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La crisi della Magistratura italiana: dal modello correntizio al recupero della identità perduta

M. Barbara Cavallo • 12 maggio 2021

Riflessioni sul ruolo dell’autogoverno e su nuove possibili forme di rappresentanza.


La drammatica situazione nella quale versa il Consiglio Superiore della Magistratura, il più importante e rappresentativo organo di autogoverno della magistratura italiana, è ormai da tempo nota alle cronache, alla classe politica, agli operatori del diritto, e naturalmente, agli stessi magistrati.

Il caso Palamara - con l’eco mediatica che ne è seguita, le dimissioni di componenti togati e i successivi risvolti disciplinari e penali (peraltro, ancora in essere) - ha avuto l’effetto di rendere “ecumeniche” alcune dinamiche dell’attività del C.S.M. che non si può dire fossero ignote o segrete, e ha riproposto a vari livelli la questione delle cd. “correnti” all’interno della magistratura, con l’ampio discredito dal quale le stesse sono investite almeno da trent’anni a questa parte.

Considerate in passato, in maniera un po’ acritica e piuttosto tralatizia, quali punti di contatto ed ingresso delle forze ed ideologie politiche all’interno della Magistratura ordinaria, esse sono ormai identificate come lo strumento che muove e indirizza l’attività dei componenti togati all’interno del C.S.M. e, quindi, come il lasciapassare obbligato per trasferimenti, conferimenti di funzioni, esercizio del potere disciplinare, attribuzione di incarichi interni ed esterni.

Ed in effetti non può negarsi che, nate storicamente sotto la spinta della volontà di aggregazione dei magistrati “culturalmente simili”, per scopi collegati allo svolgimento dell’attività dell’Associazione Nazionale Magistrati – quindi attività sindacale e di tutela degli iscritti – abbiano mutato la loro natura unitamente al mutamento delle finalità perseguite, diventando dei centri di potere interni alla Magistratura, al punto da condizionarne dall’interno una serie molteplice di dinamiche, aventi sempre più incidenza sulla vita e sul lavoro di tutti i magistrati, anche di quella maggioranza silenziosa che, evitando di iscriversi all’una o all’altra corrente, riteneva e ritiene di essere immune da un certo tipo di logiche e dagli effetti di queste ultime.

Gli eventi di questi ultimi anni hanno dimostrato e dimostrano che non è così.

I gruppi di potere interni alle varie Magistrature, non solo quella ordinaria, ma anche quella contabile, amministrativa e tributaria, nati e consolidatisi con il tempo per l’esigenza di consentire il confronto in sede sindacale a tutela dei loro iscritti o semplici simpatizzanti, si sono ovunque evoluti secondo un’unica direttrice, che è quella del rafforzamento del potere dei vari leader e rappresentanti di spicco (spesso coincidenti con alcuni degli eletti negli organi di autogoverno o nelle associazioni sindacali), fino a condizionare la funzione di autogoverno stesso, ponendola al servizio di logiche corporative, se non anche personali, come è stato dimostrato dai recenti fatti di cronaca, di cui il caso Palamara, lungi dall’essere una eccezione, è solo la punta dell’iceberg.

Se è dunque abbastanza semplice registrare le disfunzioni, raccontarne le immediate conseguenze e immaginarne gli effetti, è molto più complesso capire la profonda ragione che ha determinato l’evidente crisi del sistema correntizio in Magistratura ordinaria, e i danni che tale sistema causa e può causare anche nei plessi che non sono, fortunatamente, ancora assurti agli “onori“ delle cronache per comportamenti illeciti dei loro componenti.

È fin troppo facile, infatti, collegare tale situazione alla riforma operata dal d.lgs. 160 del 2006, che ha legittimato l’esercizio del potere discrezionale del C.S.M. sulle valutazioni dei magistrati ai fini degli avanzamenti di carriera, rendendo residuale il criterio dell’anzianità di ruolo rispetto quello della valutazione di titoli, attitudini, capacità organizzative.

Il cosiddetto “merito” è stato ritenuto da più parti la causa del rafforzamento del potere dei gruppi interni all’organo di autogoverno, perché ha disancorato l’esercizio della discrezionalità dall’unico parametro certo e oggettivo (l'anzianità di servizio) per collegarla a parametri soggettivi e ogni volta diversi, sicché anche creare un sistema di precedenti ai quali man mano fare riferimento si è rivelato praticamente inutile.

Se il problema fosse soltanto questo, basterebbe modificare la legge per tornare indietro e risolvere il problema a monte, magari attribuendo all’anzianità un valore non più residuale e rendendo i criteri di merito ancillari della prima, e non è escluso che, in prospettiva di una riforma del CSM, si metta mano anche al sistema di valutazione e avanzamento attualmente vigente. Ma la realtà con la quale è ormai giunta l’ora di confrontarsi, per ogni magistrato che voglia farlo a mente sgombra da pregiudizi - e soprattutto per coloro che svolgono o intendono svolgere la funzione di autogoverno nei rispettivi Consigli -, è che normative quale quella citata hanno solo costituito il presupposto legale per legittimare la prevaricazione degli uni sugli altri, in un contesto nel quale assume valore preponderante il ruolo del “gruppo” (chiamiamolo anche “corrente”), inteso come viatico esclusivo per il raggiungimento degli obiettivi del singolo e come unica forma di intermediazione tra esigenze e richieste del magistrato/lavoratore e organo di autogoverno, che di tali esigenze, per legge, deve occuparsi.

La dinamica appena descritta è identica a quella di moltissimi altri contesti professionali: si pensi, ma solo a titolo esemplificativo e sempre per essere stati oggetto della cronaca giudiziaria degli ultimi venti anni, alle facoltà universitarie o alle amministrazioni militari.

Tuttavia, quando essa si verifica nell’ambito di una magistratura, le conseguenze, anche sul piano mediatico, sono completamente diverse, e ciò perché l’attribuzione di un ruolo di primazia ad un gruppo non può che minare alla base il principio fondamentale sul quale si basa la funzione giurisdizionale, intesa come funzione attribuita al singolo magistrato: l’autonomia e l’indipendenza da ogni altra forma di potere.

Ed è qui che la riflessione deve cambiare registro rispetto al passato.

Per troppo tempo, infatti, si è ritenuto che tali prerogative fossero riferite esclusivamente all’autonomia dal potere politico e da quello esecutivo, e d’altra parte questo è il principio della separazione dei poteri di montesquieiana memoria nonché l’impostazione assunta dalla nostra Carta costituzionale.

Poco si è riflettuto, e forse la cosa non è casuale, sull’indipendenza e autonomia dei magistrati al loro interno, posto che è stato ritenuto sufficiente il disposto dell’art. 101 della Costituzione (i giudici sono soggetti soltanto alla legge), per ritenere immune qualsiasi magistrato da ingerenze di altri colleghi, presidenti, procuratori e operatori interni al plesso di appartenenza.

Nel tempo, infatti, il fenomeno correntizio è cresciuto e si è rafforzato senza che gli stessi magistrati vedessero nello stesso il principale limite alla loro autonomia e indipendenza, posto che, in un contesto di normalità ed equilibrio, non sarebbe questo il ruolo che esso dovrebbe avere.

Perché, allora, da anni, forse almeno tre decenni ma anche più, si assiste impietosamente ad una degenerazione del sistema delle correnti che sta conducendo alla delegittimazione del ruolo stesso del magistrato, senza che vi sia una vera e aperta ribellione dei singoli e, anzi, con una volontà di adesione sempre maggiore che, a tratti, diventa quasi connivenza con decisioni che, guardate dall’esterno, appaiono indifendibili, se non altro sotto un profilo etico e di opportunità?

La risposta, probabilmente, sta nel fatto che la degenerazione del sistema correntizio corrisponde ad una sempre più evidente perdita di identità, da parte del singolo magistrato, del suo ruolo nel sistema di separazione dei poteri e della importanza e unicità della funzione che svolge.

Il ruolo delle correnti, in questo, è purtroppo fondamentale, in quanto ne è la causa – anche se non l’unica – ed incredibilmente ne costituisce anche l’oggetto: è in parte a causa delle correnti se si sta perdendo, fin dall’ingresso in magistratura, il senso della funzione, e più questo avviene più le correnti mostrano evidenti segni di malfunzionamento, senza assolvere, se non in minima parte, allo scopo per il quale sono storicamente nate e che resta, di fatto, imprescindibile; è infatti impensabile che gruppi di persone che fanno lo stesso lavoro non sentano il bisogno di aggregarsi, al loro interno, in base a sensibilità/desiderata/obiettivi omogenei.

Se questo, tuttavia, è accettabile in altri contesti, diventa mille volte più drammatico e criticabile se calato in un ambito di persone che più di altre dovrebbero rispettare le regole, anche e soprattutto auto-imposte, e dare anche all’esterno l’idea di soggetti imparziali, equilibrati e rispettosi della funzione svolta.

Le ragioni di quanto sta accadendo sono molteplici e possono correlarsi anche a fenomeni di natura sociologica, quale, ad esempio, il dilagare del populismo su scala mondiale, accentuato dalla diffusione dei mezzi di informazione di massa in forme sempre più social ma senza confronto reale. 

Tale tipologia di nuova comunicazione ha determinato una superfetazione di fonti informative che garantisce, a ogni livello, una conoscenza solo apparente delle notizie, posto che la sovrapposizione delle stesse equivale, in concreto, alla diffusione di notizie spesso false o non veritiere, incrementando la logica delle fake news, basata sull'assenza di contraddittorio immediato, sicché la notizia falsa, anche in chiave associativa, fa immediatamente presa ed è difficilmente smentibile.

Ecco che dunque l’ingresso dei nuovi magistrati nei relativi plessi di appartenenza è ridotto alla trasmissione di informazioni spicciole, di immediata spendibilità, normalmente da parte di esponenti di rilievo di gruppi “correntizi”, fondamentalmente per legittimarsi come mentori di soggetti ancora inesperti e favorirne l’immediata affiliazione al gruppo, senza reali tavoli di confronto su questioni davvero importanti e senza i giusti tempi di sedimentazione di notizie, informazioni e riflessioni sui temi riguardanti l’attività sindacale e quella di autogoverno.

La conseguenza di ciò è che una Istituzione che dovrebbe essere esente da certe sollecitazioni, diventa essa stessa, per così dire, populista, perché i suoi componenti, ossia i singoli giudici, entrano a farne parte e crescono imbevuti di cultura di massa, che considerano compatibile con un’attività nella quale il giudice dovrebbe, al contrario, essere esente da condizionamenti.

Si realizza una sorta di effetto che Gustave le Bon, nel suo celebre Psicologia delle folle (Alcan, 1895) ha riassunto nella legge “dell’unità mentale delle folle”, in cui il gruppo diventa un agglomerato di uomini i quali, al suo interno, perdono completamente le caratteristiche che possiedono come individui singoli, assumendo una unità psicologica nella quale l’individuo si deresponsabilizza e si priva dell’autocontrollo, fino a rendersi partecipe, anche inconsciamente, di iniziative e attività che esso ritiene perfettamente giustificate nell’ottica dell’azione collettiva, pur se esse fossero le più errate, moralmente deprecabili e persino illegittime.

Nell’anima collettiva le attitudini intellettuali degli individui si azzerano; l’individuo, nella folla, acquisisce, per il solo fatto del numero, una sensazione di potenza e invincibilità che gli permette di cedere ai propri istinti, che, se fosse stato da solo, avrebbe dovuto frenare”.

Cosa comporta tutto questo? Può comportare, ad esempio, l’allontanamento del magistrato dal rapporto esclusivo con la Legge, e naturalmente questo non nell’ambito della sua attività “esterna” (ossia come giudicante o inquirente), bensì nei rapporti interni di tipo associativo, nei rapporti, per l’appunto, di massa, dove si verifica la dissoluzione dell’individuo e la successiva fusione nel gruppo.

È sufficiente, ormai, un contatto anche minimo per invogliare il singolo a far parte del gruppo, per perseguirne collettivamente gli obiettivi, godere dei benefici e, perché no, tentare la scalata alle posizioni di comando.

Ecco che dunque si è gradualmente passati da un’idea delle correnti quali soggetti presenti nella vita e carriera del magistrato in forma del tutto eventuale e trascurabile, sì da non giustificare l’iscrizione alle stesse se non per ragioni di passione “politica” latu senso, e anzi auspicandone la non iscrizione quale dimostrazione di autentica indipendenza, a un sistema nel quale la corrente viene considerata quale unica e sicuramente più efficace forma di garanzia per lo svolgimento della propria carriera o per l’ottenimento di incarichi interni o extragiudiziari, capovolgendo completamente la relazione che il singolo magistrato ha con il gruppo.

Non è più il gruppo che necessita dell’iscritto o del seguace per rafforzarsi, accettando la scelta di neutralità di chi non voglia farlo, ma, al contrario, è il gruppo stesso che si impone ab origine sul singolo, mostrandosi quale scelta necessaria per la carriera e per qualsivoglia necessità di altro tipo, dal trasferimento all’attribuzione di incarichi interni e persino alla valutazione di infermità o alle richieste di aspettativa che non sia dovuta per legge.

Tutto questo, per effetto di un fenomeno chiarissimo, studiato da oltre cento anni a livello psicologico e sociologico, ma mai seriamente valutato in relazione a gruppi di magistrati.

In realtà, come detto, non vi è nulla di diverso da ciò che accade in altri contesti professionali.

Ci si potrebbe chiedere allora perché, con il tempo e negli ultimi decenni, il fenomeno è diventato dilagante. È probabile che ogni ambito categoriale abbia ragioni specifiche che ne stanno alla base, ma una è presumibilmente comune a tutti, ed è il dilagare dell’ autoreferenzialità nel comportamento dei singoli, con ricadute inevitabili anche nel contesto collettivo.

Nel caso del plesso magistratuale, le correnti corrono il rischio di diventare arbitre non solo delle nomine, ma di tutto ciò che riguarda la vita professionale dei magistrati.

Ancora, il rafforzamento delle correnti in chiave di potere sul singolo, facendole deviare dalla logica che invece deve permeare l'associazionismo “puro”, ha contribuito a scardinare il sistema della "rotazione implicita", che, in sostanza, consentiva un ricambio nel vertice politico dei gruppi, per premiare i personalismi e i risultati, anche elettorali, dei singoli.

Questo perché, quale effetto della citata tendenza alla massificazione, nella impossibilità di far passare messaggi che siano frutto di vera elaborazione collettiva (ossia, del gruppo, nella accezione buona del termine), ciò che si impone all’esterno nei confronti dei terzi è il ruolo del “capo-corrente”, ossia del leader del gruppo, quale garante delle promesse fatte “di persona” e degli obiettivi prefissati.

Anche in questo caso, le teorie di Le Bon, sempre più attuali, ci dicono che esiste sempre un capo che guida le folle verso quelli che sono i suoi personali obiettivi e persino verso la distruzione dell’ordinamento esistente. Spesso e volentieri lo fa tramite il linguaggio, che è semplice e non argomentativo, in quanto non deve dimostrare alcunché, ma solo governare un gruppo che vuole semplicemente essere guidato, senza usare ragionamenti di tipo logico.

In un contesto del genere, al capo sono sufficienti poche affermazioni, reiterate, ripetute fino allo sfinimento, per affermare verità incontrovertibili anche se razionalmente assurde, a condizione che il Cesare di turno sia dotato di sufficiente prestigio, carisma, sia convincente in quello che dice e non manifesti mai dubbi.

Ecco che dunque il capo-corrente, che sa come parlare alla pancia della massa, fa consapevolmente leva sul sostrato inconscio dell’unità mentale del gruppo, sicché, in questo contesto, è del tutto irrilevante che quel gruppo sia composto da magistrati, posto che il ruolo e il volere del singolo è ormai dissolto in quello della massa.

È per effetto del ruolo del “capo”, della figura carismatica del gruppo, che si è pervenuti, e le cronache degli ultimi anni lo dimostrano, alla ulteriore degenerazione del sistema, per cui la ricerca del consenso a tutti i costi diventa l'unico obiettivo perseguito e il correntismo ad personam prevale su ogni logica di buon senso, con buona pace dei rapporti sociali e personali: l'unico vero obiettivo che si ha nella socializzazione è quello di farsi conoscere, possibilmente suscitare simpatia umana, per poi gestire il consenso acquisito in chiave esclusivamente elettorale, ossia farsi votare o far votare i propri candidati.

A questo nuovo mondo populista non servono giudici, ma burocrati resi parte di un sistema che più che una magistratura assume i connotati di un reality, perché così è percepito dall’opinione pubblica.

Le generazioni passate possono sicuramente aver commesso errori, ma c’è da dubitare che abbiano inteso calpestare qualsiasi forma di rispetto per le minoranze politiche e per i dissenzienti, per i rapporti umani, per le esigenze dei singoli a prescindere da ciò che poi costoro abbiano votato o decidano di votare.

La conseguenza di quanto detto è che la crisi di identità del singolo, causata dalla degenerazione della funzione di autogoverno, diventa essa stessa crisi irreversibile dell’autogoverno, sempre più volto a porsi come forma di gestione del potere e come gestione dei magistrati, svolta in modo burocratico e amministrativo.

L’ulteriore e drammatica conseguenza è l’effetto che tutto questo ha sui magistrati che si pongono fuori dal sistema, in maniera sempre più consapevole rispetto al passato, non riuscendo a trovare alcuna forma di rappresentanza tra quelle esistenti. Più nella magistratura ordinaria che nelle magistrature speciali, anche solo per un fatto semplicemente numerico, per moltissimi magistrati il rapporto strettissimo esistente tra correnti e autogoverno sta diventando perdita di fiducia anche e soprattutto nell’associazionismo come valore comune da perseguire e portare avanti, posto che impegnarsi in attività sindacali è sempre più percepito, e nei fatti lo è diventato, non come attività svolta al servizio dei colleghi e nell’interesse pubblico, ma come trampolino di lancio verso una vera e propria carriera “politica”.

In quest’ottica, il singolo magistrato non schierato, si vede e si sente solo, ma soprattutto si sente non rappresentato in seno all’organo di autogoverno, che resta soggetto collocato in un empireo lontano, incapace di mantenere il contatto diretto con una base che lavora duramente e silenziosamente subendo l’eco mediatica negativa del comportamento di soggetti che hanno fatto scelte diverse, tradendo i valori che dovrebbero guidarne l’azione.

Cosa deve essere, invece, l’Autogoverno?

In primo luogo, autogoverno è scrittura e gestione delle regole generali ed astratte che sovrintendono allo svolgimento dell'azione della Magistratura.

In secondo luogo, poiché gli amministrati sono "magistrati", quindi singoli pezzi dello Stato, inamovibili e liberi nella loro capacità di autodeterminarsi e, quindi, di decidere, è evidente che l'autogoverno nasce per dare ai magistrati stessi il diritto e il dovere di autorappresentarsi e di autogestirsi. E' la più alta forma di tutela che la Costituzione garantisce, sicché la perdita di credibilità del meccanismo di controllo interno, fino al punto di far ipotizzare una possibile esternalizzazione, può rappresentare una catastrofe sotto il profilo delle garanzie costituzionali, basate sul principio di separazione dei poteri, che è la base della democrazia, e presuppone una magistratura libera dall'intervento dell'Esecutivo e quindi anche del Parlamento, ossia dei due poteri che, con azioni esterne, possono intaccare nei modi più vari la libertà dei magistrati ed eliminare l'unica vera forma di controllo che esiste sul potere politico.

Assicurare l'effettività del principio di separazione tra poteri è dunque possibile soltanto mediante l'organo di autogoverno. Ma un organo di autogoverno che dolosamente o colposamente svolga male lo scopo per cui è stato eletto dalla base, ha già fallito in partenza. La soluzione non è quindi di sostituirlo con un altro organo inadatto allo scopo, ma di indirizzarne l'azione, dall'esterno, pur sempre all'interno delle singole Magistrature, mediante il dibattito, il voto, le azioni sindacali, il confronto, e soprattutto, evitando di pensare che esso esista per favorire i singoli o proteggere ciascuno dagli errori commessi, perché ogni volta che un giudice va a chiedere "aiuto" o protezione a un membro dell'organo di autogoverno, lo accoltella, lo ferisce, ne lede la funzione: è come se uccidesse se stesso, colpendo il soggetto, l'organo, che deve garantire l'autonomia e, in conclusione, la libertà di tutti.

Quando si innesca una reazione a catena come quella che leggiamo sui giornali in questi giorni, la situazione è talmente grave che una risposta auspicabile non può che essere l'azzeramento di tutto e l'inizio di una nuova fase; ma finché resterà una legge che consentirà all'uomo di esercitare la propria discrezionalità per scegliere il proprio "sodale", il proprio elettore, il proprio amico, da aiutare o mandare avanti, ci sarà poco da fare.

In una prospettiva di riforma, nuove regole devono dunque servire per ripristinare un criterio corretto di gestione del potere di autogoverno, perché altrimenti l'alternativa sarà, a breve, la soppressione dello stesso potere di autogoverno. 

L’autonomia, infatti, come prezioso valore da preservare e difendere, implica necessariamente grandi responsabilità. Se usata in modo vetero corporativo, se non addirittura clientelare, rischia di aprire la strada all’intervento eteronomo.

A normativa invariata, peraltro, sono già possibili alcuni correttivi.

Certamente, occorrerebbe evitare sin dall’inizio di accettare la logica delle correnti intese come gruppi organizzati, per le ragioni sin qui esposte e che è inutile ripetere.

I magistrati, in particolar modo quelli neo assunti, dovrebbero essere aiutati a comprendere che il ruolo delle associazioni sindacali da una parte, e degli organi di autogoverno dall’altra, non è esclusivamente quello di un aiuto materiale nelle piccole o grandi questioni che li riguardano, ma quello di garanzia della loro carriera al di fuori di ogni logica di affiliazione e di clientelismo. 

Se questa sensibilità non viene sviluppata fin dall'inizio, è improbabile che il futuro sia foriero di azioni positive, e chi si avvicinerà alla "politica" interna lo farà non nell'ottica della tutela del plesso, ma in chiave esclusivamente personale, con gli effetti più volte ricordati.

Nella teoria di Le Bon le masse sono dipinte come forze prive di visione di insieme, indisciplinate, distruttive e portatrici di decadenza, ma al contempo una soluzione al problema deriva dall’esaltazione del ruolo dei singoli e delle minoranze, che sono invece forze dotate di energia positiva, capaci di discernere, ragionare e creare, proprio perché esenti dai meccanismi di condizionamento dei gruppi di cui sopra, e di per sé non hanno una struttura interna se non essenziale, caratterizzandosi per una sorta di liquidità in cui l’evoluzione al loro interno non deve essere letta in chiave negativa ma come strumento per imporre il cambiamento all’esterno, spezzando il legame dell’unità mentale che caratterizza, invece, i gruppi organizzati.

La minoranza, fosse anche rappresentata da un singolo soggetto che si fa portavoce dei sentimenti altrui, raccolti in piena autonomia ed elaborati in solitudine, si pone come elemento di contrapposizione all’inconscio collettivo che fa capo alle masse, perché cerca di minarne i presupposti puntando sul confronto con i singoli, affinché gli stessi – con uno sforzo reso non semplice dal proprio vissuto – riescano a ragionare con logiche individuali del tutto esterne al gruppo e, soprattutto, comprendano l’effetto negativo che il “capo” ha avuto per tutto il tempo nel quale lo si è assecondato, accettando acriticamente qualsiasi sua affermazione e qualsiasi sua scelta.

È evidente che questo compito sarebbe reso più semplice laddove, come recentemente accaduto, il prestigio del leader venga improvvisamente e irrimediabilmente compromesso da eventi esterni, che ne minino la credibilità.

Ma, in mancanza di tale tipo di situazioni, peraltro non auspicabili per gli effetti devastanti che determinano su tutta la categoria, non può non ritenersi che le forze di minoranza abbiano in sé le capacità e le risorse per cercare di cambiare un sistema irrimediabilmente danneggiato da anni di correntismo esasperato e subìto come unica ineluttabile condizione per garantire il funzionamento della magistratura e del suo autogoverno.

Ecco che torna d’attualità più che mai il celebre assunto di Cicerone, secondo cui l'uomo di Stato deve curare l'interesse dei cittadini in maniera tale da indirizzare ad esso ogni loro azione, dopo essersi dimenticato del suo, di interesse (“qui rei publicae profuturi sunt, duo Platonis praecepta teneant: in primis utilitatem civium sic tueantur, ut omnia quae agunt, ad eam dirigat, cum obliti sint commodorum suorum; in secundis totum corpus rei publicae curent, ne, dum partem aliquam tuentur, reliquas deserant: Marco Tullio Cicerone, De Officiis, 85).

Ed ancora, secondo Cicerone, “come la tutela, allo stesso modo anche la delega della politica, deve essere amministrata nell'interesse di coloro che hanno delegato, non di coloro ai quali è stata delegata. Invece, coloro che provvedono ad una parte dei cittadini, e ne trascurano un'altra, introducono nello Stato il più funesto dei malanni: la discordia e la sedizione. A partire da ciò, accade che alcuni si presentino come sostenitori del popolo, altri come sostenitori degli aristocratici, e pochi (si presentino come sostenitori) di tutti.“

A legislazione invariata, l’uscita dal momento difficile nel quale la magistratura italiana, sia ordinaria che speciale, è piombata da tempo, non può che risiedere nell’attribuzione di fiducia e sostegno a forze alternative e di minoranza, che si prefiggano di tutelare l’interesse collettivo adeguando ad esso intendimenti, proposte concrete e azioni, senza la volontà di sostituire alle vecchie correnti nuove correnti, per evitare di entrare nello stesso meccanismo descritto, dal quale è poi impossibile uscire.

Se questo non accadrà, se i magistrati di nuova nomina e quelli già in servizio ma ancora non fagocitati dal processo di “unità mentale” quale effetto dell’azione correntizia, non inizieranno a sostenere forze di cambiamento e di innovazione che propongano nuovi modelli di associazionismo e di condivisione delle idee da veicolare all’interno degli organismi sindacali e degli organi di autogoverno, l’uscita dalla crisi non potrà che passare per l’intervento eteronomo, con tutte le conseguenze immaginabili in ordine alla autonomia e indipendenza di ciascun plesso.

Se ciascun magistrato trovasse il coraggio di farsi portavoce pubblico delle proprie richieste quando esse coinvolgono interessi generali o valori fondamentali per la categoria, tante cose potrebbero migliorare.

La condizione è l’abbandono dell’autoreferenzialità come riferita all’intera categoria, per favorire nuove forme di socialità e di scambio di idee che partano dal presupposto che il governo di una magistratura non è un regno da gestire, ma un approdo al quale giungere e far giungere gli altri.

Il perseguimento di azioni unitarie, che portino vantaggi all’intero plesso, è la consapevolezza dell’esistenza di anime diverse che non devono essere viste come contrapposte, ma come punto di partenza per cercare la condivisione di progetti comuni che puntino il più possibile a garantire un futuro "equo" ai colleghi più giovani, i quali dovrebbero usare le loro fresche energie per porsi in un’ottica di medio/lungo periodo, invece di accontentarsi del poco che viene spesso elargito come contributo per una sovente inconsapevole affiliazione.

Il futuro dipende quindi dalle scelte dei singoli, che riversino le loro speranze e la loro fiducia nelle forze di cambiamento, e magari decidano di impegnarsi in prima persona per favorirlo.

Il futuro è nelle mani dei tantissimi magistrati che lavorano nel silenzio dei loro tribunali o delle loro case, di quei magistrati che in un fascicolo vedono storie, vedono persone, e a quelle storie e a quelle persone pensano ogni giorno della loro vita professionale, incuranti di quello che succede fuori, nelle stanze di chi decide anche per loro.

Orbene, non è più tempo di stare in silenzio, ma è tempo di ridare vita alle coscienze, per poter continuare a occuparsi del proprio lavoro a testa alta, sapendo di essere parti di un tutto che non può e non deve esaurirsi con l’accostamento a coloro che di quel tutto hanno scientemente deciso di farne parte solo sulla carta: Magistrati, con la M maiuscola, lo si è non solo firmando provvedimenti ponderati e ben fatti, ma decidendo di lottare insieme agli altri per riappropriarsi in modo consapevole del proprio ruolo nella società e della propria funzione all’interno dello Stato democratico. 

Per dirla con le parole di Piero Calamandrei, “ciò che può costituire un pericolo per i magistrati non è la corruzione (….) o le inframmettenze politiche (..) Il vero pericolo non viene dal di fuori: è un lento esaurimento interno delle coscienze, che le rende acquiescenti e rassegnate: una crescente pigrizia morale, che sempre più preferisce alla soluzione giusta quella accomodante, perché non turba il quieto vivere e perché la intransigenza costa troppa fatica.”


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