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Esposizione all'uranio impoverito e risarcimento dei danni

Paolo Nasini • 16 maggio 2021

* L'articolo completo è stato pubblicato a guisa di nota a sentenza sulla rivista Il Foro italiano (repertorio "Responsabilità civile"): un estratto viene qui pubblicato e rieditato con il consenso del suo autore.


Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 7560 del 2020, affronta per la prima volta in modo compiuto e articolato la tematica della responsabilità «contrattuale» del Ministero della Difesa per i danni cagionati ai militari in missione all'estero dall'utilizzo di armi al c.d. uranio impoverito (Depleted Uranium, d'ora in poi D.U.).

La questione, pur non costituendo una novità, tanto nel panorama giurisprudenziale della giurisdizione ordinaria  e amministrativa, compresa quella della Corte dei conti, quanto in dottrina, conserva notevole rilevanza, sia sotto il profilo strettamente giuridico, in relazione all'analisi dell'apparato argomentativo utilizzato dal Consiglio di Stato ai fini della decisione, sia in considerazione della risonanza a livello sociale di un problema che ha interessato e continua a interessare migliaia di soldati impiegati in teatri di guerra, a livello interno come internazionale.

Rilievo centrale, nell'apparato motivazionale della decisione del Consiglio di Stato, è dato alla declinazione dell'art. 2087 c.c. in funzione e alla luce delle specificità e peculiarità della posizione dei militari impiegati nelle c.d. «missioni all'estero» o «missioni di pace». In via generale, la norma — considerata dalla giurisprudenza norma-principio a formulazione aperta, di chiusura del sistema di prevenzione in quanto fonte di obblighi integrativi positivi, anche in assenza di specifiche regole d'esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate — impone al datore di lavoro, in ragione della sua posizione di garante dell'incolumità fisica del lavoratore, di adottare tutte le misure, anche «innominate», atte a salvaguardare la salute di quest’ultimo, in relazione alla particolarità del lavoro (o meglio: al complesso di rischi e pericoli che caratterizzano la specifica attività lavorativa), all'esperienza (intesa quale conoscenza di rischi e pericoli acquisita nello svolgimento della specifica attività lavorativa) e alla tecnica (rinviante al progresso scientifico e tecnologico attinente a misure di tutela su cui il datore di lavoro deve costantemente aggiornarsi).

Ai fini dell'accertamento della responsabilità datoriale, la Cassazione è costante nell'affermare che incombe sul lavoratore che lamenti di aver subìto, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, mentre spetta al datore di lavoro — una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze — di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo, e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi.

Quindi, al lavoratore compete lo specifico onere di allegare il fatto costituente l'inadempimento dell'obbligo di sicurezza, nonché di provare il nesso di causalità materiale tra l'inadempimento stesso e il danno da lui subìto, mentre sul datore di lavoro debitore incombe l'onere di provare la non imputabilità dell'inadempimento . Gli artt. 32 e 35 Cost. impediscono che l'esercizio di una qualsiasi attività lavorativa possa svolgersi in condizioni di rischio tali da nuocere «normalmente» all'integrità psico-fisica del lavoratore o da portare al suo «regolare» sacrificio.

Il riferimento, presente nella motivazione della sentenza n. 7560, ad una «responsabilità lato sensu di posizione» del Ministero, in caso di esposizione del militare-dipendente pubblico sottoposto al rischio di esposizione ad elementi potenzialmente lesivi della salute, si riconduce quindi all'obbligazione ampia e complessa che l'art. 2087 c.c. pone a carico dell'amministrazione pubblica, gravandola di un onere di perizia, prudenza e diligenza portato al massimo grado. L'attività lavorativa del militare, ontologicamente esposto al rischio bellico e all'uso delle armi, si caratterizza per una tipica sovraesposizione a rischi per la salute umana. D'altronde, tale esposizione a rischi per l'integrità e la salute psicofisica — nel porsi ai confini dell'art. 5 c.c., quale limitazione (su base sostanzialmente volontaria) al diritto alla salute ex art. 32 Cost. e alle stringenti tutele che l'ordinamento appronta a favore del lavoratore, anche attraverso norme «ad ampio spettro effettuale» come l'art. 2087 c.c. — non è illimitata e non esonera l'amministrazione, da un lato, dal garantire che il «rischio bellico» non ecceda la misura dell'inevitabile (ad es., mediante un armamento sufficientemente adeguato) e, dall'altro, dal tutelare il lavoratore dai rischi «non bellici», ovvero, come specifica il Consiglio di Stato, da quelle forme prevedibili e prevenibili di pericoli non strettamente dipendenti da azioni belliche, per i quali devono essere apprestati i necessari presidî sanitari di prevenzione e cura, dotando il militare di equipaggiamento adeguato o, quanto meno, non del tutto incongruo rispetto al contesto. La responsabilità del Ministero, quindi, in una fattispecie come quella in esame, può discendere dal non aver previsto un rischio «non bellico» in concreto prevedibile e dal non aver adottato tutte le misure idonee per evitare un danno — evitabile o quantomeno mitigabile — alla salute del militare.

Nella sentenza esaminata, nonostante si tratti di fattispecie di natura contrattuale, il Consiglio di Stato richiama l'art. 2050 c.c., valorizzandone la «potenzialità normativa espansiva» e ritenendolo emersione settoriale di un principio generale secondo il quale le conseguenze dannose delle attività pericolose gravano in capo a colui che le pone in essere, salva la prova dell'adozione di «tutte le misure idonee ad evitare il danno». Al riguardo, in pressoché tutti i precedenti dei giudici ordinari e amministrativi che hanno esaminato nel merito la questione in esame è emerso che lo stato delle conoscenze scientifiche, al momento dell'invio dei contingenti militari nell'ambito delle missioni all'estero in Kosovo, nei Balcani e in Somalia, era tale per cui ben poteva ritenersi nota, quantomeno, la pericolosità per la salute umana degli effetti dell'uranio impoverito contenuto negli armamenti in dotazione, sebbene mancassero e manchino tuttora certezze scientifiche sui singoli effetti patologici. In tal senso, non è nemmeno necessario «scomodare» il principio di precauzione, essendo concreta la possibilità (e dunque non il mero sospetto) che l'invio di contingenti militari nelle aree di missione valesse a prefigurare il concreto rischio dell'esposizione a quelle stesse malattie sulle quali si era già collettivamente iniziato a discutere (anche e soprattutto a livello politico-amministrativo), tanto che in giurisprudenza è stato sottolineato come non potesse non essere maturata in capo al Ministero, all'epoca dei fatti, la consapevolezza circa i pericoli correlati all'utilizzo di armi ad uranio impoverito.

La pronuncia, quindi, in ordine all'accertamento del c.d. nesso di causalità materiale, fa proprio l'insegnamento secondo cui, in ambito civilistico, la prova del nesso causale segue il criterio del «più probabile che non» o della «preponderanza dell'evidenza», non richiedendosi la certezza propria dell'accertamento penale, ma senza poter fare meccanico e semplicistico ricorso alla regola del cinquanta per cento plus unum. Viene valorizzata la rilevanza dell'interesse leso (l'integrità psico-fisica, la salute e persino la vita stessa del lavoratore), del contesto nell'ambito del quale il militare ha subìto la lesione dell'interesse (svolgendo un servizio di vitale importanza per la repubblica, quindi, a tutela dell'interesse pubblico), della circostanza che fossero disponibili e ragionevolmente implementabili mezzi di protezione individuale, nonché specifiche procedure volte a minimizzare il rischio da esposizione ad agenti patogeni dispersi nell'ambiente.

Sicché, in difetto di spiegazioni eziologiche alternative alla patologia sofferta dal militare e di dati scientifici idonei ad escludere il rischio per la salute umana da residui di esplosione di metalli pesanti utilizzati negli armamenti, tenuto conto della evidente rischiosità dei teatri di guerra somalo e jugoslavo, nonché della particolare abilità e prestanza fisica dei militari inviati in missione all'estero, secondo il Consiglio di Stato, l'assenza, allo stato delle conoscenze, di una piena dimostrazione scientifica circa la valenza oncogenetica dell'esposizione a D.U. o, comunque, a residui di combustione di metalli pesanti non osta, nel particolare caso di specie, a riconoscere integrato l'elemento eziologico dell'illecito civile. Secondo il Consiglio di Stato deve ritenersi che l'onere di fornire un principio di prova, circa l'intervento di un fattore oncogenetico alternativo e diverso rispetto all'esposizione al D.U. e ai metalli pesanti, gravasse sul Ministero, in quanto soggetto normativamente «meritevole» di vedersi allocate le conseguenze dannose dell'illecito, dovendo il rischio causale ignoto, conseguente all'attuale ignoranza scientifica circa i nessi eziologici, gravare sull'amministrazione e non sul militare.

Le argomentazioni del Consiglio di Stato, nella sostanza, collimano con i principî espressi, in materia di responsabilità contrattuale per violazione dell'art. 2087 c.c., dalla giurisprudenza di legittimità, come sopra ricordato, e recentemente ribaditi dalla Suprema corte, anche in punto riparto dell'onere della prova. Di contro, sostanzialmente ultroneo alla curvatura contrattuale della controversia, e non pregnante sotto il profilo decisionale, risulta il riferimento a principî, norme e disposizioni relative ad ipotesi di illecito extracontrattuale: in particolare, il riferimento all'art. 2050 c.c., suscettibile di porre un principio generale di responsabilità da attività pericolosa o un principio di allocazione del rischio a carico di colui il quale è «meritevole» di subirlo, appare un obiter privo di incidenza giustificativa della soluzione adottata, posto che il rigetto dell'appello avrebbe potuto giocarsi solo sulla stretta interpretazione dell'art. 2087 c.c., nonché delle norme e dei principî propri della disciplina contrattuale ai sensi dell'art. 1218 c.c..

In ordine alla distribuzione dell'onere della prova in caso di domanda risarcitoria per inadempimento, l'iter argomentativo del Consiglio di Stato e il ricordato orientamento giurisprudenziale relativo all'art. 2087 c.c., se, per un verso, contrastano con i principî espressi dalle sezioni unite della Corte di cassazione, per altro verso, sembrano porsi sulla scia di una più recente deriva giurisprudenziale che non esita ad accollare al danneggiato l'onere di provare il nesso di causalità materiale che lega l'inadempimento medesimo all'eventuale lesione dell'interesse leso in capo al danneggiato (nella specie, quello alla salute e all'integrità psico-fisica).

In termini generali, la rilevanza del corretto riparto degli oneri probatori con riferimento al nesso di causalità materiale si esplica, in modo particolare, in relazione all'ipotesi — non infrequente — della c.d. causa ignota, al fine di determinare su chi gravi il relativo rischio. Allocare in capo al creditore l'onere di provare il nesso di causalità materiale significa imporre al soggetto attivo del rapporto obbligatorio il rischio (della causa ignota, e quindi) di non vedere soddisfatta la propria esigenza di tutela a fronte di un danno provato nel suo ammontare e un inadempimento allegato e magari non smentito dal debitore.

Nel caso di specie, il rischio della «causa ignota» è stato riversato dal Consiglio di Stato sul Ministero, associandolo al mancato assolvimento dell'onere di provare il caso fortuito, onere conseguente all'inversione probatoria dovuta al ritenuto effetto presuntivo determinato dall'avvenuta dimostrazione, secondo il principio probabilistico, del nesso tra la malattia sofferta dal militare e l'inadempimento da parte dell'amministrazione all'obbligo di evitare o attenuare il rischio di esposizione a D.U..

D'altronde — sempre ricordando che non si versa in un'ipotesi di fattispecie extracontrattuale strettamente oggettiva (come nel caso, ad es., dell'art. 2051 c.c.), ma contrattuale, nell'ambito della quale l'imputazione dell'inadempimento (con inversione dell'onere della prova a carico del debitore, imposto dalla stringente previsione dell'art. 2087 c.c.) si distingue dalla dimostrazione del nesso di causalità —, vanno correlativamente tenuti distinti i piani relativi alla dinamica probatoria concernente i due elementi in questione. Per quanto concerne l'inadempimento e l'imputazione dello stesso al datore di lavoro che violi gli ampi precetti dell'art. 2087 c.c., si applica l'inversione dell'onere probatorio (col solo l'onere di allegazione in capo al creditore) prevista, in termini generali, dall'art. 1218 c.c., con la precisazione che, per essere esonerato da responsabilità, il debitore dovrà dimostrare di aver adottato tutte le misure possibili. Si tratta chiaramente di una «presunzione» di imputazione superabile solo con uno sforzo probatorio tendenzialmente molto stringente, tanto che talvolta per il debitore è più agevole dimostrare che è insorto un fattore imprevedibile e inevitabile (c.d. caso fortuito), tale da interrompere il nesso di causalità tra l'inadempimento e il danno, ovvero tale da rendere impossibile l'adempimento. In tal senso, l'art. 2087 c.c. non richiede necessariamente la prova del caso fortuito, il debitore potendo risultare esonerato da responsabilità ogni qual volta dimostri di aver adottato tutte le misure possibili per tutelare adeguatamente la salute del lavoratore. Il caso fortuito e la causa ignota, diversamente, entrano in gioco nell'ambito del ragionamento logico-fattuale che deve condurre, secondo un giudizio critico, ad accertare se sussista un rapporto di causalità tra inadempimento e danno, quantomeno nei termini di possibile concausa (potendo escludere del tutto la responsabilità del debitore solo una causa efficiente esclusiva ed esterna).

Ma, ad essere rigorosi, trattandosi di inadempimento per comportamento omissivo, il giudizio controfattuale relativo al nesso di causa dovrebbe esplicitarsi non limitandosi ad analizzare se la malattia sarebbe ragionevolmente insorta senza l'esposizione a D.U., ma spingendosi a verificare se, una volta individuati gli strumenti di protezione, questi avrebbero, secondo il criterio della preponderanza logica, escluso o quantomeno ridotto in modo significativo il rischio di contrarre la malattia. Essendo la valutazione del nesso fondata su un giudizio logico-relazionale e, per di più, probabilistico, sembra eccessivo concedere spazio all'effetto della «inversione dell'onere della prova», in forza di un meccanismo presuntivo (che riguarda la dimostrazione di «fatti» ai sensi dell'art. 2697 c.c.). Ove provata, la presenza di un possibile fattore imprevedibile e inevitabile, potenzialmente idoneo a incidere come causa efficiente sul nesso, deve essere esaminata in un unico giudizio sincretico, unitamente a tutti gli altri elementi di prova utilizzabili dal giudice al fine di accertare la sussistenza o meno del nesso di causalità materiale, non potendosi scindere il relativo giudizio in due momenti temporali e logici (prima la prova del nesso e poi quella relativa all'esistenza del caso fortuito). Ove un giudizio di preponderanza logica risulti effettuabile, in un senso o nell'altro, la valutazione dovrebbe essere unitaria, per valutare la preponderanza in termini relativi e ricostruire in modo necessariamente univoco la derivazione causale della lesione dell'interesse del creditore. Senza contare che in un caso siffatto non può, evidentemente, porsi alcun problema di «causa ignota», perché la lesione è, comunque, riconducibile, all'inadempimento (sia pure valutato in termini di concausa) o ad altro fattore esterno.

Nel caso di specie, quindi, accertato, come visto, il nesso tra l'inadempimento da parte dell'amministrazione e la malattia del militare, non sembra appropriato fare riferimento a una «causa ignota», né a una presunzione suscettiva di ribaltare l'onere probatorio relativo al nesso di causalità, poiché la mancata prova di un fattore escludente, di per sé idoneo sul piano causale a spiegare l'evento, costituisce un elemento che spetta al debitore provare, prima e a prescindere dal fine di contrastare l'accoglimento della domanda risarcitoria. Al contrario, di inversione dell'onere probatorio si deve parlare con riferimento alla prova liberatoria della dimostrazione di avvenuto adempimento, declinato, nel caso dell'art. 2087 c.c., nel senso dell'aver adottato tutte le cautele possibili a tutela del lavoratore, o del mancato adempimento cagionato da fatto non imputabile al creditore, circostanze, queste, che, come emerge dalla decisione in rassegna, non solo non risultano dimostrate, ma, al contrario, appaiono insussistenti alla luce di tutti gli elementi di fatto emersi.




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