In pochi mesi si sono succedute due significative pronunce a Sezioni Unite della Corte di Cassazione sulle rilevanti problematiche tributario-urbanistiche derivanti dalle nuove forme di manifestazione e di sfruttamento economico dello jus aedificandi (quale “naturale estrinsecazione del diritto di proprietà del suolo sottoposto alle condizioni conformative e di utilità sociale previste dalla legge e dagli strumenti urbanistici” – Corte cost. n. 5 del 1980).
Tali forme sono indistintamente definite come “diritti edificatori”, i quali sono oggi suscettibili di separata cessione negoziale tra privati e di più o meno libera circolazione sul mercato mobiliare. Si tratta di una tematica complessa che impone non l’obbligata uniformità ma il raffronto e il raccordo sistematico con i principi del diritti civile e del diritto amministrativo e urbanistico che regolano la sorte dei suoli.
Vale innanzitutto ricordare che il concetto di «edificabilità» è disuguale in materia urbanistica e in materia tributaria, perché diverse sono le finalità delle rispettive normazioni: quella urbanistica è volta a garantire il corretto uso del territorio urbano e, quindi, lo jus aedificandi può essere esercitato solo a seguito del perfezionamento degli strumenti urbanistici volti a garantire la compatibilità degli interessi individuali con quelli collettivi; quella tributaria, invece, mira ad adeguare il prelievo fiscale alle variazioni dei valori economici dei suoli, che si registrano e progrediscono, in parallelo, dal sorgere della mera aspettativa dello jus aedificandi fino al perfezionamento dello stesso.
In termini generali, l’istituto poliforme dei “diritti edificatori” – che possono essere definiti come il riconoscimento ai proprietari chiamati a concorrere alla pianificazione generale di una posizione giuridica qualificata a fronte della cessione pattizia dei suoli, ovvero dell’imposizione su di essi di restrizioni o anche di vincoli assoluti di inedificabilità – è sorto a partire dagli ultimi anni del secolo scorso quale strumento di evoluzione e di superamento della metodica della c.d. “zonizzazione” e dei limiti della stessa rappresentati: da un lato, la disparità di trattamento riservata ai proprietari di fondi omogenei a seconda della casualità della loro ubicazione; dall’altro, i costi e i tempi gravanti sugli enti pubblici attuatori per l’acquisizione espropriativa di determinate aree e per la loro trasformazione a destinazione pubblica.
Il comune denominatore fra i diritti edificatori è la loro scorporabilità dal terreno che li ha originati e la conseguente loro autonoma cedibilità negoziale, intendendosi per tale la possibilità - oggi sancita dall’art. 2643, primo comma, n. 2-bis, c.c. - del loro trasferimento oneroso tra privati indipendentemente dal trasferimento del terreno. Tale autonomia può essere attuata in termini estremamente ampi, perché estesi fino alla possibilità di cartolarizzazione del diritto edificatorio (con circolazione assimilabile a quella dei titoli di credito), oppure anche di una sua dematerializzazione (con circolazione attestata dalle annotazioni sui “registri dei diritti edificatori” tenuti dai comuni, come previsto da talune leggi regionali).
Ebbene, con la pronuncia n. 23902 dell’ottobre 2020 la Corte di legittimità ha individuato gli strumenti urbanistici che generano “diritti edificatori” e i relativi fattori di distinzione:
- l’urbanistica «perequativa», che distribuisce pariteticamente e proporzionalmente tra tutti i proprietari di un determinato ambito territoriale o lotto sia il vantaggio costituito dall’edificabilità sia l’onere di contribuzione ai costi di riqualificazione, urbanizzazione e realizzazione di aree a servizi di pubblica utilità o verde; i diritti edificatori provenienti da interventi perequativi sono assegnati direttamente dal piano urbanistico e sono negoziabili a seguito dell’approvazione di quest’ultimo, per cui “nella perequazione l’indice di edificabilità viene attribuito al fondo divenendo una qualità intrinseca di questo, e la fattispecie di edificabilità può dirsi perfetta fin dall’origine, non necessitando di successiva individuazione ed effettiva assegnazione di aree surrogatorie di atterraggio”; in questi casi resta ferma la possibilità per l’Amministrazione di procedere a una successiva revisione della pianificazione;
- l’urbanistica «compensativa», ove l’Amministrazione attribuisce al proprietario un indice di capacità edificatoria fruibile su di un’altra area di proprietà pubblica o privata, non necessariamente contigua e anche di successiva individuazione, a fronte della cessione gratuita dell’area oggetto di trasformazione pubblica, ovvero di imposizione su di essa di un vincolo assoluto di inedificabilità o preordinato all’esproprio; tale strumento può prevedere anche diverse forme attuative, ad esempio di permuta tra aree, oppure di mantenimento in capo al privato della proprietà dell’area destinata alla realizzazione di servizi pubblici dati al medesimo in gestione convenzionata, e può fungere da strumento della pianificazione generale tradizionale (compensazione infrastrutturale), ovvero dipendere dall’esigenza di tenere indenne un proprietario al quale venga imposto un vincolo di facere o di non facere per ragioni ambientali-paesaggistiche; in questi casi “il diritto edificatorio trova fondamento nel piano regolatore generale ma viene assegnato (ed è dunque trasferibile tra privati) solo all’esito della cessione dell’area o dell’imposizione del vincolo”; trattandosi di un “istituto con funzione corrispettiva o indennitaria di un’edificabilità soppressa, esso risulta indifferente alle successive variazioni di piano”; emerge in tal modo “la progressività dell’iter perfezionativo della fattispecie, dal momento che quest’ultima si articola - seguendo una metafora aviatoria - in una fase (o area) di ‘decollo’, costituita dall’assegnazione del titolo volumetrico indennitario al proprietario che ha subito il vincolo; di una fase (o area) di ‘atterraggio’, data dall’individuazione e assegnazione del terreno sul quale il diritto edificatorio può essere concretamente esercitato; di una fase di ‘volo’ rappresentata dall’arco temporale intermedio durante il quale l’area di atterraggio ancora non è stata individuata, e pur tuttavia il diritto edificatorio è suscettibile di circolare da sé”.
La Corte ha così affermato che “è dunque nella compensazione - e non nella perequazione - urbanistica che si assiste alla massima volatilità dello jus aedificandi rispetto alla proprietà del suolo”.
E su questo presupposto – tenuto conto che la disciplina ICI (d.lgs. n. 504 del 1992), e dei tributi che si sono a essa succeduti: IMU (d.lgs. n. 23 del 2011), IUC-TASI (l. n. 147 del 2013), nuova IMU (l. n. 160 del 2019), è incentrata su una “relazione di realità con gli immobili” e che “il diritto edificatorio compensativo non ha natura reale” a causa del “suo totale distacco dal fondo di origine e la sua conseguente perfetta ed autonoma ambulatorietà”, perché esso “non costituisce nulla di diverso da una indennità ripristinatoria - in moneta urbanistica - di un patrimonio inciso che il proprietario può valorizzare sul mercato indipendentemente dal suolo generatore” – ha pronunciato il seguente principio di diritto: < un’area, prima edificabile e poi assoggettata ad un vincolo di inedificabilità assoluta, non è da considerare edificabile ai fini ICI ove inserita in un programma attributivo di un diritto edificatorio compensativo, dal momento che quest’ultimo non ha natura reale, non inerisce al terreno, non costituisce una sua qualità intrinseca ed è trasferibile separatamente da esso >.
Sulla questione della non realità del diritto edificatorio compensativo è tornata la seconda, più recente, pronuncia della Corte di legittimità, la n. 16080 del 2021.
Essa, in primo luogo - pur ribadendo nuovamente il presupposto generale dell’autonomia del diritto tributario rispetto agli altri rami dell’ordinamento con i quali deve raccordarsi e pure dell’autosufficienza dei distinti tributi all’interno dello stesso ordinamento tributario - ha tuttavia affermato che nel caso dell’imposta di registro (d.P.R. n. 131 del 1896), che è una tipica imposta d’atto in quanto applicata all’atto presentato alla registrazione (vedasi, in tal senso, le sentenze della Corte costituzionale n. 158 del 2020 e n. 39 del 2021), è “imprescindibile che l’applicazione dell’imposta implichi la previa esatta individuazione dell’atto da registrare e che questa individuazione, quando relativa all’attività negoziale delle parti contribuenti, muova a sua volta dalle categorie discretive proprie del diritto civile (a cominciare dall’elemento causale)”. Di conseguenza, “va escluso che possa pervenirsi ad una soluzione diversificata e fiscalmente orientata del problema della natura giuridica dell’atto di cessione di cubatura”.
La sentenza ha quindi rilevato che il problema della natura giuridica della cessione di cubatura – una volta che il diritto edificatorio attribuito a titolo di compensazione sia definitivamente entrato a far parte del patrimonio del cedente in quanto componente patrimoniale ormai acquisito e definito in tutti i suoi elementi costitutivi – non ha ancora trovato una piana e scontata soluzione. Ha quindi preso in esame l’indirizzo giurisprudenziale (definito “consistente e diacronico”) e la dottrina che hanno collocato la cessione di cubatura tra gli atti costitutivi o traslativi di un diritto reale, indirizzi che sono stati però puntualmente disattesi in quanto “inadeguati”, osservando al riguardo che mai erano emerse risposte univoche sul tipo di diritto reale (diritto di superficie, servitù prediali, realità per abdicazione) che si sarebbe costituito o trasferito con l’atto di cessione di cubatura.
Ha quindi osservato che è invece meritevole di condivisione l’opposto filone interpretativo, il quale esclude che la cessione di cubatura consista in un atto traslativo, e ancor meno costitutivo, di un diritto reale. Difatti, “la cessione di cubatura presuppone il perfezionamento di un accordo con il quale una parte (il proprietario cedente) si impegna a prestare il proprio consenso affinché la cubatura (o una parte di essa) che gli compete in base agli strumenti urbanistici venga attribuita dalla P.A. al proprietario del fondo vicino (cessionario), compreso nella stessa zona urbanistica, cosi consentendogli di chiedere ed ottenere una concessione per la costruzione di un immobile di volume maggiore di quello cui avrebbe avuto altrimenti diritto”. Il trasferimento della cubatura deriva dunque “esclusivamente dal provvedimento concessorio, discrezionale e non vincolato, che, a seguito della rinuncia all’utilizzazione della volumetria manifestata al Comune dal cedente, aderendo al progetto edilizio presentato dal cessionario, può essere emanato dall’ente pubblico a favore del cessionario”. Pertanto, “l’accordo tra le parti ha un’efficacia meramente obbligatoria tra i suoi sottoscrittori e non è, quindi, configurabile come un contratto traslativo (e, tanto meno, costitutivo) di un diritto reale opponibile ai terzi”.
Depongono, ulteriormente, a sostegno della non realità di tale genere di cessione:
- l’obbligo di trascrizione dei contratti che trasferiscono diritti edificatori introdotto nell’art. 2643, primo comma, n. 2-bis, c.c., in quanto “una specifica ed autonoma previsione di trascrivibilità dei diritti edificatori in quanto tali non avrebbe avuto ragion d’essere, né logica né pratica, qualora questi ultimi, partecipando di natura reale, risultassero comunque già prima trascrivibili in base alla disciplina generale”;
- il dato letterale della stessa disposizione che qualifica i diritti edificatori, appunto, “come diritti”;
- la sua collocazione all’interno del sistema di tutela dei diritti per mezzo della trascrizione, per cui “i diritti edificatori non solo sono genericamente disponibili per contratto, ma tra le parti vengono costituiti, trasferiti e modificati direttamente per effetto di questo”;
- l’esplicito riconoscimento del ruolo della normazione assegnato nella materia alla legislazione regionale, e addirittura agli strumenti urbanistici distribuiti sul territorio, che non si concilia con l’esigenza che le restrizioni reali al diritto di proprietà siano dettate dal legislatore statale.
E su questi presupposti la Corte ha pronunciato il seguente principio di diritto: < la cessione di cubatura, con la quale il proprietario di un fondo distacca in tutto o in parte la facoltà inerente al suo diritto dominicale di costruire nei limiti della cubatura assentita dal piano regolatore e, formandone un diritto a sé stante, lo trasferisce a titolo oneroso al proprietario di altro fondo urbanisticamente omogeneo, è atto: - immediatamente traslativo di un diritto edificatorio di natura non reale a contenuto patrimoniale; - non richiedente la forma scritta ad substantiam ex art. 1350 c.c.; - trascrivibile ai sensi dell’art. 2643, primo comma, n. 2-bis c.c.,; assoggettabile ad imposta proporzionale di registro come atto diverso avente ad oggetto prestazione a contenuto patrimoniale (art. 9 Tariffa Parte Prima allegata al d.P.R. n. 131 del 1986) nonché, in caso di trascrizione e voltura, a imposta ipotecaria e catastale in misura fissa (artt. 4 Tariffa allegata al d.lgs. n. 347 del 1990 e art. 10, comma 2, del medesimo d.lgs >.
In conclusione, si deve notare che se la disposizione sulla sola trascrizione di cui al n. 2-bis dell’art. 2643 (introdotta nel 2011 con il d.l. n. 70 c.d. decreto sviluppo), ha rappresentato il primo intervento di tipizzazione dei diritti edificatori, sia pure solo quoad effectum e col limite dell’assenza di una definizione contenutistica, le due pronunce qui esaminate costituiscono non solo un fondamentale punto di approdo per la costruzione dottrinale dell’istituto ma soprattutto un pungolo per un intervento normativo quadro che codifichi le fattispecie costitutive degli stessi. In proposito, si rammenta che spetta allo Stato la potestà legislativa esclusiva e unitaria in materia di ordinamento civile e di diritto di proprietà (i modi di acquisto, di estinzione e di accertamento, le regole sull’adempimento delle obbligazioni e sulla responsabilità per inadempimento, la disciplina della responsabilità extracontrattuale, i limiti dei diritti di proprietà connessi ai rapporti di vicinato, …), mentre la materia “governo del territorio” e la correlata limitazione conformativa del diritto di proprietà, volta ad assicurarne la funzione sociale, rientra nella legislazione “concorrente” regionale e la disciplina statale su tali contenuti (a cui è riservata la “determinazione dei principi fondamentali” art. 117, terzo comma, della Costituzione) è, attualmente, del tutto carente.