Sentenza della Corte di Assise di Roma del 13/10/2020 - sentenza del 15/06/2021 della Corte di Assise di Appello di Roma - Cassazione penale sez. II, 16/02/2022, (ud. 16/02/2022, dep. 22/03/2022), n.9972
IL CASO E LA DECISIONE
A seguito di una presunta sottrazione – con relativo incasso - di assegni ai danni di un centro sportivo, il gestore di tale centro ed altri soggetti suoi amici reagivano violentemente al fine non soltanto di rientrare in possesso della somma ma anche di ripristinare il prestigio del “gruppo criminale” di appartenenza all'interno del quartiere romano dove il circolo era ubicato.
Il Giudice di primo grado, con condanna confermata in appello, non ha derubricato i plurimi episodi contestati dall’accusa come di estorsione, tentata e consumata, nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ex art. 393 c.p., ritenendo che gli imputati avessero agito in qualità di terzi, per il recupero di una somma spettante al titolare della società che gestiva il centro sportivo al quale le somme erano state sottratte, pur nella convinzione dell'esistenza del diritto alla restituzione.
Ha inoltre concluso nel senso che l'ingiusto profitto dell'estorsione consisterebbe non solo nella proiezione patrimoniale della condotta costrittiva ma anche in ogni utilità, materiale o spirituale, che l'agente intenda perseguire, compresa l'intenzione di tutelare il prestigio criminale nella zona d'influenza.
Nel giudizio di cassazione, i ricorrenti hanno sostenuto che l'azione violenta sarebbe stata originata dal diritto di recuperare le somme sottratte alla società, riportate dagli assegni rubati e posti all'incasso, e che tale pretesa sarebbe stata fatta valere dal titolare del credito e dai terzi ai quali costui si sarebbe rivolto al solo fine di rientrare in possesso di quanto sottratto.
Tuttavia, la Corte di ultima istanza ha ritenuto che nessun preteso diritto gli imputati potessero esercitare nei confronti delle persone offese, in quel preciso momento storico, posto che, in alcun modo, era stata accertata la responsabilità dei predetti per il pregresso fatto di furto in danno della società sportiva.
Secondo la Cassazione, dunque, l'azione delittuosa era da considerarsi totalmente arbitraria, perché esercitata in presenza di un semplice sospetto.
Sotto altro profilo - proseguono i Giudici di legittimità -, è solo ad esito di un accertamento nell'ambito delle indagini da parte dell'autorità giudiziaria che alle vittime avrebbe potuto essere rivolta una richiesta con contenuto legittimo, mentre, nel caso di specie, il privato non aveva alcun "diritto" a porre in essere una propria indagine personale esercitando violenza nei confronti del sospettato autore di un precedente furto per ottenere la restituzione di quanto sottratto illecitamente, proprio perché l'iniziativa volta alla individuazione degli autori di un fatto illecito e alla repressione degli stessi è integralmente attribuita alla pubblica autorità di polizia ed alla autorità giudiziaria e non può invece essere esercitata dai privati attraverso indagini autonome e la comminatoria di conseguenti sanzioni, da considerarsi certamente estranee all'ordinamento.
La Corte di Cassazione ha dunque confermato le conclusioni sul punto dei giudici di merito, seppure con diversa motivazione, rigettando altresì anche il motivo imperniato sul mancato accertamento del profitto dell’estorsione, posto che una pretesa economica totalmente indebita, perché basata su un semplice sospetto, priverebbe di rilevanza l'ulteriore finalità delle azioni violente.
ESTORSIONE ED ESERCIZIO ARBITARIO DELLE PROPRIE RAGIONI
L’art. 393 del codice penale prevede una fattispecie incriminatrice in cui il bene protetto non è soltanto il buon andamento dell’amministrazione della giustizia ma anche la tutela della pubblica quiete e la pubblica e privata protezione da aggressioni morali e fisiche utilizzate per “regolare i conti” tra di loro dai consociati.
La condotta consiste nel farsi arbitrariamente ragione da sé medesimi usando violenza o minaccia alle persone, e il presupposto di tale condotta è la possibilità di ricorrere al giudice per ottenere quanto reclamato.
Si tratta di un reato con dolo specifico, perché caratterizzato dal fine di esercitare un preteso diritto, che nella sua versione “aggravata” può essere commesso con l’uso di armi.
L’art. 629 c.p. – delitto di estorsione – è invece ricompreso nella parte del codice dedicata ai reati contro il patrimonio (con un bene giuridico protetto che è senz’altro estraneo alla tutela di interessi specificamente pubblicistici), ma ha in comune con il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone la condotta di violenza o minaccia, e la costrizione nei confronti di taluno a fare od omettere qualche cosa.
A questa condotta, peraltro, deve aggiungersi anche quella di procurarsi, a mezzo delle modalità sopra descritte, un ingiusto profitto con altrui danno.
Secondo il più recente orientamento delle Sezioni Unite della Corte di cassazione il reato di estorsione e quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni si distinguono tra loro in relazione all'elemento soggettivo. da accertarsi secondo le ordinarie regole probatorie.
In particolare, ai fini della distinzione tra i reati di cui agli artt. 393 e 629 c.p. assume decisivo rilievo l'esistenza o meno di una pretesa in astratto ragionevolmente suscettibile di essere giudizialmente tutelata.
Nell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni, il soggetto agisce con la coscienza e la volontà di attuare un proprio diritto, a nulla rilevando che il diritto stesso sussista o non sussista, purché l'agente in buona fede e ragionevolmente, ritenga di poterlo legittimamente realizzare; nell'estorsione, invece, l'agente non si rappresenta, quale impulso del suo operare, alcuna facoltà di agire in astratto legittima, ma tende all'ottenimento dell'evento di profitto mosso dal solo fine di compiere un atto che sa essere contra ius perché privo di giuridica legittimazione, per conseguire un profitto che sa non spettargli.
Ai fini dell'integrazione del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la pretesa arbitrariamente coltivata dall'agente deve, peraltro, corrispondere esattamente all'oggetto della tutela apprestata in concreto dall'ordinamento giuridico, e non risultare in qualsiasi modo più ampia, atteso che ciò che caratterizza il reato in questione è la sostituzione, operata dall'agente, dello strumento di tutela pubblico con quello privato, e l'agente deve quindi essere animato dal fine di esercitare un diritto con la coscienza che l'oggetto della pretesa gli possa competere giuridicamente.
La pretesa non deve essere del tutto arbitraria - cioè sfornita di una possibile base legale -, in quanto il soggetto attivo deve agire nella ragionevole opinione della legittimità della sua pretesa, ovvero ad autotutela di un suo diritto in ipotesi suscettibile di costituire oggetto di una contestazione giudiziale avente, in astratto, apprezzabili possibilità di successo.
D’altra parte, l'intensità della minaccia e della violenza esercitate non costituiscono elementi distintivi delle fattispecie, dal momento che la pena è aumentata se la violenza o minaccia è commessa con armi, senza legittimare distinzioni tra armi bianche ed armi da fuoco, di modo che è normativamente prevista la qualificazione come esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone, aggravato dall'uso di un'arma, anche di condotte poste in essere con armi tali da rendere la violenza o la minaccia di particolare gravità, ovvero costrittiva, e comunque sproporzionata, rispetto al fine perseguito.
Questo riferimento appare dunque decisivo per non attribuire alcuna rilevanza al quantum di violenza esercitata oppure alla gravità della minaccia proferita.
Pertanto, l’orientamento ad oggi assolutamente prevalente è quello secondo cui le due fattispecie in esame si distinguono in base al solo finalismo della condotta, che in un caso è mirata al conseguimento di un profitto ingiusto, e nell'altro allo scopo, soggettivamente concepito in modo ragionevole, di realizzare, pur con modi arbitrari, una pretesa giuridicamente azionabile.
In questa prospettiva, il livello offensivo della coercizione finisce con l'incidere solo sulla gradazione della pena, ma non sulla qualificazione del fatto, di modo che non può mai essere annullata la funzione definitoria del corrispondente riferimento alla specifica connotazione del profitto perseguito dall'estorsore.
Nel caso in commento, di conseguenza, la condotta tenuta dagli imputati è stata fatta rientrare nella fattispecie di estorsione, in quanto il fine perseguito dall'agente mirava al conseguimento di un profitto da qualificarsi come ingiusto, perché privo di qualsiasi fondamento giuridico (la pretesa restitutoria nei confronti delle persone offese era infatti basata su meri sospetti personali e non sugli esiti di un’indagine condotta dalla polizia giudiziaria o dalle autorità competenti).
D’altra parte, la Cassazione ha osservato che i fenomeni di sostituzione delle indagini “private” alle indagini pubbliche compiute secondo le regole stabilite dall’ordinamento giuridico costituiscono la tipica manifestazione delle organizzazioni criminali che esercitano il controllo del territorio attraverso personali attività, rivolte alla repressione dei fatti commessi in danno di soggetti partecipi dell'organizzazione o che comunque alla stessa si rivolgano per la soluzione di problematiche, e ciò fanno senza avere alcun potere per l'effettuazione di indagini od attività di repressione del crimine.
In altri termini, l'esercizio di "potestà" sostitutive dei pubblici poteri costituirebbe, secondo i Giudici, una delle più eclatanti manifestazioni delle realtà criminali, le quali in effetti mirano non soltanto all'arricchimento attraverso la consumazione di una o più fattispecie di delitto ma, anche, al controllo della popolazione vivente all'interno del territorio controllato, attraverso la repressione di quei piccoli fatti criminosi operati da soggetti estranei alle logiche criminali che vengono perseguiti e puniti sulla base di semplici sospetti od accertamenti compiuti con efferatezza.
Applicando gli stessi principi, in fattispecie in cui la condotta di violenza, minaccia e costrizione sia consistita in un vero e proprio sequestro di persona, la giurisprudenza di legittimità ha tenuto ferma anche la distinzione tra il concorso con il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e il vero e proprio delitto di sequestro a scopo di estorsione.
In particolare, è stato detto che quando la pretesa di adempimento di un credito sia effettuata con minaccia o violenza non nei riguardi del debitore, bensì di un terzo, ed a tale condotta seguano ulteriori violenze e minacce di terzi estranei verso soggetti diversi dal debitore, sicché la pretesa arbitraria si trasforma in richiesta estorsiva, sia a causa delle modalità e della diversità dei soggetti autori delle violenze, che per l'estraneità dei soggetti minacciati alla pretesa azionata, si rientra direttamente nella fattispecie di sequestro di persona a fini di estorsione, con esclusione della configurabilità di un’ipotesi di concorso del delitto di cui all’art. 393 c.p. con il reato di cui all’art. 605 c.p..
Sotto altro, concorrente profilo, nel delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, l'ingiusto profitto cui deve essere finalizzata la condotta dell'agente si identifica in qualsiasi utilità, anche di natura non patrimoniale, che costituisca un vantaggio per il soggetto attivo del reato o per il terzo nel cui interesse egli abbia agito, rimanendo irrilevante, nel caso di
concorso di persone nel reato, che lo scopo perseguito, ancorché comunque tipico, non sia identico per tutti i correi, in quanto risponde di concorso ex
art. 110 c.p., in un reato a dolo specifico, anche il soggetto che apporti un contributo che non sia soggettivamente animato dalla particolare finalità richiesta dalla norma incriminatrice, a condizione che almeno uno degli altri concorrenti (non necessariamente l'esecutore materiale), agisca con tale intenzione e che della stessa il primo sia consapevole.