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Il reato “giusto”. Note sull’attenuante dei motivi di particolare valore morale o sociale

24 gennaio 2021

Tribunale di Milano – Sezione decima penale, sentenza n. 9078 del 3 ottobre 2019, udienza del 5 luglio 2019 


Sono state depositate recentemente le motivazioni con cui la Corte di Appello di Milano, pur ritenendo il reato prescritto, ha respinto la richiesta della difesa del Sindaco Sala di assoluzione nel merito per il reato di falso da lui commesso – a dire dei Giudici – in qualità di amministratore delegato di EXPO 2015 S.p.A., e in occasione dell’allestimento dell’omonima esposizione universale.

In primo grado, il Tribunale competente aveva condannato Sala per tale reato, ritenendolo responsabile di avere apposto una data falsa a un verbale pubblico redatto nel corso della gara per l’aggiudicazione dell’appalto afferente alla realizzazione della c.d. Piastra dei servizi (e compilato in realtà non antecedentemente ma successivamente alla prima riunione della commissione giudicatrice), in modo da impedire che la riconosciuta partecipazione di due commissari “incompatibili” alle attività fino a quel momento espletate invalidasse gli atti già compiuti e ritardasse, conseguentemente, l’aggiudicazione.

I Giudici di primo grado hanno però anche ritenuto che l’amministratore delegato in questione fosse meritevole di attenuazione della pena per avere agito per motivi di particolare valore sociale, in quanto non era emersa in dibattimento “alcuna volontà di avvantaggiare taluno dei concorrenti alla gara o danneggiarne altri, ma solo quella di assicurare la realizzazione in tempo utile delle infrastrutture necessarie per la realizzazione ed il successo dell’Esposizione Universale 2015, risultato poi effettivamente conseguito ed unanimemente riconosciuto”.

L’attenuante in questione è prevista dall’art. 62, comma 1 n. 1) del codice penale e determina, se riconosciuta, una riduzione della pena in misura non eccedente un terzo.

Vediamone la concreta applicazione.   

Nella fattispecie sopra richiamata, un importante amministratore pubblico elimina dai documenti la possibile incompatibilità di due componenti della commissione di una gara Expo, retrodatando atti pubblici.

Tecnicamente, attesta il falso, ma non lo fa a fini personali, bensì per garantire la conclusione della gara e consentire il regolare avvio di una manifestazione di importanza strategica per il Paese.

Prendiamo adesso un’altra fattispecie di concreta applicazione della norma.

Un marito uccide la moglie, sparandole contro tre volte con un’arma da fuoco.

Tecnicamente, commette il reato di omicidio volontario, ma non lo fa perché la odia o per vendetta, bensì con l'intenzione di porre fine alle sue sofferenze.

La donna era infatti da tempo malata del morbo di Alzheimer, con una progressione sempre più invalidante che ne aveva reso necessario il ricovero in ospedale, dopo anni di cure domiciliari prestatele fino a quel momento proprio dall’uomo che avrebbe infine posto fine alla sua esistenza.

Cosa hanno in comune le due vicende? Esiste la differenza tra reati “giusti” e reati “ingiusti”?

Il nostro codice penale distingue, verrebbe da dire, tra reato giustificato e reato “giusto”.

Il primo è il reato commesso in presenza di una causa di non punibilità, ovvero di quelle circostanze che la dottrina e la giurisprudenza definiscono più propriamente come scriminanti o cause, per l’appunto, di giustificazione.

Chi commette un omicidio per legittima difesa, ad esempio, lo fa per estrema necessità personale (per salvarsi a sua volta “la pelle”), e quindi non può subire alcuna sanzione penale per il suo gesto estremo.

Non contano i motivi per cui ha commesso il reato, conta soltanto il fatto che è stato costretto a commettere il reato, e che non poteva reagire all’aggressione altrui se non commettendo quel determinato reato.

Fuori da queste ipotesi, il reato non dovrebbe mai considerarsi, almeno in astratto, giustificato o giusto, anche perché è il legislatore che ha preventivamente stabilito che quel determinato tipo di condotta offende un bene di interesse rilevante per la collettività o per l’individuo.

Purtuttavia, il nostro codice penale ha inserito, tra le circostanze attenuanti comuni – e cioè tra quelle circostanze contestuali al fatto, la cui esistenza attenua la gravità di ogni reato e conseguentemente può ridurre la sanzione penale – la seguente fattispecie: “l'avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale”. 

Cosa significa commettere un reato per motivi per così dire “nobili”?

Riprendiamo i casi del manager pubblico e del marito disperato.

Il primo sa che accettare la realtà dei fatti (la commissione giudicatrice deve essere cambiata e devono essere annullati tutti gli atti già compiuti) esporrà un progetto così importante per la comunità a un potenziale fallimento o comunque a un ritardo socialmente inaccettabile.

Il secondo commette il suo gesto estremo per evitare ulteriori sofferenze alla sua amata moglie.

Ecco due possibili motivi di particolare valore morale o sociale per commettere un reato. Si potrebbe altresì aggiungere che nel caso del manager pubblico prevalga la componente “sociale”, e nel caso del marito disperato la componente “morale”.

Si potrebbe poi obiettare che in un sistema “intransigente” è contraddittorio sanzionare penalmente una condotta oggettivamente e gravemente antigiuridica e poi attenuare la sanzione per tale condotta perché alla base vi erano dei motivi validi.

Il legislatore del 1930, però, ha ritenuto non esservi questa pretesa incompatibilità, e che le due circostanze (condotta criminosa e “nobili” motivi) possano convivere.

Ma quali sono i motivi che il diritto vivente ritiene di particolare valore morale o sociale? Come intuibile, si tratta di una definizione aperta, in cui possono confluire più concetti.

Il marito che ha ammazzato la moglie con tre colpi di pistola non ha commesso il reato per motivi di particolare valore morale. Così almeno ha stabilito la Corte di Cassazione, quando si è pronunciata sulla concreta fattispecie.

I Giudici di ultima istanza hanno stabilito che per verificare l’esistenza nel caso di specie del particolare valore morale dei motivi dell'azione occorre riferirsi al motivo determinate in relazione con l’azione, e agli orientamenti che la comunità sociale esprime, siano essi codificati in disposizioni normative o in comportamenti che, per la loro ripetizione, possano essere considerati espressione di un diffuso e comune sentire.

Occorre quindi distinguere tra sfera soggettiva (finalità) e requisito oggettivo di valutazione (comune sentire sociale).

Le finalità che hanno spinto il marito al gesto estremo - avere agito per far cessare le sofferenze fisiche, sempre più invalidanti ed irreversibili, della moglie – sono assimilabili al sentimento di pietà, inteso come comprensione delle sofferenze altrui.

La matrice altruistica, corrispondente alla direzione della volontà del reo tesa a porre fine alle sofferenze fisiche della moglie, non è inficiata, secondo la Corte di Cassazione, dalla compresenza, nella psiche del marito, di finalità "egoistiche", vale a dire dell’intento di raggiungere anche un benessere personale, non essendo più il marito in grado, psicologicamente, di partecipare alle sofferenze fisiche della moglie, ormai costretta in ambiente ospedaliero, dopo la lunga assistenza prestatale a casa dall’uomo.

Peraltro, si tratta di motivi che traggono sempre origine dalla vicinanza affettiva del coniuge verso la moglie, ed è proprio questa vicinanza che è stata la causa del reato, il motivo determinante nella deliberazione criminosa.

In altri termini, nella psiche dell'imputato è stata la compassione rispetto alla malattia della moglie a determinare il reo all'omicidio.

Da un punto di vista soggettivo, dunque, le finalità perseguite dal reo erano di particolare valore morale; dal punto di vista del comune sentire, però, la nozione di compassione da ritenersi attualmente operante nei rapporti tra esseri umani, rimane segnata dal superiore principio del rispetto della vita umana, che è il criterio della moralità dell'agire.

In particolare, nella coscienza sociale è ancora dibattuto il tema della eutanasia, ed è chiaro il ripudio di condotte connotate da violenza mediante uso di arma da fuoco, e in un luogo pubblico.

Secondo la Cassazione, sono argomenti significativi del perdurante rifiuto, nella coscienza sociale, di condotte caratterizzate da violenza su persona indifesa.

La conclusione è che nell’attuale coscienza sociale il sentimento di compassione o di pietà è incompatibile con la condotta di soppressione della vita umana verso la quale si prova il sentimento medesimo e che dunque non può essere ritenuta di particolare valore morale la condotta di omicidio di persona che si trovi in condizioni di grave ed irreversibile sofferenza fisica.

Nessuno sconto di pena ulteriore, dunque, oltre alle circostanze attenuanti generiche.

E il manager pubblico? Il Giudice di primo grado ha stabilito che ha agito per motivi di particolare valore sociale. La morale cede il posto alle istanze più impellenti ed attuali della società, e in un contesto in cui l’opinione pubblica vuole la realizzazione tempestiva ed efficiente di un’opera di interesse nazionale la sanzione penale deve essere attenuata se il reato è stato commesso per un motivo (anche) altruistico e socialmente valido.

E’ stata inoltre ravvisata la proporzione tra il mezzo utilizzato e lo scopo perseguito, anche perché si tratta di condotta integrante di per sé un reato di mero pericolo, che non ha provocato in concreto alcun danno materiale.

La Corte di appello ha confermato l’impostazione del Giudice di primo grado, ma ha contemporaneamente dichiarato prescritto il reato, mettendo la parola fine ad una vicenda di violazione delle regole procedimentali la cui oggettiva gravità era stata già attenuata dal tempo e dalle motivazioni dei protagonisti.



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