Sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, Grande Sezione, 5 giugno 2023, nella causa n. C-204/21, Commissione c. Polonia
SPUNTI DI RIFLESSIONE SISTEMATICA
Le elezioni politiche tenutesi in Polonia il 15 ottobre 2023 e la successiva nomina a primo ministro di Donald Tusk, esponente di orientamento europeista e già presidente del Consiglio europeo, promettono di smorzare le acute tensioni che negli ultimi anni si sono manifestate tra l’ordinamento europeo e quello nazionale polacco, causate dalle forti torsioni contrarie al principio di legalità sostanziale che quest’ultimo ha subito negli anni più recenti.
Se l’augurio del giurista è, evidentemente, quello del ripristino integrale della
rule of law in Polonia, nondimeno le pronunzie della Corte di Giustizia dell’Unione europea sul caso polacco, ed in particolare sul profilo dell’indipendenza degli organi giurisdizionali, mantengono forti implicazioni sistematiche.
In questa sede, in particolare, si prende lo spunto dalla recente
sentenza della Grande Sezione del 5 giugno 2023, nella causa n. C-204/21, Commissione c. Polonia, per focalizzare l’attenzione su due punti di importanza strategica, nel processo storico – avviatosi sin dal 1951 – di interazione e integrazione tra i sistemi giuridici nazionali e l’ordinamento sovranazionale che promana dai Trattati europei.
Ma prima occorre una sintesi delle complesse questioni che nella recente decisione la Corte è stata chiamata ad affrontare, e che affondano le loro radici in due precedenti sentenze della medesima Corte, nella composizione più autorevole, rese il 19 novembre 2019 nelle
cause riunite C-585/18, C-624/18 e C-625/18, A.K. e a., e il 15 luglio 2021 nella
causa C-791/19, Commissione c. Repubblica di Polonia.
Allora, il diritto polacco era stato dichiarato incompatibile con l’ordinamento europeo, ed in particolare con l’art. 19, paragrafo 1 TUE («Gli Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione»), nella misura in cui:
- non garantisce l’indipendenza e l’imparzialità della Sezione disciplinare della Corte Suprema, alla quale spetta il controllo delle decisioni adottate nei procedimenti disciplinari a carico dei giudici;
- conferisce al presidente della Sezione disciplinare della Corte Suprema il potere discrezionale di designare il tribunale disciplinare competente in primo grado nelle cause riguardanti i giudici degli organi giurisdizionali ordinari;
- non garantisce nel giudizio disciplinare né la ragionevole durata del procedimento, né un’adeguata difesa;
- consente che il contenuto delle decisioni giudiziarie possa a essere qualificato come illecito disciplinare.
Sotto quest’ultimo profilo, infatti, la legge polacca definisce l’illecito disciplinare come comprendente i casi di «violazione manifesta e flagrante delle disposizioni di legge», con una formulazione che consente di estendere la responsabilità disciplinare dei giudici all’esercizio della funzione giudicante, tanto che in concreto sono state avviate iniziative disciplinari a carico di giudici in relazione alle domande di pronuncia pregiudiziale proposte alla Corte di Giustizia.
Quindi, anche il diritto degli organi giurisdizionali di sottoporre alla Corte domande di pronuncia pregiudiziale risulta limitato dalla possibilità di subire un procedimento disciplinare.
La più recente pronunzia interviene a constatare il persistente contrasto con l’art. 19 TUE del diritto polacco, giacché alla Sezione disciplinare della Corte Suprema, la cui indipendenza e imparzialità non è – come già detto – garantita, è stata ulteriormente trasferita la competenza a decidere in merito a controversie aventi incidenza diretta sullo status e sullo svolgimento della funzione di giudice, come, da un lato, le domande di autorizzazione all’esercizio dell’azione penale nei confronti dei giudici o all’arresto degli stessi, e, dall’altro, le controversie in materia di diritto del lavoro e della previdenza sociale riguardanti i giudici della Corte suprema, nonché le controversie in materia di pensionamento di questi ultimi.
Ma i contrasti non si fermano qui, giacché l’ordinamento polacco, in violazione non solo dell’art. 19 TUE, ma anche dell’art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea – sul diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale – e dell’art. 267 TFUE – che, come noto, disciplina il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia delle questioni inerenti l’interpretazione del diritto europeo –, consente di qualificare come illecito disciplinare l’attività del giudice di verifica del rispetto, da parte dell’ordinamento nazionale, dei requisiti del diritto dell’Unione europea di indipendenza, imparzialità e
precostituzione per legge dei giudici. Infatti, la legge polacca ha trasferito alla Sezione di controllo straordinario e delle questioni pubbliche della Corte suprema la competenza esclusiva a esaminare le censure e le questioni di diritto riguardanti la mancanza di indipendenza di un organo giurisdizionale o di un giudice; e ciò, in sostanza, priva tutti gli altri organi giurisdizionali nazionali del potere di verificare il rispetto dei requisiti derivanti dal diritto dell’Unione e relativi alla garanzia di un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge.
Come è chiaro dalla ricostruzione assai sintetica, e conseguentemente lacunosa, dei punti principali della sentenza del 5 giugno 2023, gli spunti di riflessione sarebbero tantissimi: il rapporto tra potere disciplinare ed esercizio della giurisdizione; le necessarie caratteristiche delle procedure di nomina degli organi giurisdizionali; il ruolo di “giudice europeo” attribuito ad ogni organo giurisdizionale.
Ma, in questa sede, come anticipato, le riflessioni si fermano a due specifici aspetti.
Il primo attiene all’individuazione di quei valori che sono (o, piuttosto, dovrebbero essere) comuni alle giurisdizioni dei vari Stati membri e che sono indispensabili per la creazione di uno spazio di sicurezza, libertà e giustizia (art. 67 ss. TFUE).
Invero, con l’avanzare dell’integrazione europea si sono moltiplicati i rapporti transfrontalieri, sicché, dal lato dei rapporti tra privati, è sorta la necessità di garantire ai cittadini la possibilità di adire affidabili organi giurisdizionali in tutti gli Stati membri e assicurare che le decisioni di tali organi siano rispettate in tutta l’Unione; dal lato della repressione penale, è evidente il bisogno che gli effetti delle pronunzie giurisdizionali si producano sull’intero territorio dell’Unione europea.
Presupposto di tutto ciò è la
fiducia nelle istituzioni giudiziarie dei Paesi membri, che deriva dall’osservanza di quei valori comuni sulla cui essenza la Corte di Giustizia si è pronunziata nella sentenza in commento.
La Corte, sul punto, ha ripetutamente sottolineato che l’Unione europea riunisce Stati che hanno liberamente e volontariamente aderito ai valori comuni del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Sono tenuti a rispettarli e si impegnano a promuoverli, tanto più che la fiducia reciproca, in particolare tra i giudici degli Stati membri, si basa sulla premessa fondamentale secondo cui gli Stati membri condividono tali valori comuni.
L’art. 2 TUE, che enuncia i valori comuni, non costituisce, di conseguenza, una dichiarazione di intenti, ma contiene valori che fanno parte dell’identità stessa dell’Unione quale ordinamento giuridico comune, valori che sono concretizzati in principi che comportano obblighi giuridicamente vincolanti per gli Stati membri.
Il loro rispetto da parte di uno Stato membro costituisce una condizione per il godimento di tutti i diritti derivanti dall’applicazione dei trattati a tale Stato membro: infatti, il rispetto di tali valori non può essere ridotto a un obbligo cui uno Stato candidato è tenuto al fine di aderire all’Unione e al quale potrebbe sottrarsi dopo la sua adesione.
Dal canto suo, l’articolo 19 TUE concretizza il
valore dello Stato di diritto, principio generale di diritto dell’Unione che deriva dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, per cui spetta agli Stati prevedere un sistema di rimedi giurisdizionali e di procedimenti che garantisca ai singoli il rispetto del diritto a una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione.
La Corte di Giustizia ha chiarito che, al fine di garantire che gli organi giurisdizionali chiamati a statuire su questioni connesse all’applicazione o all’interpretazione del diritto dell’Unione siano in grado di garantire la tutela giurisdizionale effettiva richiesta da tale disposizione, è di primaria importanza preservare l’indipendenza dei medesimi. Le garanzie d’accesso ad un giudice indipendente, imparziale e precostituito per legge, e in particolare quelle che ne stabiliscono la nozione e la composizione, rappresentano la pietra angolare del diritto all’equo processo.
Quindi, nella scelta del proprio rispettivo modello costituzionale, gli Stati membri sono tenuti a osservare, in particolare, il requisito di indipendenza dei giudici.
Le garanzie di indipendenza e di imparzialità presuppongono l’esistenza di regole relative alla composizione dell’organo giurisdizionale, alla nomina, alla durata delle funzioni nonché alle cause di astensione, di ricusazione e di revoca dei suoi membri, che consentano di fugare qualsiasi legittimo dubbio che i singoli possano nutrire in merito all’impermeabilità di detto organo nei confronti di elementi esterni e alla sua neutralità rispetto agli interessi contrapposti.
A tal riguardo, è necessario che i giudici si trovino al riparo da interventi o da pressioni esterni che possano mettere a repentaglio la loro indipendenza. Le regole applicabili allo status dei giudici e all’esercizio delle loro funzioni di giudice devono, in particolare, consentire di escludere non solo qualsiasi influenza diretta, sotto forma di istruzioni, ma anche le forme di influenza più indiretta che possano orientare le decisioni dei giudici interessati, e devono escludere così una mancanza di apparenza d’indipendenza o di imparzialità di questi ultimi, tale da ledere la fiducia che la giustizia deve ispirare ai singoli in una società democratica e in uno Stato di diritto.
Per quanto riguarda, più in particolare, il regime disciplinare applicabile ai giudici, esso rientra senza dubbio nella competenza degli Stati membri, nel cui esercizio, tuttavia, ciascuno Stato membro è tenuto a rispettare il diritto dell’Unione. Il regime disciplinare deve, quindi, preservare l’indipendenza di organi giurisdizionali, ordinari o amministrativi, che sono chiamati a pronunciarsi su questioni connesse all’applicazione o all’interpretazione del diritto dell’Unione, al fine di garantire ai singoli la tutela giurisdizionale effettiva richiesta. Conformemente al principio della separazione dei poteri che caratterizza il funzionamento di uno Stato di diritto, una tale indipendenza, in particolare dai poteri legislativo ed esecutivo, deve essere garantita.
Per quanto riguarda i comportamenti che possono essere qualificati come illeciti disciplinari in capo ai giudici, la Corte di Giustizia ha, poi, precisato che la tutela di tale indipendenza non può avere la conseguenza di escludere totalmente che la responsabilità disciplinare di un giudice possa, in taluni casi del tutto eccezionali, sorgere a causa di decisioni giudiziarie adottate da quest’ultimo. Infatti, un siffatto requisito di indipendenza non mira, evidentemente, ad avallare eventuali condotte gravi e totalmente inescusabili imputabili ai giudici, che consistano, ad esempio, nel violare deliberatamente e con dolo o con colpa particolarmente grave e grossolana le norme del diritto nazionale e dell’Unione di cui essi dovrebbero garantire il rispetto, o nel commettere arbitrio o diniego di giustizia quando essi sono chiamati, in quanto depositari della funzione giudicante, a pronunciarsi sulle controversie loro sottoposte dai singoli.
Tuttavia, resta essenziale, al fine di preservare detta indipendenza ed evitare in tal modo che il regime disciplinare possa essere sviato dalle sue finalità legittime e utilizzato a fini di controllo politico delle decisioni giudiziarie, che l’affermazione della responsabilità disciplinare di un giudice a causa di una siffatta decisione sia limitata a casi del tutto eccezionali e inquadrata da criteri oggettivi e verificabili, attinenti a esigenze relative alla buona amministrazione della giustizia, nonché da garanzie dirette a evitare qualsiasi rischio di pressioni esterne sul contenuto delle decisioni giudiziarie. In particolare, le norme disciplinari debbono definire in modo sufficientemente chiaro e preciso i comportamenti idonei a far sorgere la responsabilità disciplinare dei giudici.
Quanto, poi, alle norme che regolano il procedimento disciplinare, esso deve presentare le garanzie necessarie per evitare qualsiasi rischio di suo utilizzo quale sistema di controllo politico del contenuto delle decisioni giudiziarie. A tale riguardo, è necessaria l’emanazione di norme che definiscano non solo i comportamenti che integrano illeciti disciplinari e le sanzioni concretamente applicabili, ma anche che prevedano l’intervento di un organo indipendente conformemente a una procedura che garantisca appieno i diritti della difesa, e che sanciscano la possibilità di contestare in sede giurisdizionale le decisioni degli organi disciplinari; tutto ciò costituisce un insieme di garanzie essenziali ai fini della salvaguardia dell’indipendenza del potere giudiziario.
Lo stesso deve valere per quanto riguarda altre norme relative allo status dei giudici e all’esercizio delle loro funzioni, nonché per le decisioni vertenti su aspetti essenziali dei regimi di diritto del lavoro o di previdenza sociale, quali gli emolumenti, le ferie, il pensionamento: l’ordinamento giuridico deve prevedere garanzie idonee a evitare qualsiasi rischio di utilizzo di siffatte norme o decisioni come sistema di controllo politico del contenuto delle decisioni giudiziarie o come strumento di pressione e di intimidazione nei confronti dei giudici, che può far sorgere, segnatamente, un’apparenza di mancanza di indipendenza o di imparzialità in capo agli stessi, idonea a ledere la fiducia che la giustizia deve ispirare ai singoli in una società democratica e in uno Stato di diritto.
Infatti, la semplice prospettiva, per i giudici, di correre il rischio che le decisioni in tali materie siano assunte da un organo la cui indipendenza non sia garantita, può pregiudicare la loro propria indipendenza.
Il secondo punto focale attiene all’individuazione della Corte, o delle Corti, cui spetta il compito ultimo di garantire i valori dell’indipendenza dell’autorità giudiziaria. La questione, nello specifico «caso Polonia», ha portato a un forte contrasto tra la posizione della Corte di Giustizia e quella della Corte costituzionale polacca (Trybunał Konstytucyjny).
L’occasione del contrasto è stata fornita dall’ordinanza dell’8 aprile 2020 nella causa C 791/19 R, con cui la Corte di Giustizia, basandosi sull’articolo 4, paragrafo 3, seconda frase, TUE («Gli Stati membri adottano ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l'esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell'Unione»), in combinato disposto con l’articolo 279 TFUE, ha ingiunto alla Repubblica di Polonia di sospendere l’applicazione della legge sulla Corte Suprema, destinata ad essere dichiarata, con la successiva sentenza del 15 luglio 2019, già citata, ad essere riconosciuta contrastante con il diritto europeo.
Ebbene, la Corte costituzionale polacca, con sentenza resa il 14 luglio 2021 (procedimento P 7/20), ha dal canto suo dichiarato il portato precettivo di ordinanza a sua volta incompatibile con diverse disposizioni della Costituzione Polacca.
Quindi, invocando le disposizioni dell’articolo 4, paragrafi 1 e 2, e dell’articolo 5, paragrafo 1, TUE che, in particolare, affermano il principio di attribuzione delle competenze dell’Unione e l’obbligo di quest’ultima di rispettare l’identità nazionale degli Stati membri, il giudice costituzionale polacco ha qualificato la statuizione della Corte di Giustizia ultra vires.
Di conseguenza, rispetto all’ordinanza della Corte di Giustizia dell’8 aprile 2020 non sarebbero pertinenti i principi del primato e dell’applicabilità diretta del diritto dell’Unione, pur enunciati all’articolo 91, paragrafi da 1 a 3, della Costituzione polacca.
D’altra parte, secondo la Corte costituzionale polacca, in caso di conflitto tra le sue decisioni e quelle della Corte, ad essa spetta l’«ultima parola» nelle controversie di principio relative all’ordinamento costituzionale polacco.
La Corte di Giustizia, dal canto suo, ha rivendicato la competenza esclusiva a fornire l’interpretazione definitiva del diritto dell’Unione, e dunque anche a precisare la portata del principio del primato del diritto dell’Unione alla luce delle disposizioni pertinenti di tale diritto. Tale portata non può dunque dipendere dall’interpretazione di disposizioni del diritto nazionale, né dall’interpretazione di disposizioni del diritto dell’Unione seguita da un giudice nazionale che non corrisponda a quella della Corte.
Piuttosto, spetta, al giudice nazionale modificare la propria giurisprudenza che sia incompatibile con il diritto dell’Unione.
Ora, l’aspro conflitto sull’individuazione dell’organo, la Corte di Giustizia o la corte costituzionale nazionale, cui spetta l’ultima parola sull’assetto ordinamentale si presta, nel «caso polacco», ad essere inquadrato nel contesto degli effetti delle forze centrifughe che l’orientamento politico sovranista-autoritario - sino a poco tempo fa dominante in Polonia - ha impresso alla giurisdizione. Tuttavia, esso si inserisce, in realtà, anche in un sommerso, ma potente e diffuso movimento tettonico, causato dal forte contrasto tra corti sovranazionali e corti supreme nazionali sul ruolo primaziale nella tutela dei diritti fondamentali e, più in generale, nella definizione dell’assetto dei valori fondamentali, nonché nell’individuazione delle regole di integrazione degli ordinamenti.
Il pensiero non può che correre immediatamente alla pozione del Bundesverfassunghericht, la Corte costituzionale della Repubblica Federale di Germania, sul programma PSPP di quantitative easing adottato dalla Banca centrale europea (BCE). Tralasciando i dettagli, connotati di elevata tecnicalità, è stato deciso il ricorso con cui alcuni cittadini tedeschi aveva sostenuto che le istituzioni nazionali, non opponendosi all’approvazione ed alle successive proroghe del piano di acquisti di titoli di debito pubblico degli Stati membri sul mercato secondario, avessero violato le disposizioni costituzionali che impediscono di assoggettare i cittadini tedeschi ad un potere privo di legittimazione democratica.
La Corte costituzionale tedesca aveva richiesto alla Corte di Giustizia di pronunziarsi in via pregiudiziale, chiarendo se la BCE avesse leso la sfera di sovranità di cui gli Stati membri dispongono con riguardo alle scelte di politica economica e di bilanci.
Tuttavia, pur avendo ricevuto una risposta negativa (sentenza della Corte di giustizia, Grande Sezione, dell’11 dicembre 2018, causa C-493/17, Weiss), con la sentenza del 5 maggio 2020 il Bundesverfassunghericht ha statuito che, limitando il proprio sindacato al controllo sull’errore manifesto, la Corte europea non avesse esercitato in maniera piena i poteri ad essa spettanti, finendo così per esentare gli atti della BCE da un effettivo controllo giurisdizionale. In sostanza, non vi era stata un’adeguata verifica volta a stabilire, alla luce del principio di proporzionalità, se, nel caso di specie, la BCE avesse travalicato i confini della politica monetaria e invaso la sfera di competenza riservata agli Stati nazionali.
Per tali ragioni, la pronuncia pregiudiziale è stata ritenuta emessa ultra vires¸ ed in quanto tale non vincolante per l’ordinamento tedesco e i suoi giudici.
Indipendentemente dalla condivisibilità delle argomentazioni che hanno portato il giudice tedesco a decidere nel senso sintetizzato, è evidente come esso abbia inteso sottrarsi alla vincolatività delle decisioni del giudice europeo su un aspetto ritenuto decisivo nell’assetto ordinamentale.
A distanza temporale di meno di un anno, un altro giudice supremo di un Paese fondatore delle Comunità europee, il Conseil d’État francese, con la sentenza del 21 aprile 2021, ha palesemente disatteso, seppure attraverso un’operazione interpretativa, la giurisprudenza della Corte di Giustizia, che anche qui si era espressa in via pregiudiziale su richiesta dal medesimo giudice supremo amministrativo.
La questione, rinveniente dal ricorso di alcune associazioni attive nel campo della protezione dei dati personali, riguardava la conformità del regime francese di accesso, trattamento e conservazione dei dati di connessione da parte dei servizi di informazione alla normativa europea in materia, ed aveva visto la pronuncia della Corte di Giustizia, Grande Sezione, del 6 ottobre 2020, nelle cause riunite C-511/18, C-512/18 e C-520/18, La Quadrature du Net.
La Corte europea aveva ritenuto incompatibile con l’ordinamento europeo, che protegge i dati personali, la disciplina francese che impone la conservazione generalizzata e indifferenziata dei dati di connessione e consente ai sevizi di sicurezza l’accesso in tempo reale agli stessi.
Nondimeno, il Consiglio di Stato ha ritenuto che l’obiettivo di salvaguardia della sicurezza nazionale, ben più importante di quelli di lotta alla criminalità in generale e di tutela della sicurezza pubblica, può portare una deroga alla disciplina europea. D’altra parte, come chiarito dalla stessa Corte di Giustizia, la presenza di una minaccia “grave”, “reale e attuale o prevedibile” può giustificare misure di conservazione preventiva dei dati.
L’applicazione del diritto europeo, pertanto, osta unicamente alla previsione di un obbligo di conservazione generalizzata dei dati sensibili per esigenze diverse (e minori) quali, ad esempio, il perseguimento di illeciti penali.
Non meno determinata è stata la Corte costituzionale italiana, allorché la sentenza della Corte di Giustizia, Grande Sezione, dell’8 settembre 2015, nella causa C-105/14, Taricco, ha affermato l'obbligo per il giudice nazionale di disapplicare la disciplina in materia di prescrizione, ove ritenga che tali disposizioni, fissando un limite massimo al corso della prescrizione, impediscano allo Stato italiano di adempiere all'obbligo di effettiva tutela degli interessi finanziari dell'Unione nei casi di frodi tributarie di rilevante entità altrimenti impunite in un numero considerevole di casi.
La tecnica adoperata dal giudice costituzionale italiano, però, è stata diversa e di tipo collaborativo.
Infatti, con l'ordinanza 26 gennaio 2017, n. 24, la Corte costituzionale ha a sua volta sollevato nuova questione pregiudiziale, chiarendo, però, che nell’ordinamento costituzionale italiano la prescrizione ha natura non processuale, ma sostanziale, sicché essa è pienamente assoggettata al principio di legalità, non solo con riferimento al divieto di retroattività ma anche alla sufficiente determinatezza della norma relativa al regime di punibilità, dovendo la relativa disciplina essere analiticamente descritta, al pari del reato e della pena, da norme vigenti al tempo di commissione del fatto. Il giudice delle leggi ha quindi affermato che la legalità in materia penale rappresenta, ai sensi dell'art. 25, comma 2, Cost., «principio supremo dell'ordinamento», posto a presidio «dei diritti inviolabili dell'individuo», sicché l’attuazione del dictum della sentenza Taricco si sarebbe risolto in un vulnus che la Corte costituzionale non avrebbe potuto accettare e che avrebbe, pertanto, comportato l’applicazione della c.d. teoria dei controlimiti, con conseguente dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge di ratifica del TFUE nella parte in cui consente l’introduzione nell’ordinamento nazionale dell’obbligo prefigurato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia.
Anche la Corte di Giustizia, dal canto suo, ha adottato un approccio dialogante, pronunciandosi con la sentenza della Grande Sezione del 5 dicembre 2017, nella causa C-42/17, M.A.S., con cui, pur ribadendo la propria precedente ricostruzione, ha specificato che la disapplicazione delle norme sulla prescrizione non deve aver luogo se «comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile, o dell’applicazione retroattiva di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato».
La breve rassegna testé riportata non è intesa a giustificare, evidentemente, l’assai criticabile posizione della Corte costituzionale polacca.
Tuttavia, lo sforzo del giurista non può che essere anche quello di cogliere, nel mondo in cui è immerso, le linee di sviluppo giuridico. Ora, se è innegabile che negli ultimi decenni vi sia stata un’integrazione sempre maggiore tra ordinamenti nazionali e diritto europeo, ebbene, altrettanto innegabile è che tale integrazione comporti la rottura di consolidati equilibri storici, che vedono in ogni tradizione ordinamentale delle Corti poste a vertice e a chiusura del sistema e a presidio dei valori dell’ordinamento. Ora, il ruolo di tali Corti viene messo in gioco, o forse addirittura in crisi, dalla nuova articolazione multilivello degli ordinamenti, che comporta, altresì, una diversificazione delle forme di tutela dei valori fondamentali.
Ciò reca inevitabilmente con sé tentativi di dialogo e momenti di contrasto, alla ricerca di un equilibrio che, per quanto provvisorio come tutte le costruzioni umani, possa essere soddisfacente.
Dove possa collocarsi il punto di equilibrio è domanda a cui non è data, al momento, risposta, ma le nuove tappe del percorso non tarderanno ad aggiungersi.