Cassazione, Sezioni unite civili, ordinanza n. 8676 del 2023 (su TAR Lazio, sentenza n. 1700 del 2020/ Consiglio di Stato, sentenze nn. 4386/2021 e 3258/2022)
IL GIUDIZIO DI MERITO
La Corte di Cassazione ha dovuto decidere sul ricorso proposto da una candidata al concorso per commissario della Polizia di Stato, avverso la sentenza con cui il Consiglio di Stato ha chiuso la vicenda processuale iniziata sul versante della giustizia amministrativa.
E’ stato nello specifico contestato il vizio di eccesso di potere giurisdizionale in cui sarebbe incorso il Consiglio di Stato in sede di revocazione di una sua precedente sentenza, per avere operato uno sconfinamento nel potere della pubblica amministrazione, costituito nell’avere di fatto coniato una nuova norma sul sistema delle divise degli appartenenti alla Polizia di Stato e nell’avere arbitrariamente individuato quali siano i capi di abbigliamento che concorrono a formare la divisa da far indossare in sede di accertamento concorsuale.
Nel merito, la candidata in questione, nell’ambito del giudizio di accertamento dei requisiti psico-fisici di partecipazione al concorso, è stata dichiarata non idonea per la presenza sul suo corpo di un tatuaggio “visibile” all’esterno.
Invero, il regolamento sui requisiti di idoneità per l’ammissione ai concorsi per l’accesso ai ruoli della Polizia di Stato, adottato con decreto ministeriale 30 giugno 2003, n.198, all’art. 3, comma 2, prevede che costituiscono causa di non idoneità le imperfezioni indicate nella allegata tabella, tra cui sono compresi i tatuaggi sulle parti del corpo non coperte dall’uniforme - con riferimento alle uniformi utilizzabili nell’ambito del servizio – o quelli “deturpanti” o comunque “indice di personalità abnorme”.
Secondo un orientamento giurisprudenziale, tale visibilità deve presentare una certa evidenza, ovvero deve determinare l’impossibilità del tatuaggio di essere coperto indossando la divisa, posto che in linea generale la presenza di un tatuaggio sulla cute di un aspirante ad un pubblico impiego è di per sé circostanza irrilevante.
D’altra parte, anche nell’ambito degli ordinamenti militari o ad essi assimilati, la presenza di un tatuaggio non può costituire causa automatica di esclusione dal concorso per non idoneità, essendo necessario che tale alterazione acquisita della cute rivesta carattere “rilevante” e che sia idonea a compromettere il decoro della persona e dell’uniforme, con conseguente onere per l’Amministrazione di specificare, con adeguata motivazione, le ragioni in base alle quali la presenza di un tatuaggio possa assurgere a causa di non idoneità all’arruolamento.
Nella vicenda processuale in esame, il Giudice di primo grado aveva ritenuto illegittima la valutazione di inidoneità proprio in ordine alla visibilità del tatuaggio, in quanto lo stesso era in fase di rimozione, e dunque non avrebbe potuto essere considerato alla stregua di un “tatuaggio”, nella definizione regolamentare di esso.
Il TAR per il Lazio aveva concluso dunque nel senso che l’amministrazione non avrebbe potuto procedere all’automatica esclusione dal concorso per la sola presenza nella zona non coperta dall’uniforme di un “tatuaggio”, bensì avrebbe dovuto specificamente “motivare in che misura - tenuto conto dell’accertata fase di rimozione del tatuaggio - la visibilità fosse tale da determinare l’inidoneità al servizio di Polizia”.
Di diverso avviso era però stato il Giudice di secondo grado.
Il Consiglio di Stato, infatti, dopo avere premesso che i requisiti di idoneità ad una selezione pubblica devono essere posseduti entro la data di partecipazione alla selezione stessa e devono essere verificabili nei tempi previsti dal bando, pena la violazione della par condicio tra i concorrenti, ha affermato che non avesse alcun rilievo il fatto che il tatuaggio fosse stato completamente rimosso in un momento successivo all’accertamento concorsuale, che la Commissione medica intervenuta aveva fatto riferimento ad una documentazione fotografica da cui era evidente la presenza del tatuaggio, ancora percepibile nelle sue dimensioni complessive e nel soggetto raffigurato, e che la disposizione regolamentare in questione (divieto di tatuaggi “visibili”) avrebbe dovuto essere interpretata come riferita alle parti del corpo non coperte in senso fisico da capi di abbigliamento, quali pantaloni o giacche, con esclusione di valenza “coprente” da parte delle calze, non rilevando dunque che in sede di visita non siano state fatte indossare le calze medesime.
Il Consiglio di Stato aveva pertanto respinto in appello il ricorso, riformando in tal senso la decisione del TAR per il Lazio.
In sede di revocazione, peraltro, a fronte della prospettazione di un errore di fatto rilevante ai sensi dell’art. 395, n. 4), c.p.c., consistente in un errore percettivo nella valutazione dei presupposti di fatto, che sarebbe stato determinato dalla mancata considerazione della – asserita – non visibilità del tatuaggio e dall’aver motivato la decisione esclusivamente in astratto, sulla base dei precedenti giurisprudenziali espressi su casi simili, il Giudice amministrativo di ultima istanza ha dichiarato il relativo ricorso inammissibile, sulla base delle seguenti argomentazioni:
- in termini generali, l’errore revocatorio è sostanzialmente riconducibile ad un “abbaglio dei sensi”, e deve conseguentemente essere immediatamente rilevabile, senza quindi che vi sia la necessità di argomentazioni induttive o di particolari indagini ermeneutiche;
- posto dunque che l’errore revocatorio non deve essere confuso con l’errore che deriva dall’attività valutativa del giudice che abbia dato luogo ad una statuizione anche implicita, non si è in presenza di un errore revocatorio nell’ipotesi di inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali, ovvero di anomalie del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio, ovvero ancora nel caso in cui la questione sia stata risolta sulla base di specifici canoni ermeneutici o sulla base di un esame critico della documentazione acquisita;
- nel caso di specie, la controversia esaminata in appello aveva avuto ad oggetto la visibilità dei “residui” di un tatuaggio, in seppur avanzata fase di rimozione, ubicato in una parte del corpo visibile con l’uniforme (parte di cute del piede destro) e tale aspetto aveva costituito proprio il punto controverso “centrale” sul quale la sentenza di cui si chiedeva la revocazione aveva avuto modo di esprimersi, in modo peraltro esplicito;
- la sentenza non aveva giustamente tenuto conto della perizia di parte sulla visibilità del tatuaggio in base al duplice presupposto della sostanziale irripetibilità degli accertamenti psico-fisici esperiti in sede concorsuale e della necessità che i requisiti di partecipazione debbano essere imprescindibilmente posseduti dai candidati entro la data di partecipazione alla selezione, pena la violazione della par condicio tra i concorrenti.
IL GIUDIZIO DI CASSAZIONE SUL DINIEGO DI GIURISDIZIONE
La Corte di Cassazione ha dovuto esaminare la vicenda processuale sotto un duplice profilo, distinguendo da un lato il giudizio di appello dal giudizio revocatorio (ciò che poi alla fine è risultato decisivo ai fini della dichiarazione di inammissibilità del ricorso) e verificando anche in concreto se vi fossero stati, nell’argomentare complessivo del Consiglio di Stato, indici di “rifiuto di giurisdizione” da parte del Giudice amministrativo.
Sotto il primo punto di vista, non è sfuggito al Giudice di legittimità che con il proposto ricorso per cassazione la ricorrente aveva in realtà utilizzato l’impugnazione della sentenza del Consiglio di Stato in sede di revocazione per articolare censure che miravano a contestare il potere giurisdizionale esercitato, dallo stesso Giudice amministrativo, nella precedente decisione resa in grado di appello.
Sull’altro versante, posto che i profili di inammissibilità già evidenziati risultavano decisivi anche con riferimento al secondo motivo di ricorso, la Corte di Cassazione ha approfondito il concetto di omesso sindacato giurisdizionale pieno, anche sotto il profilo istruttorio, sul provvedimento impugnato, con riferimento precipuo alle presunte violazioni del diritto dell’Unione europea e all’asserito rifiuto di giurisdizione da parte del Consiglio di Stato, in connessione con il necessario rispetto del principio di effettività della tutela giurisdizionale.
Secondo i Giudici di legittimità, la negazione in concreto di tutela alla situazione soggettiva azionata, determinata dall’erronea interpretazione delle norme sostanziali o processuali, non comporta eccesso di potere giurisdizionale per omissione o rifiuto di giurisdizione.
L’art. 111 della Costituzione ha infatti stabilito un assetto pluralistico delle giurisdizioni, con sottrazione delle sentenze del Consiglio di Stato (e della Corte dei conti) al controllo di legittimità della Corte di cassazione, stabilendo una riserva di nomofiliachia in favore dei rispettivi organi di vertici delle due giurisdizioni speciali.
Tale riserva non può essere scalfita nemmeno quando si denunci la mancata adeguata considerazione dei diritti fondamentali, delle libertà e dei valori in gioco, anche di derivazione europea, quali il diritto al lavoro e il principio di non discriminazione.
In effetti, le disposizioni limitative in materia di tatuaggi coinvolgono il tema delle libertà costituzionali (in particolare la libertà di espressione) e risulta in astratto indispensabile che il Giudice – anche quello amministrativo – eviti, nel momento interpretativo, letture restrittive della normativa regolamentare, che si risolvano in un esito discriminatorio per le donne che intendono accedere alle forze dell’ordine.
Non può essere certo la diversa divisa femminile – che, in alcuni casi non copre in modo identico ai pantaloni – a determinare la discriminazione tra accesso maschile e accesso femminile.
Questo, in astratto.
Tuttavia, in concreto, la Corte di Cassazione, nel caso ad essa sottoposto, ha confermato l’orientamento secondo cui è ipotesi estranea al sindacato delle sentenze del Giudice amministrativo per motivi di giurisdizione (e quindi inammissibile) la contestazione di un diniego di giustizia in ultima istanza, derivante dallo “stravolgimento delle norme di riferimento”.
In particolare, secondo i Giudici di legittimità, tale insindacabilità, anche se riferita a violazioni del diritto dell’Unione europea, non è in contrasto con gli artt. 52, par. 1 e 47 della Carta fondamentale dei diritti dell’Unione europea, “in quanto l’ordinamento processuale italiano garantisce comunque ai singoli l’accesso a un giudice indipendente, imparziale e precostituito per legge, come quello amministrativo, non prevedendo alcuna limitazione all’esercizio, dinanzi a tale giudice, dei diritti e delle libertà fondamentali”.
Restano dunque denunciabili con il ricorso per cassazione per motivi afferenti alla giurisdizione, le sole ipotesi di difetto relativo di giurisdizione e di difetto assoluto di giurisdizione, il quale ultimo può integrare, a sua volta, il cosiddetto “sconfinamento” (il giudice speciale afferma la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa) ovvero il cosiddetto “arretramento” (negazione della giurisdizione sul presupposto erroneo che la materia non possa formare oggetto in assoluto di cognizione giurisdizionale).
Secondo la Corte di Cassazione – che sposa sul punto un orientamento ormai consolidato -, dunque, l’eccesso di potere giurisdizionale sindacabile non può mai estendersi, di per sé, ai casi di sentenze “abnormi” o “anomale”.