell’eccezionalità [27].
Da ciò, secondo la Corte, si evince come il criterio distintivo tra “vizi di sostanza” e “vizi di forma”, indicato dalle stesse Sezioni Unite con la sentenza del 2005, non sia in realtà adeguato a dar conto del suddetto rapporto di regola-eccezione tra annullabilità e nullità in materia di delibere condominiali.
Stante la previsione generale del novellato art. 1137 c.c., l’annullabilità viene a riguardare tutte le delibere contrarie <<alla legge o al regolamento condominiale>>, tanto nel caso di vizio “di forma”, cioè afferente alle regole procedimentali, quanto in quello di vizi “sostanziali”, concernenti cioè il contenuto delle delibere.
In questo senso, quindi, secondo le Sezioni Unite, il carattere “residuale” della categoria della nullità in relazione alle delibere condominiali porta a doverne affermare l’applicabilità solo nei seguenti casi:
1) MANCANZA ORIGINARIA DEGLI ELEMENTI COSTITUTIVI ESSENZIALI, tale da determinare la deficienza strutturale della deliberazione: mutuando dal combinato disposto degli artt. 1418 e 1325 c.c., ciò vale nel caso di mancanza della volontà della maggioranza; dell’oggetto; della causa; della forma; esemplificativamente, la deliberazione adottata senza la votazione dell'assemblea; la deliberazione priva di oggetto, ossia mancante di un reale decisum ovvero con un oggetto non determinato né determinabile; la deliberazione priva di causa, carente cioè di una ragione pratica giustificativa della stessa che sia meritevole di tutela giuridica; la deliberazione non risultante dal verbale dell'assemblea, sprovvista perciò della necessaria forma scritta;
2) IMPOSSIBILITÀ DELL'OGGETTO, IN SENSO MATERIALE O IN SENSO GIURIDICO, da intendersi riferito al contenuto della deliberazione:
a) impossibilità materiale dell'oggetto della deliberazione: va valutata con riferimento alla concreta possibilità di dare attuazione a quanto deliberato;
b) impossibilità giuridica dell'oggetto: va valutata in relazione alle "attribuzioni" proprie dell'assemblea, la quale, essendo organo deliberativo della collettività condominiale, può occuparsi solo della gestione dei beni e dei servizi comuni ed è abilitata ad adottare qualunque provvedimento, non previsto dalla legge o dal regolamento di condominio (avendo le attribuzioni indicate dall'art. 1135 c.c. carattere meramente esemplificativo), purché destinato alla gestione delle cose e dei servizi comuni.
In questo senso, quindi, l'assemblea non può perseguire finalità extracondominiali [28], così come non può occuparsi dei beni appartenenti in proprietà esclusiva ai singoli condomini o a terzi: in particolare, nel caso di questioni che incidono sulle proprietà esclusive dei condomini non su parti comuni, non sarà mai possibile applicare il metodo collegiale-maggioritario, ma occorre l’acquisizione del consenso di tutti i soggetti interessati, attraverso quindi, lo strumento contrattuale (a fortiori nei riguardi della sfera giuridica di soggetti terzi rispetto alla comunità condominiale).
Pertanto, in caso di “straripamento” da parte dell’assemblea dalle attribuzioni stabilite dalla legge, secondo le Sezioni Unite, la deliberazione avrà un oggetto giuridicamente impossibile e risulterà viziata da "difetto assoluto di attribuzioni".
La Suprema Corte, quindi, fa riferimento al concetto di <<difetto assoluto di attribuzioni>>, <<quale vizio che non attiene al quomodo dell'esercizio del potere, ma attiene all'an del potere stesso; esso non dipende dal cattivo esercizio in concreto di un potere esistente, ma dalla carenza assoluta in astratto del potere esercitato: in tali casi, la deliberazione non è idonea a conseguire l'effetto giuridico che si proponeva, risultando affetta da nullità radicale per "impossibilità giuridica" dell'oggetto>>.
In tal senso, quindi, non di straripamento di potere, ma di mero cattivo esercizio dello stesso si deve parlare quando l'assemblea adotti una deliberazione che rientra nell'ambito delle proprie attribuzioni, attraverso un esercizio del potere ad essa conferito non conforme alle previsioni di legge; quando essa adotti, cioè, una deliberazione che le compete violando la legge, ma senza usurpare i poteri riconosciuti dall'ordinamento ad altri soggetti giuridici: in tali casi, la delibera "contraria alla legge" è solo annullabile, secondo la regola generale posta dall'art. 1137 c.c.
L'attinenza di una deliberazione alle attribuzioni assembleari va apprezzata avendo riguardo alla corrispondenza della materia deliberata a quella attribuita dalla legge, ossia avendo riguardo all'esistenza del potere, e non al modo in cui il potere è esercitato.
3. ILLICEITÀ: la deliberazione assembleare, pur essendo stata adottata nell'ambito delle attribuzioni dell'assemblea, risulta avere un "contenuto illecito" (art. 1343 c.c.), nel senso che il decisum risulta contrario a "norme imperative", all'"ordine pubblico" o al "buon costume".
a) le deliberazioni assembleari aventi contenuto contrario alle norme imperative, cioè norme non derogabili dalla volontà dei privati (elemento formale), poste a tutela degli interessi generali della collettività sociale o di interessi particolari che l'ordinamento reputa indisponibili, assicurandone comunque la tutela (elemento sostanziale): nella disciplina del condominio degli edifici, le norme inderogabili sono specificamente individuate dagli artt. 1138, comma 4, c.c. e 72, disp. att. c.c.;
b) le deliberazioni assembleari aventi contenuto contrario all'ordine pubblico, inteso quale complesso dei principi generali dell'ordinamento [29];
c) le deliberazioni aventi contenuto contrario al buon costume, inteso quest'ultimo come il complesso delle regole che costituiscono la morale della collettività sociale in un dato ambiente e in un determinato tempo.
Nei casi che precedono, la deliberazione assembleare, nonostante verta su una materia rientrante nelle attribuzioni dell'assemblea, si pone però in tale contrasto con i valori giuridici fondamentali dell'ordinamento da non poter trovare alcuna tutela giuridica, sicché la sua nullità può essere fatta valere in ogni tempo da chiunque vi abbia interesse (anche da parte del condomino che abbia votato a favore della sua approvazione).
Al di fuori delle ipotesi “residuali” sopra indicate, quindi, secondo le Sezioni Unite, ogni violazione di legge determina la mera annullabilità della deliberazione, che può essere fatta valere solo nei modi e nei tempi di cui all'art. 1137 c.c.
Con riferimento alle delibere di ripartizione delle spese tra condòmini, la violazione dei criteri di ripartizione stabiliti dall’ordinamento [30] certamente riguarda il “contenuto” della delibera, e certamente viene a configurarsi una contrarietà alla legge, con conseguente natura “sostanziale” del vizio, ma alla luce di quanto sopra indicato dalle Sezioni Unite, non sussistono i presupposti per qualificare il suddetto difetto in termini di nullità.
Le deliberazioni che ripartiscono le spese tra i condomini in contrasto con i criteri legali o convenzionali non sono, infatti, adottate in carenza di potere da parte dell'assemblea.
Il codice civile espressamente riconosce, tra le attribuzioni dell'assemblea condominiale da adottare col metodo maggioritario, l'approvazione e la ripartizione delle spese per la gestione ordinaria e straordinaria delle parti e dei servizi comuni (artt. 1135 nn. 2 e 4, 1120, 1123, 1128 c.c.).
Tali attribuzioni non vengono meno quando l'assemblea incorra in un cattivo esercizio del potere ad essa conferito, adottando un errato criterio di ripartizione delle spese, contrastante con la legge o col regolamento condominiale.
Neppure le deliberazioni che ripartiscono le spese tra i condomini in violazione dei criteri di legge o convenzionali potrebbero ritenersi nulle per il fatto che esse finiscono per incidere negativamente, pregiudicandola, sulla "sfera patrimoniale" dei singoli condomini.
Anche deliberazioni pacificamente annullabili (ad es. una deliberazione adottata in assenza di comunicazione dell'avviso di convocazione dell'assemblea a taluno dei condomini) possono provocare ricadute negative sul patrimonio di singoli condomini; ciò non vale, tuttavia, a ritenere tali deliberazioni affette da nullità.
[1] Cass. civ., sez. II, 7 novembre 2016, n. 22573, in Giust. civ. mass., 2016; Cass. civ., sez. II, 1 agosto 2006, n. 17486, in Giust. civ. mass., 2006, 7-8.
[2] Cass., sez. un., 18 dicembre 2009, n. 26629, in Arch. loc. cond., 2010, 3, 269; Cass., sez. II, 19 febbraio 2016, n. 3354, in Foro it. 2016, 5, I, con nota di Piombo; Cass., sez. II, 23 febbraio 2017, n. 4672, in Giust. civ. mass., 2017; Cass., sez. II, 28 marzo 2019, n. 8685, in Guida al dir., 2019, 34, 50; Cass., sez. II, 9 agosto 2019, n. 21240, in Giust. civ. mass., 2019.
[3] Cass., sez. II, 14 novembre 2012, n. 19938, in Arch. loc. cond., 2013, 2, 168; Cass., sez. VI, 24 marzo 2017, n. 7741, in Giust. civ. mass., 2017.
[4] Cass., sez. II, 12 gennaio 2016, n. 305, in Foro it. 2016, 5, I, 1758, con nota di Piombo; Cass., sez. II, 23 luglio 2019, n. 19832, in Giust. civ. mass., 2019;
[5] Cass., sez. un., 7 luglio 1993, n. 7448, in in Giust. civ., 1993, I, 2041; Cass., sez. III, 18 marzo 2003, n. 3984, in Giust. civ. mass., 2003, 540; Cass., sez. lav., 17 ottobre 2011, n. 21432, in Giust. civ. mass., 2011, 10, 1468.
[6] Quod nullum est, nullum producit effectum.
[7] Ai sensi dell’art. 1421 c.c.
[8] Cass., sez. un., 12 dicembre 2014, n. 26242, in Foro it., 2015, 3, I, 862, con nota di Adorno; Palmieri; Pardolesi; Di Ciommo; Pagliantini; Menchini; Proto Pisani.
[9] Salvi i casi di annullabilità assoluta, ad es., l’art. 1441, comma 2, c.c.
[10] Si vedano, ad es., non solo l’art. 1441 c.c., ma anche l’art. 427 c.c. e l’art. 428 c.c.
[11] Art. 1442 c.c.: quantomeno in via di azione, essendo imprescrittibile in via di eccezione ai sensi del relativo terzo comma.
[12] Come modificato dall’ dall'art. 15, comma 1, I. 11 dicembre 2012, n. 220.
[13] Al contrario dell'opposto, che assume la posizione sostanziale di attore: l’opponente, quindi, nel contestare il diritto azionato con il ricorso, può proporre domanda riconvenzionale, anche deducendo un titolo non strettamente dipendente da quello posto a fondamento della ingiunzione: da ultimo, Cass., sez. II, 4 marzo 2020, n. 6091, in Giust. civ. mass., 2020; Cass., sez. I, 22 giugno 2018, n. 16564, in Giust. civ. mass., 2018.
[14] Non potendo essere rilevata d’ufficio.
[15] Oggetto di specifica previsione in materia societaria: l’art. 2377 c.c. prevede che
[16] Cass., sez. II, 18 novembre 2019, n. 29878, in Banca dati Foro it, 2019; Cass., sez. VI, 18 settembre 2020, n. 19608, in Banca dati Foro it, 2020.
[17] Cass., sez. III, 20 ottobre 2006, n. 22528, in Giust. civ. mass., 2006, 10; Cass., sez. lav., 13 settembre 2003, n. 13467, in Foro it., 2004, I, 1480. La decadenza che - ai sensi dell'art. 167, comma 2, c.p.c.. - segue all'inosservanza di tale onere, essendo dettata nell'interesse pubblico all'ordinato sviluppo del processo, è rilevabile d'ufficio dal giudice (Cass., sez. II, 2 marzo 2007, n. 4901, in Giust. civ. mass., 2007, 3; Cass., sez. II, 13 agosto 2020, n. 17121, in Giust. civ. Mass., 2020.
[18] Cass., sez. un., 7 marzo 2005, n. 4806, in Foro it. 2006, 10, I, 2902.
[19] Cass., sez. II, 20 aprile 2005, n. 8216, in Giust. civ., 2006, 12, I, 2891, con nota di Del Buono; Cass., sez. II, 28 novembre 2001, n. 15131, in Giust. civ. mass., 2001, 2042.
[20] Cass., sez. II, 9 febbraio 1995, n. 1455, in Giust. civ. mass., 1995, 311; Cass., sez. II, 1 febbraio 1993, n. 1213, in Giust. civ. mass., 1993, 187.
[21] Cass., sez. II, 21 luglio 2006, n. 16793, in Giust. civ. mass., 2006, 7-8; Cass., sez. II, 27 luglio 2006, n. 17101, in Giust. civ. mass., 2006, 7-8; Cass., sez. II, 29 marzo 2007, n. 7708, in Giust. civ. mass., 2007, 3; Cass., sez. II, 19 marzo 2010, n. 6714, in Giust. civ. mass., 2010, 3, 400; Cass., sez. II, 15 febbraio 2011, n. 3704, in Guida al dir., 2011, 17, 105; Cass., sez. II, 10 maggio 2018, n. 11289, in Giust. civ. mass., 2018; Cass.,sez. II, 16 aprile 2019, n. 10586, in Guida al dir., 2019, 27, 59, con nota di Piselli.
[22] Cass., sez. II, 23 marzo 2016, n. 5814, in Guida al dir., 2016, 22, 48; Cass., sez. II, 4 agosto 2017, n. 19651, in Guida al dir., 2018, 1, 62; Cass., Sez. VI, 13 novembre 2018, n. 29220, in Riv. Giur. Ed., 2019, 1, I, 205; Cass., sez. II, 10 gennaio 2019, n. 470, Guida al dir., 2019, 19, 58.
Viene in tal senso valorizzata l’”eccedenza” della delibera rispetto alle attribuzioni dell’assemblea, con conseguente “impossibilità dell'oggetto”, finendo essa, comunque, per incidere negativamente sulla sfera patrimoniale del singolo condomino, allo stesso modo delle delibere c.d. normative (che stabiliscono i criteri di ripartizione delle spese per il futuro), cosicché l'adozione di esse necessiterebbe dell'accordo unanime di tutti i condomini.
[23] Costitutivo o requisito di efficacia.
[24] Così configurandosi come strumento di <<controllo normativo>>, a tutela dei valori preminenti della comunità.
[25] L’art. 2379 c.c. prevede specifiche ipotesi di nullità delle delibere assembleari adottate dall’assemblea dei soci. In particolare, ai sensi della predetta norma: <<nei casi di mancata convocazione dell'assemblea, di mancanza del verbale e di impossibilità o illiceità dell'oggetto la deliberazione può essere impugnata da chiunque vi abbia interesse entro tre anni dalla sua iscrizione o deposito nel registro delle imprese, se la deliberazione vi è soggetta, o dalla trascrizione nel libro delle adunanze dell'assemblea, se la deliberazione non è soggetta né a iscrizione né a deposito. Possono essere impugnate senza limiti di tempo le deliberazioni che modificano l'oggetto sociale prevedendo attività illecite o impossibili. Nei casi e nei termini previsti dal precedente comma l'invalidità può essere rilevata d'ufficio dal giudice. Ai fini di quanto previsto dal primo comma la convocazione non si considera mancante nel caso d'irregolarità dell'avviso, se questo proviene da un componente dell'organo di amministrazione o di controllo della società ed è idoneo a consentire a coloro che hanno diritto di intervenire di essere preventivamente avvertiti della convocazione e della data dell'assemblea. Il verbale non si considera mancante se contiene la data della deliberazione e il suo oggetto ed è sottoscritto dal presidente dell'assemblea, o dal presidente del consiglio d'amministrazione o del consiglio di sorveglianza e dal segretario o dal notaio. Si applicano, in quanto compatibili, il settimo e ottavo comma dell'articolo 2377>>.
[26] Nel testo introdotto dall’art. 15, l. 11 dicembre 2012, n. 220.
[27] Le Sezioni Unite, citano, a ritenuta comprova di ciò due ipotesi di nullità testuali previste dal legislatore con la riforma del 2012 che non concernono, però, le delibere assembleari: l’art. 1117 ter, comma 3, c.c., in materia di modifica delle destinazioni d’uso, in forza del quale <<la convocazione dell'assemblea, a pena di nullità, deve indicare le parti comuni oggetto della modificazione e la nuova destinazione d'uso>>; e l’art. 1129, comma 14, c.c., in forza del quale <<l'amministratore, all'atto dell'accettazione della nomina e del suo rinnovo, deve specificare analiticamente, a pena di nullità della nomina stessa, l'importo dovuto a titolo di compenso per l'attività svolta>>.
[28] Cass., sez. II, 6 marzo 2007, n. 5130, in Arch. Loc. e cond., 2007, 3, 273.
[29] Tale sarebbe, ad es., una deliberazione che introducesse discriminazioni di sesso o di razza tra i condomini nell'uso delle cose comuni.
[30] Cui afferiscono numerose disposizioni di legge: l'art. 1123 c.c., che detta il criterio generale per cui «Le spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, salvo diversa convenzione»; l'art. 1124 c.c., in tema di ripartizione delle spese per la manutenzione e la sostituzione delle scale e degli ascensori; l'art. 1125 c.c., in tema di ripartizione delle spese per la manutenzione e la ricostruzione dei soffitti, delle volte e dei solai; e lo stesso art. 1126 c.c., in tema di ripartizione delle spese per le riparazioni o le ricostruzioni dei lastrici solari di uso esclusivo.