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Revoca delle misure di accoglienza, doppia pregiudizialità e disapplicazione

18 gennaio 2021

Corte di Giustizia UE, sentenza del 12 novembre 2019, causa C-233/18/ Consiglio di Stato, ordinanza n. 8540 del 2020


I richiedenti protezione internazionale sono quei soggetti che si trovano in situazioni tali da potere ottenere l’asilo politico o la protezione sussidiaria, che sono misure di tutela “universali” previste per chi ha timore fondato e concreto di essere perseguitato, per i più svariati motivi discriminatori, nel suo Paese, o per chi, pur non avendo dimostrato di avere subito una persecuzione personale, provi l’esistenza del rischio di ricevere un danno grave al ritorno nel suo Paese di origine.

Le condizioni materiali di accoglienza, se riferite a questi soggetti, costituiscono le condizioni che permettono loro di soddisfare le esigenze più elementari (alloggio, vitto, vestiario), trattandosi quasi sempre di persone che sono di fatto fuggite dal loro Paese senza portare nulla con sé.

La legge italiana - art. 23, comma 1 del d.lgs. n. 142 del 2015 - punisce determinate condotte tenute dal beneficiario delle misure di accoglienza, con la revoca di tali misure.

Il risultato concreto è che, da quel momento in poi, il richiedente protezione internazionale diviene quasi sempre un fantasma che vaga sul territorio nazionale.

Ma la Corte di Giustizia, con la sentenza del 12 novembre 2019, causa C-233/18, ha stabilito che una corretta interpretazione della direttiva da cui è discesa la norma prevista dal d.lgs. n. 142 del 2015 (direttiva 2013/33/UE) impedisce a uno Stato membro di prevedere, tra le sanzioni che possono essere inflitte in caso di grave violazione delle regole dei centri di accoglienza o di comportamenti gravemente violenti, una sanzione consistente nel revocare anche solo temporaneamente le condizioni materiali di accoglienza.

Ne deriverebbe, quale diretta e ordinaria conseguenza, che la norma che prevede la revoca delle misure materiali di accoglienza per i motivi sopra elencati (grave violazione delle regole dei centri di accoglienza o comportamenti gravemente violenti), qualora azionata dall’amministrazione nel caso concreto, debba essere disapplicata dal Giudice chiamato a decidere sulla legittimità della revoca disposta, e in tal senso si è espresso ad esempio il TAR Toscana, con la sentenza in forma semplificata n. 1744 del 2019.

Chiamato a decidere sull’appello proposto dal Ministero dell’Interno avverso tale pronuncia, però, il Consiglio di Stato ha manifestato alcuni dubbi giuridici sulla correttezza di tale conclusione.

Secondo i Giudici di Palazzo Spada, la decisione della Corte di Giustizia valorizzata dal TAR Toscana era stata resa in un caso particolare (riguardante un “soggetto vulnerabile”: minore di età) e non sarebbe estendibile al caso in cui il richiedente protezione internazionale ammesso alle misure di accoglienza sia ritenuto autore di un comportamento particolarmente violento, posto in essere al di fuori del centro di accoglienza, che si sia tradotto nell’uso della violenza fisica ai danni di pubblici ufficiali e/o incaricati di pubblico servizio.

Ma procediamo con ordine, esaminando innanzitutto cosa ha detto la pronuncia della Corte di Giustizia in discussione.

Il Giudice europeo ha premesso che è senz’altro vero che la possibilità per gli Stati membri di ridurre o revocare, a seconda dei casi, le condizioni materiali di accoglienza è espressamente prevista unicamente dall’articolo 20, paragrafi da 1 a 3, della direttiva 2013/33, i quali riguardano essenzialmente ipotesi in cui sussiste un rischio di abuso, da parte dei richiedenti, del sistema di accoglienza istituito da tale direttiva, ma che, tuttavia, il paragrafo 4 dell’articolo citato non esclude espressamente che una sanzione di tal fatta possa riguardare le condizioni materiali di accoglienza anche nel caso di una violazione delle regole che disciplinano i centri di accoglienza o di un comportamento particolarmente violento.

Inoltre, prosegue la Corte, “se gli Stati membri hanno la possibilità di adottare misure relative a dette condizioni per tutelarsi da un rischio di abuso del sistema di accoglienza, essi devono, parimenti, avere tale possibilità anche in caso di grave violazione delle regole che disciplinano i centri di accoglienza o di comportamenti particolarmente violenti, atti che, in effetti, possono perturbare l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone e dei beni”.

Tanto premesso, tuttavia, l’imposizione di una sanzione consistente, sulla base di un motivo diverso da quelli di cui all’articolo 20, paragrafi da 1 a 3 della direttiva 2013/33, nel revocare, seppur temporaneamente, il beneficio di tutte le condizioni materiali di accoglienza o le condizioni materiali di accoglienza relative all’alloggio, al vitto o al vestiario sarebbe da considerarsi incompatibile, secondo la Corte, con l’obbligo, derivante dall’articolo 20, paragrafo 5, terza frase, della menzionata direttiva, di garantire al richiedente un tenore di vita dignitoso, giacché lo priverebbe della possibilità di far fronte ai suoi bisogni più elementari. 

Una sanzione del genere, sempre secondo il Giudice europeo, equivarrebbe altresì a violare il requisito di proporzionalità stabilito all’articolo 20, paragrafo 5, seconda frase, della direttiva 2013/33, in quanto anche le sanzioni più severe intese a sanzionare, in materia penale, le violazioni o i comportamenti di cui all’articolo 20, paragrafo 4, di tale direttiva, non possono privare il richiedente della possibilità di provvedere ai suoi bisogni più elementari.

D’altra parte, il sistema non resterebbe privo di effettività – nel tenere sotto controllo personalità violente – perché gli Stati membri possono imporre, nei casi di cui all’articolo 20, paragrafo 4, della direttiva 2013/33, a seconda delle circostanze del caso e fatto salvo il rispetto della dignità personale, sanzioni che non hanno l’effetto di privare il richiedente delle condizioni materiali di accoglienza, come la sua collocazione in una parte separata del centro di accoglienza, unitamente ad un divieto di contatto con taluni residenti del centro o il suo trasferimento in un altro centro di accoglienza o in un altro alloggio.

Il Consiglio di Stato, nel riesaminare la correttezza ella soluzione finale del TAR Toscana (disapplicazione della norma interna), ha innanzitutto dovuto scegliere se esaminare per prima la questione di compatibilità della disciplina nazionale (art. 23, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 142/2015) con quella comunitaria, o far precedere tale esame dalla possibile rilevanza della questione di legittimità costituzionale della medesima norma con riferimento a parametri costituzionali interni e, specificamente, a quelli di cui all’art. 27 Cost.. 

La difesa del cittadino straniero ha infatti censurato la legittimità costituzionale della norma nazionale, ove interpretata nel senso che la revoca delle misure di accoglienza possa essere disposta per vicende penalmente rilevanti e a seguito di una mera denuncia, senza che poi su tali vicende sia intervenuto alcun accertamento giudiziale.

Nella prospettazione di parte, la pretesa dell’autorità pubblica di revocare le misure di accoglienza in difetto del riconoscimento di una responsabilità penale, per fatti non accertati e la cui attribuzione sarebbe incerta, contrasterebbe con il principio di non colpevolezza di cui all’art. 27 Cost. (ribadito dall’art. 2 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo).

Il Consiglio di Stato ha dovuto così preliminarmente affrontare e risolvere la questione della cosiddetta “doppia pregiudizialità”, ovvero della situazione in cui si presentino contemporaneamente in uno stesso procedimento questioni di legittimità costituzionale e di conformità con il diritto dell’Unione delle medesime norme.

Nel caso di specie, il Giudice di appello si è avvalso di quella che la Corte costituzionale ha recentemente definito come una facoltà processuale dell’organo giudicante – e cioè decidere se sollevare per prima la questione costituzionale o quella comunitaria –, scegliendo di dare priorità alla questione di compatibilità della norma interna con il diritto dell’Unione, per ragioni di economia processuale.

Nel merito, il Consiglio di Stato ha messo sostanzialmente in discussione l’approdo interpretativo del Giudice di primo grado, dopo avere evidenziato, da un lato, che la fattispecie esaminata dai Giudici europei non era completamente sovrapponibile a quella che era stata sottoposta al Consiglio in sede di appello; dall’altro, che risultava corretto seguire quell’orientamento secondo cui, anche ove vi sia già stata una pronuncia della Corte di Giustizia su questione identica, resterebbe ferma la facoltà del Giudice di riproporre alla stessa Corte la questione, nell’ipotesi in cui ritenga di poter addurre nuove argomentazioni, o se non sia convinto delle motivazioni della sentenza della Corte e ne chieda un approfondimento, o ancora nel caso in cui faccia conto su un mutamento di tale giurisprudenza.

Tuttavia, per riportare la questione alla Corte di Giustizia, il Consiglio di Stato non rimette in discussione l’interpretazione data dal Giudice europeo – ricostruita per il vero in modo fedele dal TAR Toscana -, bensì ipotizza “un possibile contrasto dell’orientamento espresso” dal Giudice nazionale di prime cure “con il dato letterale della normativa eurounitaria e, in specie, con la lettera dell’art. 20, parag. 4, della direttiva n. 2013/33/UE, in base al quale (…) gli Stati membri possono prevedere “sanzioni” applicabili alle gravi violazioni delle regole dei centri di accoglienza, nonché (…) ai “comportamenti gravemente violenti”, sanzioni tra le quali dovrebbero necessariamente essere ricondotte “anche la revoca e la riduzione delle condizioni materiali di accoglienza”.

Il senso però di questa “singolarità” processuale, consistente nel sostenere che ha male interpretato il Giudice nazionale, per non dire che ha invece sbagliato il Giudice europeo, si coglie nei passaggi successivi, dai quali emergono le vere motivazioni del rinvio.

Che sono essenzialmente quattro:

- la possibilità di abusi legati all’uso strumentale dei principi desumibili dall’interpretazione contestata, “la quale preclude la revoca delle misure d’accoglienza anche a fronte di condotte di particolare gravità e riprovevolezza”, in contrasto con il principio di effettività “della reazione dell’ordinamento”;

- la discriminazione tra soggetti in situazioni analoghe che creerebbe un regime più “leggero” nel caso delle misure di accoglienza, rispetto alla più rigorosa disciplina in materia di permesso di soggiorno di cui al d.lgs. n. 286/1998, che sanziona con l’automatico diniego o revoca del permesso di soggiorno l’accertamento della responsabilità penale dello straniero per alcune condotte ritenute dall’ordinamento particolarmente gravi;

- la circostanza che la pronuncia della Corte di Giustizia avesse avuto ad oggetto il caso di un minore non accompagnato, caso specifico e dal quale non avrebbero dovuto essere desunti principi generali ed estendibili anche a persone “non vulnerabili”;

- la “stranezza” di un sistema nel quale la riduzione o la revoca delle misure di accoglienza sarebbero sanzioni possibili nelle ipotesi nelle quali sussiste un rischio di abuso, da parte dei richiedenti, del sistema di accoglienza istituito dalla direttiva, ma non nei casi di grave violazione delle regole che disciplinano i centri di accoglienza, o di comportamenti particolarmente violenti. 

Lo scopo perseguito dal Consiglio di Stato è apprezzabile.

Restano però due domande aperte, a cui non potrà che dare risposta definitiva la Corte di Giustizia.

Innanzitutto, occorrerà vedere se nel ragionamento operato dalla prima pronuncia del Giudice europeo – che ha con chiarezza distinto le ipotesi di abuso, riconducendole al disvelamento di una “non necessità materiale di accoglienza”, dalle ipotesi di violenza, connesse all’indole criminale del soggetto, ma non inficianti il suo stato di bisogno - resti spazio per un’ulteriore specificazione, che non consista in un mero revirement rispetto alla precedente interpretazione della Direttiva.

In secondo luogo, sarà interessante capire come si muoverà il Giudice nazionale (di primo e di secondo grado) - e, prima ancora, l’amministrazione procedente -, nelle more della decisione della Corte di Giustizia.

Basterà, cioè, avere rimesso in discussione la questione interpretativa, per evitare, nel frattempo, un’applicazione (ritenuta) “conforme” del diritto unionale?


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