Lo sport per sua natura ed essenza è il regno dell'azione fisica umana. E come tale vive della passione e del vigore atletico di chi lo pratica. Per la sua stessa fisiologia esiste e si auto-conserva in virtù di norme e regole che nascono dall'esigenza di contemperare e far coesistere la vitalità, il dinamismo del gesto fisico e la sicurezza corporea di chi lo produce. Dunque, da sempre, per permettere la sussistenza stessa dello sport, si è profilata la necessità ineludibile di sancire un insieme di precetti e regolamenti che ne consentissero un razionale svolgimento senza intaccarne natura ed essenza, coinvolgente il diritto di esplicarsi in maniera "tutelata e tutelabile"
erga omnes.
La necessità, cioè, di esistere, muovendosi in equilibrio su di una ben evidenziata linea di confine - chiaramente all'interno delle sovrastrutture ordinamentali dei principi generali del diritto -, ma presentando caratteri non negoziabili di autonomia, indipendenza da ingerenze e condizionamenti di organismi, enti o autorità esterne, pragmatismo nell'affrontare situazioni sociali ed economiche rilevanti e ragionevolezza finalizzata alla sua prosecuzione, nonché certezza che fatti o elementi estranei non ne pregiudichino credibilità
super partes e terzietà oggettiva.
Da qui
l'autodichia del mondo dello sport, dalle gerarchie istituzionali più alte, come quelle del CIO a livello internazionale, a quelle dei Comitati Nazionali come il CONI a cui aderiscono le varie Federazioni sportive dei singoli sport.
Di conseguenza, per le sue innegabili peculiarità transnazionali e di coesistenza con i bisogni d'imperio del diritto "positivo" (articolazione dello stesso a livello internazionale, incessante progredire dei campionati sportivi, con conseguente necessità di garantire soluzioni immediate e certe di ogni eventuale controversia con speditezza e con competenza tecnica ecc.), il sistema sportivo ha sempre evidenziato la propria “specificità”, e di conseguenza, rivendicato la propria “autonomia” dai vari ordinamenti giuridici statali.
Al fine di garantire al suo interno la soluzione di tutte le controversie derivanti dall’attività sportiva, le strutture istituzionali delle sport hanno predisposto un sistema di giustizia volta a fornire una soluzione (rapida e da parte di soggetti tecnicamente competenti) di tutte le sue questioni e vicende controverse, la c.d. “giustizia sportiva”.
Inoltre, su indicazione da parte dell’ordinamento sportivo internazionale, i vari ordinamenti sportivi nazionali hanno elaborato all’interno dei propri regolamenti, una normativa che dissuade i tesserati ad adire gli organi di giustizia statale per la tutela dei propri interessi, prevedendo addirittura sanzioni disciplinari in caso di violazione di essa, il c.d. “vincolo di giustizia”. Con tale normativa, in sostanza, l’ordinamento sportivo ha cercato di affermare il proprio distacco dai vari ordinamenti statali in termini assoluti, ovvero come “organismo separato”, limitando per i soggetti ad esso affiliati, le società ed associazioni sportive, o tesserati, gli atleti ed i tecnici, (pur essendo questi, oltre che soggetti dell’ordinamento sportivo, anche soggetti dell’ordinamento statale) l’esercizio del diritto alla tutela dei propri interessi innanzi agli organi di giustizia dello Stato.
Il legislatore sembra avere preso atto dell’esistenza di tale sistema, naturalmente tendente all’autosufficienza, con la legge n. 280/2003, che all’art. 2, stabilisce che
“è riservata all’ordinamento sportivo la disciplina delle questioni aventi ad oggetto: a) l’osservanza e l’applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie dell’ordinamento sportivo nazionale e delle sue articolazioni al fine di garantire il corretto svolgimento delle attività sportive; b) i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive”.
In relazione a tali questioni “tecniche” è riscontrabile appunto
l’autodichia della giustizia sportiva, cui consegue che le decisioni del giudice sportivo, stante la peculiarità delle singole questioni affrontate, sono soltanto parzialmente sindacabili da parte del giudice statale. Lo sforzo è peraltro quello di garantire, al contempo, che anche il giudice sportivo, al pari di quello statale, seppure in un contesto dal sapore “amministrativo”, si adegui all’applicazione dei principi generali in materia di diritto alla difesa e “giusto processo” di cui all’art. 111 Cost.
Semplificando, si può dunque dire che sia configurabile un ordinamento giuridico sportivo come ordinamento di settore. Esso è generalmente inteso come l’insieme di soggetti impegnati nella pratica agonistica di uno sport, organizzati entro strutture predefinite e soggetti a regole “autoprodotte”.
Circa la natura di queste regole, si è inizialmente dubitato che esse potessero integrare delle vere e proprie regole di diritto. Secondo una parte della dottrina, infatti, essendo lo sport un gioco, esso sarebbe dominato, più che da norme di diritto, dal principio del
fair play, informato ai generali doveri di lealtà e correttezza.
Dal punto di vista giuridico, peraltro, l’ordinamento sportivo può essere definito come una formazione sociale di tipo associativo. Esso, pertanto, trova riconoscimento e tutela negli artt. 2 e 18 della Costituzione che tutelano le formazioni sociali preposte allo sviluppo della personalità umana e alla garanzia di libertà associativa.
La citata legge n. 280/2003, in effetti, stabilisce all’art 1 che
“La Repubblica riconosce e favorisce l’autonomia dell’ordinamento sportivo nazionale, quale articolazione dell’ordinamento sportivo internazionale facente capo al Comitato Olimpico Internazionale (CONI). I rapporti tra l’ordinamento sportivo e l’ordinamento della Repubblica sono regolati in base al principio di autonomia, salvi i casi di rilevanza per l’ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l’ordinamento sportivo”.
Orbene, la norma sancisce l’autonomia dell’ordinamento sportivo rispetto a quello generale, pur con l’avvertenza che trattasi pur sempre di un’autonomia che deve soggiacere a dei limiti. Infatti, tale autonomia trova origine nel carattere di “internazionalità” dell’ordinamento sportivo, ma è limitata laddove assuma rilevanza, nel contesto dell’ordinamento generale, una situazione giuridica soggettiva che venga lesa nell’ambito dello svolgimento dell’attività sportiva.
Dunque, all’ordinamento sportivo è riconosciuto un ampio margine di autonomia rispetto all’ordinamento generale. Ciò non solo per il tipo di interesse c.d. settoriale che lo caratterizza, ma anche e soprattutto per l’esigenza di assicurare soluzioni adatte alle ipotesi di conflittualità specifica che si manifestano al suo interno e che richiedono un alto grado di specializzazione, specie in relazione alla pluralità di sport esistenti. Ricordiamo, infine, che gli Statuti e i Regolamenti federali prevedono che gli affiliati e i tesserati accettino
sic et sempliciter gli accordi endofederali così come disciplinati dall’ordinamento sportivo.
Ciononostante, nel caso della sentenza del 22 dicembre scorso emessa dal Collegio di Garanzia del CONI sulla famosa partita Juventus-Napoli (inizialmente aggiudicata a tavolino alla squadra bianconera per la mancata presentazione della società di calcio Napoli nel luogo e nell’orario convenuto previsto per lo svolgimento dell’incontro), l'architrave dell'assunto giuridico-legislativo appena esaminato è sembrato scricchiolare.
Ma facciamo un piccolo passo indietro. Poco prima dell'estate scorsa, al fine di consentire la ripresa dei campionati professionistici di calcio fino ad allora sospesi per pandemia, sono stati predisposti dalla FIGC, in accordo con il Governo, sentiti i loro organismi tecnico-scientifici, e sottoscritti da tutti gli associati-affiliati partecipanti (le società sportive iscritte ai relativi campionati), una serie di rigidi Protocolli (Accordi endofederali) “anticontagio” per gli atleti. Questi strumenti di contenimento dell'infezione, volti alla salvaguardia della regolarità dei campionati oltre che della salute degli sportivi professionisti e di tutti i lavoratori del relativo
circus, avevano come presupposto di diritto il rispetto stesso dell'Accordo, senza deroghe, in quanto ispirato al principio del buon senso e mosso dalla volontà di continuare a "produrre" economia-intrattenimento-calcio attraverso prassi credibili e dignitose dell'"Istituzione Sportiva", benché ci si trovasse in una condizione di piena emergenza e straordinarietà.
Nello specifico, in data 4 ottobre 2020 (giorno in cui avrebbe dovuto disputarsi Juventus-Napoli), il Protocollo che disciplinava le “modalità attuative della quarantena per i contatti stretti dei casi COVID-19, in particolari contesti di riferimento, quali l’attività agonistica di squadra professionista”, rinviava alla circolare del Ministero della Salute n. 21463 del 18 giugno 2020, che a sua volta stabiliva che
“per quanto riguarda l’attività agonistica di squadra professionista, nel caso in cui risulti positivo un giocatore ne dispone l’isolamento ed applica la quarantena dei componenti del gruppo squadra che hanno avuto contatti stretti con un caso confermato. Il Dipartimento di prevenzione può prevedere che, alla luce del citato parere del 12 giugno 2020 n. 88 del Comitato tecnico scientifico nominato con ordinanza del Capo Dipartimento della Protezione Civile n. 630 del 3 febbraio 2020, alla quarantena dei contatti stretti possa far seguito, per tutto il “gruppo squadra”, l’esecuzione del test, con oneri a carico delle società sportive, per la ricerca dell’RNA virale, il giorno della gara programmata, successiva all’accertamento del caso confermato di soggetto Covid-19 positivo, in modo da ottenere i risultati dell’ultimo tampone entro 4 ore e consentire l’accesso allo stadio e la disputa della gara solo ai soggetti risultati negativi al test molecolare”.
Sulla base del rispetto di questi rigidi “patti” (poi rimodellati via via nel tempo in ottemperanza alle giuste osservazioni migliorative delle società calcistiche), di ragionevole e condivisibile
fair play sportivo, e in coerenza con i principi regolatori da essi stabiliti (che prevedevano lo svolgimento delle partite anche se una delle squadre avesse dovuto patire molte defezioni causa covid tra i suoi calciatori prima delle stesse), i campionati sono ricominciati e si sono conclusi senza particolari problemi di svolgimento.
Sotto l'egida autorevole e conservativa insita nei principi che sollecitano la compiuta
autodichia sportiva, a settembre ne è cominciato un altro, che ha consentito il normale svolgimento di tante partite pur se una delle squadre presentava quasi mezza rosa fuori uso causa covid.
Emblematico è il caso del Genoa, che con ben 14 contagiati (11 giocatori e 3 dello staff) ha affrontato regolarmente la trasferta campana ed è stato battuto 6 a 0 dal Napoli nella giornata calcistica precedente al fatto di cui si discetta.
Ciò veniva normalmente accettato di buon grado dalle parti che avevano sottoscritto gli Accordi sopra citati per i chiari, evidenti ed oggettivi motivi che tutti gli appassionati sportivi hanno compreso. L'unico limite regolamentare per la disputa di una partita era, ed è tuttora, il riferimento della disposizione UEFA (integralmente adottata dalla FIGC), che prevede la possibilità di portare a compimento una partita soltanto ove una squadra raggiunga un minimo di 13 giocatori iscritti a referto.
Tuttavia, la sentenza del 22 dicembre scorso emessa dal Collegio di Garanzia del CONI sulla partita Juventus-Napoli non disputata il 4 ottobre del 2020 ha creato di fatto, al di là delle motivazioni “tecniche”, che pure vanno a esaminarsi, una forte difformità di trattamento tra affiliati e sottoscrittori del Protocollo.
La vicenda che ha portato alla suddetta decisione trae il suo elemento centrale dall'intervento di una autorità amministrativa esterna (unico caso ad oggi), che, come da circolare del Ministero della Salute n. 21463 del 18 giugno 2020, avente ad oggetto
«Modalità attuative della quarantena per i contatti stretti dei casi COVID-19, in particolari contesti di riferimento, quali l’attività agonistica di squadra professionista», è stato attivato per mezzo di una richiesta della SSC Napoli alle Autorità Sanitarie competenti due giorni prima della partita, dopo aver riscontrato due casi di positività al Covid. Con tale comunicazione la stessa società chiedeva, inoltre, all’Autorità Sanitaria di esprimersi sulla facoltà discrezionale di consentire la c.d. “trasferta in bolla”.
A seguito della comunicazione di rito, le Autorità Sanitarie competenti (tra l'altro, diverse tra loro, a più riprese e a progressivi livelli di categoricità e risolutezza nell'intero arco temporale delle 48 ore prima dell'incontro), hanno prima precisato che
«le responsabilità nell’attivare i protocolli previsti dalla F.I.G.C.»
fossero in capo alla SSC Napoli, riservandosi di
«esaminare le conseguenti attività epidemiologiche utili ad individuare i contatti di vita e familiari e lavorativi», poi, come da Protocollo, hanno obbligato la squadra partenopea all'isolamento domiciliare in attesa dei nuovi tamponi da effettuare al resto del gruppo; infine, temendo una imprecisata escalation di "pericolosità sociale", è stata disposta l’imposizione del divieto di andare in trasferta, escludendo la possibilità ordinaria della “trasferta in bolla”, e ribadendo l’obbligo per i contatti stretti di rispettare l’isolamento fiduciario domiciliare.
In tale contesto, la SSC Napoli disdiceva il volo prenotato di sabato sera 3 ottobre per Torino e, conseguentemente, anche i tamponi prenotati per la mattina del 4 ottobre a Torino ed inviava richieste di rinvio, motivate dalla impossibilità di raggiungere Torino (una il 3 ottobre 2020, alle ore 22.06 ed una successiva il 4 ottobre 2020, alle ore 16.41) alla Lega Nazionale Professionisti Serie A, che nel frattempo la sollecitava alla ordinaria partecipazione all'incontro, dopo che anche la Juventus aveva manifestato la volontà di disputare la partita.
A fronte di tale situazione, sul versante della giustizia interna, sia il Giudice Sportivo che la Corte Sportiva di Appello, pur riconoscendo la preclusione alla trasferta, individuavano nel provvedimento del 4 ottobre 2020 il cosiddetto
factum principis, considerandolo peraltro inidoneo a costituire una causa di forza maggiore, sul presupposto che la società ricorrente aveva tentato, con il proprio precedente comportamento, di sottrarsi, comunque, alla partecipazione della gara, quando ancora il
factum principis
non era venuto ad esistenza.
In particolare, la Corte Sportiva di Appello ha respinto il reclamo proposto, ritenendo violato dalla società ricorrente il principio, più volte affermato dal Collegio di Garanzia dello Sport del CONI, secondo cui
«il fine ultimo dell’ordinamento sportivo è quello di valorizzare il merito sportivo, la lealtà, la probità e il sano agonismo», avendo la società calcio Napoli tenuto nei giorni antecedenti la disputa dell’incontro un comportamento
«teso a precostituirsi, per così dire, un “alibi” per non giocare quella partita». Secondo la Corte Sportiva d’Appello, la mancata disputa dell’incontro non sarebbe dipesa, da una causa di forza maggiore o dal c.d.
“factum principis”,
«bensì da una scelta volontaria, se non addirittura preordinata, della Società ricorrente».
La Corte riconduceva la condotta tenuta dalla SSC Napoli nei giorni antecedenti la disputa della gara alla figura della c.d.
“actio libera in causa”, che costituisce, come noto, una deroga al principio generale secondo il quale la punibilità per la commissione di un reato necessita della capacità di intendere e di volere dell’autore al momento del fatto; eccezione, quest’ultima, che trova giustificazione, secondo la migliore dottrina, nel c.d. “dolo di preordinazione”; ed, infatti, anche se, al momento della realizzazione del reato, difetta, nel soggetto agente, la capacità di intendere e di volere, non può sottovalutarsi che è stato egli stesso a creare la predetta condizione, non soltanto dandovi vita volontariamente, ma anche orientando il proprio programma volitivo al precipuo scopo di commettere il reato o prepararsi una scusa. Secondo la Corte, la società ricorrente, nei giorni precedenti la gara, aveva
«orientato la propria condotta al precipuo scopo di non disputare il predetto incontro, o, comunque, di precostituirsi una scusa per non disputarlo".
Tuttavia, il Giudice del CONI, in terzo grado (nelle vesti di “giudice di legittimità”), ha rovesciato l’esito delle prime due decisioni, sostenendo che il
factum principis - cioè un provvedimento di legge o di carattere amministrativo emesso dalle competenti autorità che, per tutelare l'interesse pubblico a cui sono preposte, impongono prescrizioni comportamentali o divieti che rendono impossibile la prestazione dell'obbligato indipendentemente dalla sua volontà - non fosse da ravvisare nella nota del 4 ottobre 2020, ore 14.13 della ASL Napoli 2 Nord, ma andasse, invece, individuato nelle due note del 3 ottobre 2020, ore 16.53 (con la quale la ASL Napoli 1, ricevuti i dati dell’indagine epidemiologica, provvedeva a formalizzare l’indicazione dei contatti stretti relativi al caso accertato di infezione Covid, ricordando la necessità dell’isolamento domiciliare degli stessi) e nella nota del 3 ottobre 2020, n. 14450, delle 16.03 della ASL Napoli 2 (che chiariva la necessità di isolamento fiduciario domiciliare per 14 giorni).
Secondo il Collegio, le due richiamate note integrerebbero del tutto i requisiti richiesti dal comma 6 della Circolare 18 giugno 2020 e rappresenterebbero, pertanto, gli atti oggettivamente impeditivi dell’attività a cui sarebbe stata tenuta la SSC Napoli in applicazione della normativa federale. Pertanto, ne è derivato, secondo il Giudice sportivo di ultima istanza, che la condotta attesa dalla SSC Napoli è divenuta impossibile per effetto dei richiamati provvedimenti, che escludono, peraltro, considerato il pieno rispetto della normativa vigente, una responsabilità di quest’ultima società. Responsabilità che, di certo, non avrebbe potuto essere individuata, come invece avevano concluso le decisioni delle Corti federali, “anche” nella richiesta di chiarimenti circa la condotta da tenere.
Quegli atti avrebbero rappresentato, secondo il Collegio di garanzia, il c.d.
factum principis, che ha impedito la prestazione sul campo della SSC Napoli, “sia perché entrambi sono atti amministrativi di fonte superiore rispetto alle norme federali, che cedono di fronte ai medesimi, sia perché applicativi di una Circolare emergenziale del Ministero della Sanità, sia perché coerenti proprio con il procedimento previsto dal comma 6 della richiamata Circolare”.
Ne è disceso che la richiesta di informazioni e chiarimenti della SSC Napoli non è stata considerata un atto preordinato a precostituire un elemento per non adempiere all’obbligo rimesso, in relazione all’asserito rispetto del Protocollo da parte della Società e della sussistenza di un provvedimento (factum principis) che ha reso impossibile una diversa condotta.
Praticamente, il Collegio – riunito in Sezioni Unite - ha sostenuto che, anticipandosi di un giorno l'atto amministrativo a cui attribuire "valore impositivo" – che ha cioè determinato l'impossibilità oggettiva sopravvenuta -, sarebbe scomparso il dolo nel comportamento elusivo della SSC Napoli.
Tuttavia, tale conclusione lascia perplessi innanzitutto nella ricostruzione del fatto, poiché non si capisce per quale motivo si siano allora resi necessari, a fini esplicativi, altri provvedimenti amministrativi in serie fino a poche ore prima del fischio d'inizio della partita, se l’ostacolo alla trasferta era da considerarsi fin da subito insormontabile.
Sotto un profilo concettuale, inoltre, la pronuncia del Collegio di Garanzia rischia di produrre una forte distorsione nell'approccio sistematico alla relativa problematica giuridica, che emerge in tutta la sua potenziale radicalità, nel momento in cui si sancisce il principio secondo cui ogni squadra, nelle stesse condizioni in cui versava la società calcio Napoli il 3 ottobre 2020, dopo avere comunicato all'ASL territorialmente competente i propri casi di covid, avrebbe facoltà di non presentarsi in campo, in assenza di una deroga o autorizzazione espressa alla trasferta “in bolla”.
Nel merito, il Collegio di Garanzia ha evidenziato che la circolare del Ministero della Salute n. 21463 del 18 giugno 2020, pacificamente ritenuta applicabile al caso di specie, prevedrebbe una facoltà, concessa al Dipartimento di prevenzione, e non un obbligo. Tale facoltà non sarebbe stata esercitata dal citato Dipartimento, e anzi l’Autorità sanitaria avrebbe agito in modo opposto, azionando la diversa prerogativa riconosciuta dalla circolare, ovvero di provvedere
sic et simpliciter, nei confronti dei contatti stretti, alla prescrizione della quarantena per 14 giorni successivi all'ultima esposizione.
La motivazione non convince. L’Autorità sanitaria non pare avere applicato la disposizione richiamata dalla pronuncia del Collegio di Garanzia, anche perché quella disposizione non è stata “pensata” per i protagonisti dell’“attività agonistica di squadra professionista”, bensì per i “contatti stretti” costituiti da soggetti esterni ai “componenti del gruppo squadra”, come si ricava
a contrario dal cosiddetto comma 7, che si diffonde specificamente su calciatori positivi e componenti del gruppo squadra.
Il Collegio di Garanzia, in effetti, ha valutato come alternative tra di loro (nel senso che se non si applica l’una, si applica l’altra) due disposizioni che invece regolano, sotto un profilo logico, due fattispecie diverse, e che hanno tra di loro un punto di contatto soltanto nel comune presupposto di fatto (positività di un soggetto all’interno dello specifico contesto del gioco agonistico di squadra): una, dedicata, come visto, ai “contatti stretti” costituiti da soggetti non “componenti del gruppo squadra” (il cosiddetto comma 6 della circolare) e un’altra, volta alla regolamentazione specifica dell’attività agonistica di squadra professionista (“per quanto riguarda l’attività agonistica di squadra professionista”), che prevede, insieme all’isolamento del giocatore che risulti “positivo” e all’ applicazione della quarantena per i componenti del gruppo squadra che hanno avuto contatti stretti con lui, la possibilità per il Dipartimento di Prevenzione di consentire l’accesso allo stadio e la disputa della gara ai soggetti risultati negativi al test molecolare (il cosiddetto comma 7).
Il comma 7 evocato dal Collegio di garanzia andrebbe dunque letto indipendentemente dal comma 6 (che regolamenta fattispecie diversa), in modo non frammentato, e dunque interpretato nella sua unitarietà.
Rileggiamolo, allora, per intero: “L'operatore di sanità pubblica del Dipartimento di Prevenzione territorialmente competente (…) per quanto riguarda l’attività agonistica di squadra professionista, nel caso in cui risulti positivo un giocatore ne dispone l’isolamento ed applica la quarantena dei componenti del gruppo squadra che hanno avuto contatti stretti con un caso confermato. Il Dipartimento di prevenzione può prevedere che, alla luce del citato parere del 12 giugno 2020 n. 88 del Comitato tecnico scientifico nominato con ordinanza del Capo Dipartimento della Protezione Civile n. 630 del 3 febbraio 2020, alla quarantena dei contatti stretti possa far seguito, per tutto il “gruppo squadra”, l’esecuzione del test, con oneri a carico delle società sportive, per la ricerca dell’RNA virale, il giorno della gara programmata, successiva all’accertamento del caso confermato di soggetto Covid-19 positivo, in modo da ottenere i risultati dell’ultimo tampone entro 4 ore e consentire l’accesso allo stadio e la disputa della gara solo ai soggetti risultati negativi al test molecolare. Al termine della gara, i componenti del “gruppo squadra” devono riprendere il periodo di quarantena fino al termine previsto, sotto sorveglianza attiva quotidiana da parte dell'operatore di sanità pubblica del Dipartimento di Prevenzione territorialmente competente, fermi gli obblighi sanciti dalla circolare di questa direzione generale del 29 maggio 2020”.
La norma è stata sicuramente “confezionata” male, ma è ovvio, nell’ottica del principio di continuità dei campionati agonistici stabilito a livello di accordo generale tra Governo e Federazioni sportive (e nel rispetto della riconosciuta autonomia dell’ordinamento sportivo), che il “può prevedere”, più che alludere ad una facoltà discrezionale dell’Autorità sanitaria, è il normale epilogo della positività di un giocatore, salvo casi eccezionali.
L’interpretazione fornita dal Collegio di Garanzia presuppone invece un antecedente logico e giuridico incompatibile con il citato principio di continuità dei campionati agonistici: è sempre l’Autorità sanitaria, nell’esercizio di una piena discrezionalità che sconfina quasi nell’arbitrarietà, a decidere quale squadra gioca e quale squadra non gioca, a prescindere dalla gravità della situazione epidemiologica.
D’altra parte – e forse è qui il nervo scoperto di tutta la vicenda, che seppure con ragionamento in diritto non del tutto soddisfacente il Giudice sportivo e la Corte federale avevano colto – il senso della iniziale risposta fornita dalle ASL Napoli 1 e 2 ai chiarimenti chiesti dalla società calcio Napoli era proprio questo; dire che la responsabilità nell’attuare i protocolli previsti dalla FIGC per il contenimento dell’epidemia non era di competenza della ASL ma della società di calcio stessa, e contestualmente ricordare la (ovvia) necessità di isolamento dei contatti stretti, non significava altro che dire, nella logica seguita fino a quel momento nell’applicazione del protocollo sportivo anti-covid, che nulla ostava allo svolgimento della partita “in sicurezza”, con le modalità previste, cioè, dal famigerato comma 7 della circolare ministeriale.
Un’ultima riflessione si impone, a questo punto. L’autonomia dell’ordinamento sportiva è sacrosanta e l’autodichia della giustizia sportiva forse giusta, nell’ottica di una velocizzazione e uniformità delle decisioni su questioni “tecniche”, ma se poi le pronunce del Collegio di Garanzia si spingono, seppure legittimamente, a valutare i rapporti tra ordinamento giuridico generale e ordinamento sportivo interno, forse sarebbe meglio lasciare l’ultima parola a un giudice togato.