Il Caso.
La decisione in rassegna, resa in sede di reclamo dalla sezione specializzata in materia di impresa del Tribunale di Venezia, origina da un’azione cautelare esperita, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2378 c.c. e 700 c.p.c., dal socio di una società a responsabilità limitata avverso una delibera di rimozione della clausola di prelazione di cui all’art. 9 dello statuto societario, già impugnata, in sede di merito, mediante domanda di arbitrato “amministrato” (presso la Curia Mercatorum di Treviso, secondo le previsioni del relativo regolamento) ai sensi dell’art. 29 dello statuto medesimo, nella quale parimenti era stata formulata domanda cautelare sospensiva dell’efficacia della delibera impugnata.
In particolare, le doglianze del socio sono compendiabili, sotto il profilo “procedimentale” nella asseritamente illegittima – perché contrastante con le previsioni statutarie - convocazione dell’assemblea da parte di uno solo degli amministratori e senza la previa delibera del c.d.a., e, in senso sostanziale, nella invalidità della delibera censurata per “abuso di maggioranza”, per aver consentito in un contesto in cui si era già manifestata la volontà di due soci di cedere le partecipazioni e l’interesse di un altro ad acquistarle, la rimozione della clausola di prelazione; tale deliberazione sarebbe stata assunta al fine di avvantaggiare un’altra socia, la quale avrebbe potuto, direttamente o per il tramite del di lei figlio, acquistare una partecipazione che le avrebbe permesso di disporre della maggioranza sufficiente per adottare qualsiasi deliberazione assembleare, e altresì al fine di consentire ai soci alienanti, di massimizzare il prezzo ricavabile dalla cessione, in danno al socio ricorrente, la cui quota di partecipazione sarebbe divenuta, all’esito della vendita delle partecipazioni in favore dell’altra socia o del terzo, comunque ad essa collegato, del tutto ininfluente all’interno della società.
In prime cure, il giudice adito, ritenuta la propria competenza, e la non operatività delle regole di cui all’art. 39 c.p.c. in punto di litispendenza, nonché l’ammissibilità del ricorso cautelare rispetto alle previsioni del regolamento arbitrale della Curia mercatorum, ha, nel merito, per un verso, respinto le doglianze incentrate sulla violazione dell’art. 15.1 dello statuto, interpretato nel senso di attribuire la competenza a convocare l’assemblea anche ad ogni singolo componente del Consiglio di Amministrazione e non all’organo amministrativo collegialmente inteso; per altro verso, ha ritenuto sussistere il fumus boni iuris relativo al vizio di abuso di maggioranza, in modo da favorire il figlio dell’altro socio, a danno del ricorrente.
A fronte del reclamo interposto dalla società, concernente sia profili processuali che sostanziali, il Collegio ha respinto il gravame, confermando l’ordinanza reclamata.
Le questioni di diritto rilevanti sottoposte all’esame del Tribunale e la soluzione adottata.
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In via preliminare, viene in esame la questione della tardività delle doglianze sollevate “in via incidentale” dal socio reclamato avverso l’ordinanza di prime cure, nella parte in cui il giudice ha ritenuto non sussistere una illegittimità della delibera impugnata per violazione delle disposizioni statuarie in materia di convocazione dell’assemblea.
Secondo la società reclamante, infatti, il reclamato avrebbe dovuto proporre un reclamo autonomo nel termine previsto dall’art. 669 terdecies c.p.c., e non dedurre le doglianze solo nelle memorie di costituzione.
Il Collegio, confermando un orientamento del Tribunale[1] ha ritenuto tardiva e inammissibile la contestazione così come promossa dal reclamato, in quanto l’art. 669 terdecies c.p.c., nel disciplinare il procedimento di reclamo avverso le ordinanze pronunciate nel rito cautelare uniforme, non prevede una disposizione analoga a quella dettata dall’art. 333 cpc in tema di impugnazioni incidentali, tale mancato richiamo essendo giustificato dalla diversa struttura del procedimento cautelare rispetto a quella del procedimento ordinario di cognizione.
L’art. 669 terdecies c.p.c., come modificato a seguito della pronuncia della C. Cost., n. 235 del 1994[2], consente il reclamo tanto nei confronti del provvedimento cautelare di accoglimento che di rigetto.
In dottrina, in via maggioritaria, si ammette sia la proposizione del reclamo incidentale, sia l'applicazione analogica dettata dal codice in materia di impugnazioni incidentali, anche tardive[3].
Diversamente, in giurisprudenza il “panorama” – restringendo la ricerca alle pronunce successive alla citata pronuncia della Corte Costituzionale - è meno definito.
Secondo un orientamento minoritario, il reclamo incidentale sarebbe da escludere tout court[4], mentre altra giurisprudenza, anche nell’ambito delle sezioni specializzate in materia di impresa[5], afferma al contrario l’ammissibilità del reclamo incidentale “tardivo”, cioè proposto oltre il termine di cui all’art. 669 terdecies c.p.c.[6].
Un terzo orientamento giurisprudenziale, maggioritario, soprattutto nell’ambito delle sezioni specializzate in materia di impresa, ritiene sì ammissibile il reclamo incidentale, inteso quale reclamo proposto dalla parte solo parzialmente soccombente, ma nel rispetto del termine perentorio previsto dall'art. 669 terdecies c.p.c.[7].
La pronuncia in rassegna, quindi, risulta conforme a tale ultimo orientamento, fondato sulla mancanza di una previsione che espressamente autorizzi la proposizione di un simile mezzo di reclamo, consentendo l’art. 669 terdecies c.p.c. esclusivamente la proposizione del reclamo entro il termine perentorio di quindici giorni dalla pronuncia in udienza ovvero dalla comunicazione del provvedimento reclamato.
In particolare, sarebbe impossibile fare applicazione analogica, in sede di reclamo ex art. 669 terdecies, dell’art. 334 c.p.c., dettato in tema di disciplina generale delle impugnazioni, riguardando quest’ultima i mezzi di gravame avverso le sentenze, ovvero avverso provvedimenti suscettibili di acquisire l’autorità del giudicato, laddove il reclamo avverso un provvedimento cautelare - pur essendo quest’ultimo suscettibile di assumere una relativa stabilità, specie a seguito delle modifiche normative che hanno introdotto ipotesi di c.d. “strumentalità attenuata” - ha una funzione strumentale rispetto al procedimento a cognizione piena che solitamente fa seguito alla fase cautelare[8].
In tal senso, quindi, il reclamo incidentale proposto oltre i termini perentori stabiliti dall'art. 669 terdecies c.p.c. per contestare il capo dell'ordinanza cautelare che, dopo aver respinto una domanda basata sulla contraffazione di marchio, ne abbia accolto una di concorrenza sleale confusoria, è stato ritenuto dalla giurisprudenza inammissibile in quanto tardivo[9].
Va detto che la soluzione della giurisprudenza non appare pienamente condivisibile.
Se si ritiene, infatti, che il reclamo sia uno strumento di “riesame” assimilabile ad un vero e proprio giudizio di impugnazione, allora non può negarsi, quantomeno in via analogica, l’applicabilità delle disposizioni in ordine alle impugnazioni incidentali, trattandosi di istituto di applicazione generale ai fini della concentrazione dei gravami.
Se, invece, si ritiene che il reclamo sia una “fase” di riesame integrale, in quanto rimedio totalmente devolutivo, teso al riesame complessivo della statuizione del primo giudice sulla base della mera riproposizione dei temi di fatto e di diritto e senza altre formalità che non siano strettamente necessarie al rispetto del principio del contraddittorio[10], allora è illogico non ammettere l’integrale riproposizione delle difese e contestazioni della parte reclamata eventualmente non accolte dal primo giudice, in quanto il reclamo proposto dalla controparte finisce per “rimettere in gioco” integralmente anche parte reclamata.
Si consideri peraltro, che occorrerebbe anche distinguere i casi in cui ad essere oggetto di parziale diniego in prime cure non siano elementi del petitum, ma mere deduzioni o eccezioni integranti la causa petendi o comunque le difese.
In tale ultimo caso, infatti, richiedere che il soggetto vittorioso in prime cure, ma con argomentazioni o motivi di impugnazione della medesima delibera parzialmente non accolti, debba anche in tal caso impugnare entro i termini di cui all’art. 669 terdecies c.p.c. si può porre in contrasto con il principio per cui per impugnare, così come per agire in giudizio e, quindi, anche reclamare, occorre avervi interesse, ex art. 100 c.p.c.
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Il Collegio, poi, ha affrontato un’ulteriore, molto interessante, questione di carattere processuale.
Si tratta del problema della contemporanea pendenza di due istanze cautelari, una proposta con la domanda arbitrale e l’altra con ricorso giudiziale avanti al Tribunale e della competenza di quest’ultimo a decidere sull’azione cautelare esperita.
La società reclamante, infatti, ha censurato il provvedimento di prime cure in quanto il giudizio cautelare esperito avanti al Tribunale, a fronte di una domanda cautelare già contenuta nell’atto introduttivo del rito arbitrale, doveva ritenersi, da un lato, proposto avanti a Giudice incompetente, ai sensi dell’art. 35, comma 5, d.lgs. n. 5 del 2003, e, dall’altro lato, inammissibile per la predetta pendenza di identica domanda, non dovendosi confondere l’introduzione del giudizio arbitrale con la successiva costituzione del relativo Collegio, secondo quando previsto dal regolamento della Curia Mercatorum.
Ai sensi dell'art. 35, comma 5, d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, la devoluzione in arbitrato, anche non rituale, di una controversia non preclude il ricorso alla tutela cautelare, a norma dell'art. 669 quinquies c.p.c., ma se la clausola compromissoria consente la devoluzione in arbitrato di controversie aventi ad oggetto la validità di delibere assembleari agli arbitri compete sempre il potere di disporre, con ordinanza non reclamabile, la sospensione dell'efficacia della delibera.
La disposizione che precede[11] costituisce una particolare e rilevantissima deroga tanto al divieto[12] di cui all’art. 818 c.p.c. - ai sensi del quale gli arbitri non possono concedere sequestri, né altri provvedimenti cautelari, salva diversa disposizione di legge [13]- quanto alla correlata[14] regola della scissione[15], di cui all’art. 669 quinquies c.p.c., ai sensi del quale se la controversia è oggetto di clausola compromissoria o è compromessa in arbitri anche non rituali o se è pendente il giudizio arbitrale, la domanda si propone al giudice che sarebbe stato competente a conoscere del merito[16].
L’interpretazione e l’applicazione della disposizione che precede porta normalmente con sé la necessità di risolvere due questioni: la prima è se in caso di impugnazione di una delibera assembleare societaria compromessa in arbitri, il potere cautelare in ordine alla richiesta di sospensiva della medesima sia attribuito esclusivamente ad essi; la seconda, in caso di risposta positiva a tale primo quesito, se sia comunque possibile ricorrere avanti al giudice ordinario in via cautelare quando il giudizio arbitrale non è ancora pendente o il collegio non si è costituito.
E’ stato affermato in dottrina e in giurisprudenza che l'art. 35, comma 5, si configura <<non solo come norma attributiva di poteri cautelari ai giudici privati, bensì anche ripartitoria delle competenze cautelari arbitrali e giudiziali>> in presenza di clausola compromissoria statutaria[17].
E’ stato, però, anche sottolineato che, sorto il giudizio arbitrale avente ad oggetto la validità di una deliberazione assembleare, il potere inibitorio del giudice ordinario non può coesistere puramente e semplicemente con quello degli arbitri: solamente questi ultimi, infatti, possono sospendere l'efficacia della delibera impugnata ovvero conoscere — in sede di revoca o modifica del provvedimento inibitorio già adottato — di eventuali circostanze sopravvenute idonee a rimettere in discussione la valutazione precedentemente compiuta[18].
La norma speciale in esame, cioè, individua nell’arbitro o collegio arbitrale contemplati nella clausola compromissoria il “giudice naturale” del subprocedimento di sospensione e, dunque, in linea di principio, l'unico organo deputato a concedere l'inibitoria in pendenza del giudizio di impugnazione[19].
D’altronde, viene avvertita l’esigenza di considerare l’esperibilità di un rimedio “urgente” nel periodo di tempo tra l'instaurazione del giudizio arbitrale e l'effettiva costituzione dell'organo giudicante: infatti, in caso di eccessivo “integralismo” nell’applicare il principio di concentrazione del potere decisorio in capo al giudice arbitrale ex art. 35 cit., si può determinare un pericoloso vuoto di tutela, con conseguenti potenziali effetti pregiudizievoli irreparabili[20].
In questo senso, quindi, sia in dottrina[21] che in giurisprudenza[22] si è affermato l’orientamento maggioritario[23] che valorizza e riconosce in capo al giudice ordinario una potestà sospensiva «residuale», esercitabile fin quando[24] l'organo arbitrale non sia venuto ad esistenza e non sia concretamente in grado di operare[25].
Il principio di effettività della tutela giurisdizionale, infatti, implica necessariamente che gli organi statali assicurino - sempre e in ogni caso - la disponibilità di una giustizia cautelare che, anche in caso di devoluzione agli arbitri della cognizione su una determinata controversia, renda immediatamente fruibili quelle esigenze di celerità ed effettività della tutela.
La sentenza in esame, conformandosi all’orientamento maggioritario, ha sottolineato che:
I) la competenza del Giudice ordinario è subordinata a due presupposti, la mancata costituzione del collegio arbitrale e la prospettazione di ragioni di assoluta urgenza[26] che non consentano l’attesa dei tempi necessari alla sua costituzione;
II) la proposizione della domanda innanzi al collegio arbitrale, ancorché sia corredata di istanza di sospensiva, che necessariamente deve essere formulata contestualmente all’atto introduttivo, non osta alla richiesta di provvedimenti cautelari urgenti innanzi al giudice ordinario prima della costituzione del collegio arbitrale, proprio perché, nelle more, il collegio arbitrale, pur investito della domanda cautelare, non ha concretamente il potere di decidere;
III) la competenza ad adottare tali provvedimenti urgenti si radica al momento della domanda cautelare, in base al principio generale di cui all’art. 5 cpc e pertanto deve ritenersi sussistere se, al momento dell’introduzione del giudizio innanzi al giudice ordinario, il collegio non sia ancora costituito, e non può venire meno per il sol fatto che, nelle more del procedimento cautelare proposto innanzi al Tribunale, il Collegio arbitrale sia venuto a costituirsi.
La decisione, poi, ha opportunamente precisato che l’istanza cautelare di sospensione può essere presentata solo contestualmente al ricorso arbitrale (in conformità alla previsione di cui all’art. 2378, comma 3, c.c.), sicché laddove la stessa si ritenesse inammissibile in ragione della presentazione dell’istanza cautelare di sospensiva innanzi al collegio arbitrale, si verificherebbe proprio quel vuoto di tutela cautelare che l’art. 669 quinques cpc è, invece, volto ad evitare, anche nel caso in cui le parti abbiano volontariamente rinunciato alla giurisdizione ordinaria aderendo alla clausola arbitrale.
Parimenti, non vi può essere alcuna preclusione alla contemporanea proposizione di due istanze cautelari, una avanti al Collegio arbitrale e l’altra avanti al Giudice ordinario, perché se si dovesse escludere la proposizione della stessa con la domanda arbitrale, sarebbe preclusa la facoltà di ottenere la tutela innanzi al collegio arbitrale, competente dopo la sua costituzione, per l’ipotesi in cui il Giudice ordinario, rigettando il ricorso cautelare, non ravvisi ragioni di urgenza tali da indurlo a provvedere prima della costituzione del collegio arbitrale.
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L’abuso di maggioranza
Infine, grande interesse riveste la parte della decisione ricostruttiva dell’ipotesi di “abuso di maggioranza”, a fondamento del fumus boni iuris della pretesa del reclamato ricorrente.
Va rammentato, al riguardo, che la disciplina codicistica in materia societaria non contempla una fattispecie specifica di “abuso di maggioranza” o abuso di potere o del diritto di voto[27]: l’art. 2373 c.c., infatti, disciplina la diversa fattispecie[28] della delibera votata dal socio portatore di un interesse personale – proprio o altrui – contrastante con quello sociale[29], inteso come l'insieme di tutti quegli interessi che sono comuni ai soci in quanto parti del contratto di società, in parte tipizzati nelle norme del diritto societario anzidette e in parte rappresentati da interessi atipici ispirati ai principi di correttezza e buona fede[30].
Una delibera adottata in tali condizioni non è sempre e comunque annullabile: a tal fine, occorre che il voto del socio in questione sia “determinante”[31] e la delibera possa recare danno alla società e al suo patrimonio sociale[32].
La fattispecie in questione, d’altronde, e la relativa disciplina contenuta nell’art. 2373 c.c. sono rivolti a tutelare specificamente la società e il patrimonio sociale, nel senso che riguardano le delibere lesive di quest’ultimo, irrilevanti, al contrario, essendo i pregiudizi eventualmente arrecati agli interessi dei soci “di minoranza”[33].
La categoria dell’abuso di maggioranza, quindi, fuoriesce dalla previsione testuale che precede[34], perché con tale istituto - di origine pretoria, ancorché, come si dirà a breve, fondato su principi e clausole generali normativamente previsti – si ritiene annullabile la delibera adottata dalla maggioranza a danno dei soci “di minoranza”[35], anche in fattispecie nelle quali la società non subisce alcun danno, né attuale, né potenziale, ma, anzi, in alcuni casi la società finisce per ricevere un vantaggio dalla delibera in considerazione dell’incremento dei messi finanziari utilizzabili[36].
La giurisprudenza[37] prevalente, quindi, ha accolto l’idea di una tutela degli interessi della minoranza in casi “patologici”, qualora la delibera approvata abbia, sostanzialmente, lo scopo precipuo di danneggiare singoli soci.
Al riguardo, il punto di partenza del ragionamento sta nel fatto che non è possibile, di regola, per il Giudice esercitare un controllo sulla delibera contestata sindacando nel merito la convenienza e l’opportunità delle decisioni di maggioranza[38].
Parimenti, resta, in via generale, preclusa la possibilità di controllo, in sede giudiziaria, dei motivi che hanno indotto la maggioranza alla votazione di una determinata delibera[39], essendo insindacabili le esigenze relative all'economia individuale del socio che possano averlo indotto a votare.
D’altronde, un limite “esterno” alla discrezionalità assembleare e alla libertà del singolo di esercitare legittimamente il suo diritto di voto si incontra laddove il potere decisionale della maggioranza, seppure formalmente esercitato in modo legittimo, sia piegato e preordinato a una finalità arbitrariamente e fraudolentemente rivolta a ledere i diritti di altri soci.
L’abuso della regola di maggioranza (o abuso o eccesso di potere) è, quindi, causa di annullamento delle deliberazioni assembleari allorquando la delibera[40] non trovi alcuna giustificazione nell'interesse della società - per essere il voto ispirato al perseguimento da parte dei soci di maggioranza di un interesse personale antitetico a quello sociale - oppure sia il risultato di una intenzionale attività fraudolenta dei soci maggioritari diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza "uti singuli"[41].
La premessa e il fondamento positivo della teoria che precede va individuata nell’applicabilità, anche al contratto sociale, delle clausole generali di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto sociale.
Il contratto di società, come qualsiasi altro rapporto negoziale, deve essere eseguito secondo correttezza e buona fede, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., di talchè è richiesto ai soci di dare esecuzione al rapporto sociale in modo da preservare gli interessi degli altri partecipi alla compagine[42].
E’ stato, infatti, sottolineato che con il contratto di società viene costituita una comunione di interessi, la cui esistenza, mentre dà ragione della subordinazione della volontà del singolo socio a quella della maggioranza (in base alla considerazione che il voto, pur essendo rimesso al libero apprezzamento di ciascuno, è pur sempre attribuito in funzione del perseguimento di uno scopo comune), esclude al tempo stesso che il voto stesso possa essere legittimamente esercitato per realizzare finalità particolari, estranee alla causa del contratto di società come è confermato dall'art. 2373 c.c., che non va pertanto riguardato come norma eccezionale, ma quale espressione dell'esigenza che i rapporti all'interno della società si realizzino attraverso comportamenti coerenti con gli scopi per i quali il contratto sociale è stato stipulato[43].
Il contratto di società, in tal senso, è contratto associativo che, prevedendo l'esercizio in comune tra i soci di un'attività economica a scopo di lucro impone ai medesimi particolari doveri di collaborazione al fine di raggiungimento dello scopo stesso, anche in funzione del rispetto del principio di buona fede nell'esecuzione dei contratti, applicabile anche con riferimento alle deliberazioni assembleari quali atti esecutivi del contratto sociale.
Quindi, il canone di correttezza e buona fede in senso oggettivo si pone come limite esterno all'esercizio della “discrezionalità societaria”, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi, i quali, nel dinamismo proprio dell'ordinamento societario, sono destinati a trovare adeguata composizione nell'ambito del procedimento deliberativo. La menzionata regola di maggioranza prescrive, dunque, al socio non di esercitare il diritto di voto in funzione di un predeterminato interesse, ma di esercitarlo liberamente e legittimamente per il perseguimento di un proprio interesse fino al limite dell'altrui potenziale danno[44].
La violazione delle regole generali di buona fede e correttezza, pertanto, può condurre a eccessi e abusi di potere da parte del socio di maggioranza (o di chi abbia il relativo diritto di voto), suscettibili di integrare una causa, oltre che di annullabilità delle deliberazioni assembleari pur regolarmente adottate, del sorgere dell'obbligo di risarcire il danno cagionato agli azionisti di minoranza[45].
Pur evocandosi la categoria generale, - contestata fortemente in dottrina[46] e non sempre richiamata convintamente dalla giurisprudenza - dell’abuso del diritto[47], il nucleo fondante la fattispecie che ci occupa, quindi, è la forza espansiva, interpretativa ed applicativa, del principio di buona fede, che nel caso di specie produce degli effetti “preclusivi” di limite all’esercizio di un diritto.
In tal senso, la cosiddetta regola di maggioranza consente al socio di esercitare liberamente e legittimamente il diritto di voto per il perseguimento di un proprio interesse fino al limite dell'altrui potenziale danno[48].
In caso di violazione di tale “limite esterno” e, quindi, di violazione del principio di buona fede da parte dei soci nell'esercizio del diritto di voto, si giustifica tanto l’annullamento della delibera quanto il diritto del socio leso al risarcimento del danno, perché viene integrata un’ipotesi di inadempimento contrattuale, per violazione di un dovere preesistente gravante sui singoli soci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c.[49].
Al riguardo, la giurisprudenza sia di legittimità[50] che di merito[51], anche recente, riconosce che i presupposti per ritenere accertato l’abuso o eccesso di potere, quale causa di annullamento delle delibere societarie e risarcimento del danno, sono, in via alternativa[52] fra loro: a) che la delibera non trovi alcuna giustificazione nell'interesse della società, trattandosi di una deviazione dell'atto dallo scopo economico-pratico del contratto sociale per essere il voto ispirato al perseguimento da parte dei soci di maggioranza di un interesse antitetico a quello sociale; b) la delibera sia il risultato di una intenzionale attività fraudolenta dei soci maggioritari diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza uti singuli, poiché è rivolta al conseguimento di interessi extrasociali.
Si tratta, quindi, di una deviazione dagli scopi sociali, consistente nella fraudolenta attività della maggioranza volta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e dei connessi diritti patrimoniali spettanti ai singoli soci[53].
Di qui la conseguenza per cui la delibera societaria può essere invalidata, in difetto delle ragioni tipiche all'uopo previste, sotto il profilo dell'abuso della regola di maggioranza, quando risulti arbitrariamente o fraudolentemente preordinata dai soci maggioritari al solo fine di perseguire interessi divergenti da quelli societari, ovvero di ledere gli interessi degli altri soci.
L’onere della prova incombe sul socio di minoranza[54] il quale dovrà, a tal fine, indicare i "sintomi"[55] di illiceità della delibera - deducibili non solo da elementi di fatto esistenti al momento della sua approvazione, ma anche da circostanze verificatesi successivamente - in modo da consentire al giudice di verificarne le reali motivazioni e accertare se effettivamente abuso vi sia stato[56].
E’ stata ritenuta, ad es., annullabile per abuso di maggioranza la delibera assembleare preordinata a modificare arbitrariamente la struttura di governance societaria con lesione delle prerogative del socio di minoranza, allorquando la stessa non sia giustificata da una specifica e ben individuata esigenza di tutela dell’interesse sociale[57].
Una fattispecie similare a quella oggetto della pronuncia in esame, è stata decisa dalla sezione specializzata in materia di impresa del Tribunale di Milano[58], anch’essa concernente l’eliminazione della previsione statutaria che stabilisce il diritto di prelazione.
In detta pronuncia, si sottolinea, correttamente, come l'abuso del diritto di voto ricorre certamente nell'ipotesi in cui il socio di maggioranza voti una delibera all'esclusivo scopo di causare un danno al socio di minoranza, ma include anche l'ipotesi in cui quel danno determini nel contempo un vantaggio per il socio di maggioranza.
Ciò non solo e non tanto perché la restrizione della fattispecie alla sanzione dell'atto meramente emulativo lo relegherebbe - in un contesto quale quello delle società commerciali governato in buona percentuale dal razionale perseguimento, da parte degli attori in campo, dei propri particolari interessi - ad una applicazione rarissima.
Ma soprattutto perché, nell'abuso, ciò che conta è proprio il danno provocato al socio di minoranza, accompagnato dalla mancanza di una sua giustificazione sul piano societario, dove il vantaggio particolare e personale che ne ritragga il socio di maggioranza, che quasi sempre costituisce l'altra faccia del danno al socio minoritario, non può certo di per se stesso fungere da esimente. Al contrario esso individualistico ed egoistico vantaggio, in quanto movente ed aspetto inscindibile della finalità per cui la maggioranza vota in un determinato modo, finisce in quanto tale per connotare in modo assai significativo l'antigiuridicità della condotta, cioè la violazione della regola della buona fede.
Dunque, il vantaggio del socio di maggioranza assumerà valore di esimente soltanto se legittimo o giustificato sul piano societario, con ciò rendendosi ipso facto giustificato anche il danno al socio di minoranza.
In questo quadro, dunque, il vantaggio recato con l'adozione della deliberazione all'interesse sociale funge da giustificazione del vantaggio dell'un socio (di maggioranza) e del danno dell'altro, mentre l'indifferenza o il danno anche per l'interesse sociale non scriminano o aggravano l'abuso. In conclusione, l'abuso esiste quando il socio di maggioranza strumentalizza la società o il suo ordinamento per recare un danno ingiustificato al socio di minoranza, eventualmente con proprio particolare, individualistico e parimenti ingiustificato vantaggio.
La pronuncia del Tribunale di Venezia, in esame, con ampia e argomentata motivazione, ha fatto applicazione dei principi sopra esposti, accertando e motivando in modo puntuale nel senso di ritenere che la deliberazione societaria di modifica della clausola statutaria di prelazione non è stata adottata al semplice fine di modificare la struttura organizzativa societaria, ma al fine di piegare una precisa operazione di trasferimento al personale interesse dei soci di maggioranza, in danno al socio di minoranza che aveva manifestato interesse ad esercitare i propri diritti in base alle regole statutarie vigenti al momento in cui si sono svolti i fatti.
In tal senso, la delibera si appalesa, quanto meno ai fini della delibazione sommaria che connota la fase cautelare, contraria a buona fede: il potere della maggioranza di modificare la configurazione e l’assetto statutario non può trascendere nel potere di pregiudicare il diritto esercitabile in concreto dal socio in forza della disposizione che lo prevede in un momento in cui tale diritto è in procinto di essere esercitato, poiché cancellare i diritti del socio di minoranza in una situazione in cui egli è prossimo ad esercitarli significherebbe privare tali diritti, e lo stesso statuto, di effettività[59].
[1] Trib. Venezia, ordinanza cautelare del 31.10.2018, secondo il quale nei giudizi di impugnazione, i diversi motivi di censura della validità della delibera assembleare introducono autonome cause, dovendosi ritenersi sussistente un’ipotesi di cumulo di azioni, cumulo pur incentivato dal legislatore con l’art. 2378 comma 5 cc che prevede come tutte le impugnazioni relative la medesima deliberazione, anche se separatamente proposte, debbano essere istruite e decise in un unico processo. L’autonomia delle domande cautelari sottese all’impugnativa della medesima delibera cesurata sotto differenti profili, ove una di dette domande sia stata ritenuta verosimilmente infondata e tale da non permettere di per sé l’adozione del provvedimento di sospensiva degli effetti della delibera, comporta che la parte istante sia onerata di proporre avanti al collegio il relativo reclamo entro il termine perentorio previsto dall’art. 669 terdecies cpc, ove intenda contestare la decisione data dal primo giudice, non essendo prevista per il rito cautelare uniforme una disciplina analoga a quella propria del giudizio di cognizione in tema di impugnazioni incidentali.
[2] C. Cost., 22 luglio 1994, n. 332, in Giust. civ., 1995, I, 659 con nota di Mammone, ha dichiarato l'incostituzionalità della norma in esame nella parte in cui non ammetteva il reclamo anche avverso l'ordinanza di rigetto del provvedimento cautelare richiesto. Prima di tale modifica, la scarsa giurisprudenza edita precedente al 1994 era tendenzialmente orientata a negare l'ammissibilità del reclamo incidentale, si veda Trib. Avellino, 16 luglio 1993, in Riv. dir. proc., 1994, 607 e ss., con nota di G. Grasso, Aspetti problematici del reclamo contro il diniego, anche parziale, del provvedimento cautelare.
[3] Sostengono l’ammissibilità del reclamo incidentale tardivo, Dini-Mammone, I provvedimenti d’urgenza, Milano, 1997, 668; Corsini, Il reclamo cautelare, Torino, 2002, 298, il quale ha sottolineato come <<in linea di principio, non possono sussistere dubbi circa la astratta ammissibilità del reclamo incidentale>>; Arieta, Problemi e prospettive in tema di reclamo cautelare, in Riv. dir. proc., 1997, 441, il quale ha valorizzato la natura del giudizio di reclamo, che, ponendosi come prosecuzione dell'unitario giudizio di cautelare di prima istanza, è compatibile con la proposizione di censure anche da parte di soggetti diversi dal reclamante principale e che investano capi diversi della pronuncia; Viola, Il procedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c., Milano, 2013, 231, secondo il quale la non applicabilità della disciplina generale prevista dagli artt. 333 c.p.c. e ss. si porrebbe in contrasto con i principi del giusto processo e del diritto di difesa di cui agli artt. 24 e 111 Cost., stante la natura di impugnazione del reclamo; Consolo, Commento all’art. 669-terdecies, in Consolo-Luiso, Codice di Procedura Civile commentato, Milano, 2000; A. Carratta (a cura di), I procedimenti cautelari, Zanichelli, 2013, 366 e ss. Secondo F.P. Luiso, Diritto processuale civile, Milano, 2011, IV, 216, l'art. 669-terdecies c.p.c. introduce un mezzo di controllo, che pur denominandosi reclamo “è un vero e proprio appello”. In senso contrario, ne afferma l’inammissibilità Proto, La riforma del procedimento possessorio, in Giust. civ., fasc.3, 2007, 83, il quale ha valorizzato che il reclamo è sì un mezzo di impugnazione o di controllo del provvedimento conclusivo del procedimento cautelare e possessorio, ma sempre nell'ambito del medesimo procedimento come una subfase o una fase subprocedimentale eventuale e sostitutiva; inoltre, si tratta di un atto di impugnazione a motivi illimitati, non rinvenendosi alcun obbligo di indicare nel reclamo i motivi specifici dell'impugnazione e tanto meno le altre indicazioni prescritte dall'art. 163 c.p.c. richiamato dal predetto art. 342 c.p.c.; ancora, in considerazione del comma 4, dell’art. 669 terdecies c.p.c., il potere di modifica del provvedimento svincola il giudice del riesame dagli specifici motivi di censura diversamente dal giudice delle impugnazioni in senso tecnico; infine, altra argomentazione che nega l'ammissibilità del reclamo incidentale si può rinvenire dalla mancanza di un'apposita disciplina che stabilisca modalità e termini di proposizione del reclamo incidentale anche ai fini del rispetto del contraddittorio. D’altronde, correttamente, se si segue questa impostazione, l’Autore sottolinea come grazie al potere di modifica del provvedimento, la parte resistente potrà avanzare le proprie richieste e le proprie difese indipendentemente dalla scadenza del termine per il reclamo principale. G. Basilico, I rimedi nei confronti dei provvedimenti cautelari alla luce dei nuovi artt. 669-decies e 669-terdecies, in Giur. it., 1994, IV, 21 e ss., ha escluso, sia pure in riferimento alla norma anteriormente alla pronuncia della Corte Costituzionale, che il reclamo possa configurare un secondo grado di giudizio cautelare, facendo rientrare detto strumento in quella categoria di rimedi che sono stati apprestati dal legislatore per consentire il riesame o il controllo dei provvedimenti cautelari, al fine di evitare l'automatica attribuzione di definitività a provvedimenti che, per loro natura, non sono definitivi ma unicamente strumentali. In particolare l’Autore ha ritenuto la non inquadrabilità del reclamo tra le impugnazioni e ciò, anzitutto, sul dettato dell'art. 323 c.p.c., che elenca le impugnazioni, in secondo luogo sulla constatazione che le impugnazioni sono date unicamente nei confronti delle sentenze, in quanto rimedi strutturati in funzione del giudicato e pertanto applicabili unicamente in relazione a quei provvedimenti suscettibili di acquisirne l'autorità. Sull’argomento e in termini critici rispetto all’ammissibilità del reclamo incidentale, si veda altresì Pappalardo, Sul reclamo incidentale tardivo, in Riv. dir. ind., 2014, II, 463 e ss.
[4] Trib. Torino, 4 luglio 1994, in Giur. it., 1995, I, 2, 748 e ss., secondo il quale nessuna norma di diritto positivo prevede la proposizione dell'istanza di riesame del provvedimento cautelare in via incidentale, nemmeno se tempestiva. Il Tribunale non ritiene poi possibile colmare la lacuna normativa in via interpretativa, con l'estensione analogica degli artt. 333-335 c.p.c.: <<tale normativa concerne infatti il sistema dei mezzi di gravame contro le ‘sentenze' e cioè contro provvedimenti di carattere stabile emessi all'esito di una plena cognitio e non può essere estesa, difettando il necessario presupposto dell'assimibilità della fattispecie, al sistema dei mezzi di gravame contro i provvedimenti cautelari, che costituiscono pronunce provvisorie emesse all'esito di una summaria cognitio>>. In senso negativo, Trib. Santa Maria Capua Vetere, 10 dicembre 1996, in A. Celeste, Il nuovo procedimento cautelare civile, Milano, 2006, 569-570.
[5] Ancorché in tale ambito risulti per lo più minoritaria: si vedano Trib. Roma, 31 marzo 2010 e Trib. Roma, 7 marzo 2007, entrambe in Banca dati Dejure nonché Trib. Roma, 9 gennaio 2004, in Le sez. spec., 2004, I, 121.
[6] Si vedano, al riguardo, Trib. Modena, 13 marzo 1997, in Giur. it., 1997, I, 2, 489 e ss., e in Nuova Giur. Civ. Comm., 1998, I, 488, con nota di E. Dalmotto, Ammissibilità e termini del reclamo cautelare incidentale, Trib. Palermo, 22 ottobre 1997, in A. Celeste, cit., 569; Trib. Rieti, 24 gennaio 2003, in A. Celeste, cit., 568, le quali hanno sostanzialmente ritenuto applicabile la disciplina di cui all’art. 343 c.p.c. in materia di impugnazioni incidentali, con possibilità di reclamo fino all’atto della costituzione da parte del reclamato. Trib. Monza, 23 gennaio 2008, in Giur. merito, 2008, 1896, invece ha ritenuto ammissibile il reclamo incidentale tardivo, purché proposto entro il termine perentorio di quindici giorni dalla notifica del reclamo principale.
[7] Si vedano, al riguardo, Trib Reggio Emilia, 26 gennaio 1995; in materia di impresa, Trib. Milano, sez. spec. imp., 29 maggio 2014, in Giur. ann. dir, ind., 2016, 1, 1031; Trib. Milano, sez. spec. imp., 20 febbraio 2014, in Riv. dir. ind., 2014, II, 457 e ss., con nota di Pappalardo; Trib. Milano, 15 marzo 2011, in Giur. ann. dir. ind. 2011, 1, 887; Trib. Milano, 29 marzo 2012, in Riv. dir. ind., 2013, II, 46 ss, con nota di La Rocca, Sul reclamo cautelare incidentale tardivo, ha ritenuto inammissibile una domanda reiterata con reclamo incidentale, in quanto lo stesso è stato formulato oltre i termini per la proposizione del reclamo autonomo, o incidentale tempestivo; nonché Trib. Milano, 28 giugno 2007, in Le sez. spec., 2007-2008, 164, secondo la quale <<il decorso del termine di cui all'art. 669 terdecies c.p.c. comporta l'inammissibilità del reclamo incidentale>> e Trib. Milano, 6 maggio 2004, ivi, 2004, II-III, 226, la quale ha dichiarato inammissibile la proposizione del reclamo incidentale, ma rilevando la mancanza di interesse ad impugnare della ricorrente incidentale. Contro l’ammissibilità del reclamo incidentale tardivo si sono anche pronunciate le Sezioni specializzate del Tribunale di Venezia (Trib. Venezia, 9 maggio 2008, in Le sez. spec., 2009-2010, 704, la quale ha affermato che la domanda di revoca dell'ordinanza cautelare oggetto di reclamo deve essere proposta con specifico mezzo di impugnazione nei termini stabiliti dall'art. 669 terdecies e non in sede di costituzione riferita al reclamo proposto da altro ricorrente e Trib. Venezia, 3 ottobre 2008, ivi, 2007-2008, 623 secondo la quale il termine per la proposizione del reclamo, previsto dall'art. 669 terdecies c.p.c. è perentorio, e manca nei procedimenti in camera di consiglio una norma specifica che autorizzi il rimedio processuale del reclamo incidentale. Né peraltro è applicabile analogicamente l'art. 334 c.p.c., che si giustifica solo con riguardo a provvedimenti destinati a diventare definitivi, mentre i provvedimenti cautelari, ancorché pronunciati in sede di reclamo, hanno sempre carattere provvisorio; Trib. Torino, 12 marzo 2010 in Banca dati Dejure e Trib. Torino, 7 luglio 2009, ivi, 2009-2010, 656.
[8] Proto, La riforma del procedimento possessorio, cit., ha sottolineato che la normativa sulle impugnazioni in generale, può risultare utile sul piano generale per integrare parti di disciplina mancante e con una funzione residuale, ma non per dare vita ad istituti particolari che il legislatore non ha previsto. Inoltre, il rinvio ai procedimenti camerali può significare l'esclusione di taluni istituti propri delle impugnazioni in senso tecnico come può voler significare, altresì, l'esistenza di un'incompatibilità di principio tra la struttura dei procedimenti cautelari e le stesse impugnazioni in senso tecnico. In senso contrario, Luiso, op. cit., 183, che parla del reclamo cautelare come di «un vero e proprio appello» e che bisogna fare riferimento alla disciplina sulle impugnazioni.
[9] Trib. Milano, 23 maggio 2011, in Giur. ann. dir. ind., 2011, 1, 1187; nel medesimo senso, Trib. Arezzo, 17 aprile 2008, in Red. Giuffrè, 2009.
[10] Tanto che, da un lato, è superato il divieto dello ius novorum con riferimento alle circostanze ed ai motivi integranti la causa petendi dell’originaria domanda cautelare, dall’altro, è possibile prospettare non soltanto i fatti già dedotti dinnanzi al primo giudice, ma anche quelli sopravvenuti al momento della presentazione del reclamo. Allo stesso modo deve ritenersi consentita la deduzione di fatti preesistenti in precedenza non dedotti, e la prova di fatti allegati, ma non adeguatamente dimostrati, così Trib. Milano, 31 luglio 2019, in red. Giuffrè, 2019.
[11] Sulla portata della norma e sul problema della competenza a disporre la sospensione «cautelare» dell'efficacia di delibere assembleari la cui impugnazione sia devoluta in arbitrato ai sensi dell'art. 34, d. lgs. n. 5 del 2003, si vedano G. Arieta - F. De Santis, Diritto processuale societario, Padova, 2004, 593 ss.; F. Auletta, Le decisioni cautelari e di merito degli arbitri nell'arbitrato societario italiano (per un ripensamento del potere di sospensione dell'efficacia della delibera impugnata: art. 35, c. 5, d.lgs. n. 5/2003), in Riv. dir. arb., 2017, 271 ss.; M. Bove, L'arbitrato nelle controversie societarie, in Giust. civ., 2003, II, 490 ss.; Id., L'arbitrato societario tra disciplina speciale e (nuova) disciplina di diritto comune, in Riv. dir. proc., 2008, 950 ss.; A. Briguglio, Conciliazione e arbitrato nelle controversie societarie, in AA.VV., Conciliazione e arbitrato nelle controversie societarie, Roma, 2003, 31 s.; M. Cattani, Sull'adozione di misure cautelari in materia di impugnativa di una delibera assembleare compromessa in arbitrato: la possibilità di ricorrere all'autorità giudiziaria quando il collegio arbitrale non è ancora costituito (nota a Trib. Lucca, 27 novembre 2008), in Riv. dir. arb., 2008, 399 ss.; S. Cerrato, Tre problemi in materia di arbitrato endosocietario (nota a Trib. Milano, 27 settembre 2005, e Trib. Milano, 4 ottobre 2005), in Giur. comm., 2006, II, 1131 ss.; F. Corsini, L'arbitrato nella riforma del diritto societario, in Giur. it., 2003, 1285 ss.; T. Galletto, Linee evolutive dell'arbitrato societario, in Nuova giur. civ. comm., 2010, II, 494 ss.; L. Iannicelli, La contestata esclusività del potere degli arbitri di sospendere l'efficacia di deliberazione assembleare di S.p.a., in AA.VV., Studi sull'arbitrato offerti a Giovanni Verde, a cura di F. Auletta, G. Califano, G. della Pietra, N. Rascio, Napoli, 2010, 441 ss.; S. Izzo, Sulla sospensione dell'efficacia delle delibere assembleari prima della costituzione del collegio arbitrale (nota a Trib. Napoli, 6 febbraio 2012, e Trib. Padova, 10 gennaio 2012), in Società, 2012, 569 ss.; F.P. Luiso, Appunti sull'arbitrato societario, in Riv. dir. proc., 2003, 723 ss.; M. Maffuccini, Provvedimenti cautelari ed arbitrato: appunti sull'art. 35, 5° comma, D. Lgs. 17 febbraio 2003, n. 5, in Giur. it., 2004, 2215 ss.; A. Motto, Esperienze del nuovo arbitrato societario, in Riv. dir. arb., 2006, 587 ss.; E.F. Ricci, Il nuovo arbitrato societario, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2003, 517 ss.; G. Ruffini, Il nuovo arbitrato per le controversie societarie, ivi, 2004, 528 ss.; A. Villa, Una poltrona per due: la sospensione delle delibere assembleari fra giudice privato e giudice statuale (nota a Trib. Milano, 17 marzo 2009), in Riv. dir. arb., 2009, 312 ss. Bove, L'arbitrato nelle controversie societarie, in Riv,. dir. arb., 2003, II, 473 ss.; Chiarloni, Appunti sulle controversie deducibili in arbitrato societario e sulla natura del lodo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2004, 123; F.P. Luiso, Appunti sull'arbitrato societario, in Riv. dir. proc., 2003, 705; ProtoPisani, La nuova disciplina del processo societario (note a prima lettura), in Foro it., 2003, V, 17; P. Biavati, Il procedimento nell'arbitrato societario, in Riv. dir. arb., 2003, 30; A. Villa, Arbitrato rituale e sospensione delle decisioni sociali, Milano, 2007; G. Tota, Impugnazione in sede arbitrale di deliberazioni assembleari e riparto di potestà cautelare ex art. 35, comma 5, D.Lgs. n. 5/2003, in Riv. dir. arb., fasc.1, 2019, 103.
[12] La ratio del divieto è tradizionalmente ravvisata nella mancanza di poteri coercitivi in capo agli arbitri. Per G. Arieta, Note in tema di rapporti tra arbitrato rituale ed irrituale e tutela cautelare, in Riv. dir. proc., 1993, 750, la privazione del potere di emettere misure cautelari da parte degli arbitri dovrebbe spiegarsi con la mancanza delle necessarie garanzie di indipendenza, indispensabili per la pronuncia di provvedimenti idonei ad incidere sulla realtà sostanziale.
[13] Più precisamente, quindi, l’art. 35 integra l’ipotesi di una “disposizione” di legge fatta salva dall’art. 818 c.p.c.: si veda al riguardo, E. Dalmotto, L'arbitrato nelle società, Bologna, 2013, 261 ss.
[14] Il legislatore, a fronte della mancanza di potestà cautelare in capo agli arbitri, non essendo possibile, in caso di devoluzione della controversia ad essi, ancorare la competenza cautelare a quella reale per il merito, ed essendo la tutela cautelare costituzionalmente necessaria tanto quanto quella di merito, ai sensi dell'art. 24 Cost., ha attribuito la stessa al giudice che sarebbe stato competente ove le parti non avessero deciso di ricorrere ad arbitri per la risoluzione della loro controversia, in tal senso, P. Licci, La competenza cautelare nelle controversie devolute ad arbitri, in Riv. dir. arb., 2, 2019, 339.
[15] F. Auletta, Le decisioni cautelari e di merito degli arbitri nell'arbitrato societario italiano (per un ripensamento del potere di sospensione dell'efficacia della delibera impugnata: art. 35, comma 5, d.lgs. n. 5 del 2003), in Riv. dir. arb., 2, 2017, 270, parla della scindibilità della capacità di decisione cautelare rispetto al merito, quale “principio regolatore, quando non anche informatore della materia”.
[16] In dottrina si vedano, senza pretesa di esaustività, G. Tota, in Commentario alle riforme del processo civile, a cura di Briguglio, Capponi, III, 2, Padova, 2007, 156 ss.; M. F. Ghirga, Le nuove norme sui procedimenti cautelari, in, Riv. dir. proc., 2005, 783 ss.; F.P. Luiso – B. Sassani, La riforma del processo civile, Milano, 2006, 216 ss.; G. Olivieri, Brevi considerazioni sulle nuove norme del procedimento cautelare uniforme, in www.judicium.it.
[17] In dottrina, A. Villa, Una poltrona per due, cit., 315 s.; in giurisprudenza, Trib. Roma, sez. spec. imp., 22 aprile 2018, in Società, 2018, 991 ss., con nota di M.P. Ferrari, La sospensione dell'efficacia delle delibere assembleari in presenza di clausola compromissoria statutaria e in Riv. dir. arb., 1, 2019, 103, con nota di G. Tota, Impugnazione in sede arbitrale di deliberazioni assembleari e riparto di potestà cautelare ex art. 35, comma 5, D.Lgs. n. 5/2003.
[18] G. Tota Impugnazione in sede arbitrale di deliberazioni assembleari e riparto di potestà cautelare, cit..
[19] Sulla portata applicativa della norma, si vedano, in giurisprudenza, tra le altre, Trib. Milano, 4 ottobre 2005 in Giur. comm., 2006, n. 6, 1128, con nota di Cerrato, Arbitrato societario e arbitrato di diritto comune: una convivenza ancora difficile; Trib. Napoli, 8 marzo 2010, in banca dati De Jure; Trib. Milano, sez. VIII, 17 marzo 2009, in Riv. dir arb., 2009, 2, 311, con nota di Villa, secondo la quale l'art. 35, comma 5, del D.lg. n. 5/2003 ha introdotto una cognizione cautelare esclusiva in capo agli arbitri in materia di sospensione dell'efficacia della delibera assembleare impugnata; tuttavia, stante la modalità di instaurazione del procedimento arbitrale, deve riconoscersi, fino al momento in cui il collegio arbitrale sia costituito, la competenza del g.o. a provvedere sull'istanza di sospensione della delibera impugnata; Trib. Lucca, 27 novembre 2008, in Riv. dir. arb., 2008, 3 , 397, con nota di Cattani.
[20] Come correttamente sottolineato dalla pronuncia in esame, la devoluzione al giudice ordinario del potere di decidere in punto sospensione della delibera impugnata, nelle more della costituzione del collegio arbitrale, appare una soluzione che, da un lato, assicura, anche in sede arbitrale, che l’istanza di sospensiva sia promossa contestualmente all’avvio dell’azione di merito, in conformità all’art. 2378 c.c., dall’altro assicura, altresì, una piena efficienza del giudizio arbitrale, che sarebbe altrimenti privato di un’effettiva possibilità di incidenza sul piano della tutela giurisdizionale: si pensi, ad esempio, all’ipotesi di deliberazioni ad esecuzione immediata, tali da cagionare un pregiudizio difficilmente ristorabile per equivalente, che si verifichi prima della costituzione del collegio arbitrale.
[21] F.P. Luiso, Appunti, cit., 724 s.; M. Bove, L'arbitrato societario, cit., 952; G. Ruffini, Il nuovo arbitrato, cit., 529 s.; T. Galletto, Linee evolutive, cit., 495 s.; A. Motto, Esperienze del nuovo arbitrato societario, cit., 590 s.; A. Villa, Una poltrona per due, cit., 316 ss.; M. Cattani, Sull'adozione di misure cautelari, cit., 403 s.; S. Izzo, Sulla sospensione, cit., 572 ss.
[22] Secondo un orientamento, in forza dell’art. 2378 c.c., applicabile anche nel caso di specie seppure nei limiti temporali indicati: in tal senso, Trib. Napoli, 6 febbraio 2012, in banca dati De jure; Trib. Milano, 17 marzo 2009, in Riv. dir. arb., 2009, 2 , 311, con nota di Villa; contra, la tesi, che sembra maggioritaria, secondo la quale l’art. 2738 c.c. non sarebbe invocabile, essendovi nella specie un rimedio inibitorio tipico – in forza dell’art. 35 cit. - riservato dalla legge agli arbitri: pertanto, a rimanere esperibile sarebbe solo la cautela innominata di cui all'art. 700 c.p.c. (in tal senso, Trib. Lucca, 27 novembre 2008, in Riv. dir. arb., 2008, 3, 397, con nota di Cattani) che attraverso i suoi caratteri di atipicità e residualità, consente di occupare gli spazi lasciati scoperti dalla misura sospensiva tipica, tenendo indenne il ricorrente da ogni pregiudizio derivante (non soltanto dall'assenza di precostituzione del giudice arbitrale ma, più in generale) dall'incapacità di operare — quale ne sia la causa (Ad es., la sopravvenuta inefficacia della convenzione arbitrale, la sospensione del procedimento o l'incapacità di funzionamento (ad es. per morte, sostituzione, decadenza di uno dei componenti il collegio dell'ufficio, così, Tota, op cit.) dell'organo giudicante e dalla conseguente non concedibilità del rimedio inibitorio nominato di cui all'art. 35.
[23] Va registrato, d’altronde, l’orientamento che riconosce la titolarità in capo all'autorità giudiziaria di una competenza sospensiva concorrente con quella del giudice arbitrale anche al di là dei limiti riconosciuti dall’orientamento maggioritario: così, Trib. Roma, 22 aprile 2018, Sez. spec. Impresa, in Società, 2018, 991 ss., con nota di M.P. Ferrari, La sospensione dell'efficacia delle delibere assembleari in presenza di clausola compromissoria statutaria e in Riv. dir. arb., 1, 2019, 103, con nota di Tota. Tale pronuncia afferma che l'esistenza di un potere cautelare concorrente del giudice ordinario è una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 35. La tutela cautelare ha la finalità di rendere al massimo effettiva la tutela giurisdizionale dei diritti, di fare in modo, cioè, che il processo possa effettivamente dare, per quanto praticamente possibile, a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire. Questa finalità costituisce direttiva giuridica vincolante per il legislatore (art. 24 Cost.), il quale non può sottrarsi dall'obbligo di assicurare che la durata dei giudizi ordinari ovvero altre circostanze frustrino in concreto le ragioni che possono essere riconosciute in sentenza. Non sarebbe, quindi, secondo il Tribunale, revocabile in dubbio che l'esigenza di garantire che il ricorrente non soffra del tempo necessario ad una pronuncia satisfattiva, sia espressione del più generale principio di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale, rinvenibile negli artt. 24 e 113 Cost., nonché dal principio del giusto processo di cui all'art. 111 Cost.
[24] Come rilevato dalla pronuncia in esame, tra la proposizione della domanda e la costituzione del collegio arbitrale, intercorre necessariamente un arco temporale che, nella prassi, può anche non essere breve e la cui durata può dipendere anche da circostanze estranee alla volontà della parte interessata.
[25] Così colmandosi il divario esistente tra la posizione dell'impugnante in sede arbitrale, sulla cui richiesta di sospensiva non vi sarebbe altrimenti alcun giudice competente a provvedere fino al momento in cui l'ufficio non sia costituito, e la posizione di colui che promuova analoga impugnativa innanzi all'a.g.o., il quale potrebbe invece contare — prima della designazione del giudice istruttore e « in caso di eccezionale e motivata urgenza » (art. 2378, comma 3, c.c.) — sull'intervento cautelare inaudita altera parte del Presidente del Tribunale: in tal senso, Tota, op. cit.
[26] In tal senso, il Tribunale sembra propendere per l’orientamento favorevole alla sussunzione della fattispecie nell’ambito dell’art. 700 c.p.c.
[27] Va detto, peraltro, che la categoria concettuale in esame e i principi collegati contemplano anche l’ipotesi del c.d. abuso di minoranza, ovvero quando i soci detentori delle quote di “minoranza” abusino del diritto di voto o degli altri diritti loro riconosciuti (come nel caso di ostruzionismo nel dibattito assembleare, un voto contrario sistematico finalizzato al blocco delle decisioni essenziali per la società). La differenza rispetto al c.d. abuso di maggioranza, è che in tali casi la tutela non consisterà tanto in un provvedimento giudiziale costitutivo di annullamento di una delibera assembleare (che verosimilmente è ciò che “la minoranza” osteggia), ma al contrario l’annullamento del voto contrario della minoranza che “blocca” la decisione della minoranza, e il risarcimento dei danni. In tal senso, si veda G. F. Campobasso, Diritto commerciale, Vol. 2, Diritto delle società, Milano, 2015, 338, anche per i richiami di dottrina e giurisprudenza alla nota n. 85.
[28] L’art. 2373 c.c. prevede anche due fattispecie “tipiche” di delibera annullabile per conflitto di interessi: il divieto ai soci amministratori di votare nelle deliberazioni riguardanti la loro responsabilità; il divieto per i soci componenti del consiglio di gestione di votare nelle deliberazioni riguardanti la nomina, la revoca o la responsabilità dei consiglieri di sorveglianza.
[29] Come nel caso di delibera concernente il compenso del socio amministratore, laddove, però, si è ritenuto occorra, ai fini dell’annullamento, che la misura di esso sia sproporzionata e incongrua: Cass. civ., 3 dicembre 2008, n. 28748, in Società, 2009, 160; Cass. civ., 21 marzo 2000, n. 3312, in Foro it. 2001, I, 2329.
[30] L'interesse sociale va individuato nell'interesse dei soci all'esercizio in comune di un'attività economica a scopo di lucro; con la conseguenza che la deliberazione può essere impugnata quando la maggioranza abbia cercato di perseguire con essa finalità contrastanti con quelle proprie di tutti i soci, come definite nel contratto sociale. Al riguardo, si veda N. Abriani, Le società per azioni, in Trattato di diritto commerciale, IV, I, Padova, 2010, 505.
[31] La c.d. prova di resistenza.
[32] Il c.d. danno potenziale, senza il quale una delibera, pur adottata con il voto “interessato” e determinante del socio, non è annullabile. Rileva, dunque, non solo un danno attuale, ma anche un danno futuro, purché quest'ultimo risulti prevedibile secondo un giudizio probabilistico o statistico, si veda Cass. civ., sez. I, 12 luglio 2007, n. 15613 in Impresa, 2007, 10, 1420; Cass. civ., sez. I, 23 marzo 1996, n. 2562, in Mass. giur. it., 1996; Cass. civ., sez. I, 21 dicembre 1994, n. 11017, in Mass. giur. it., 1994; Cass. civ., sez. I, 11 marzo 1993, n. 2958, in Società, 1993, 1049.
[33] Il conflitto di interessi è irrilevante qualora la delibera assembleare consenta al socio il conseguimento anche di un suo interesse personale concorrente, nel caso in cui non vi sia pregiudizio per l'interesse della società (si veda Cass. civ., sez. I., 22 aprile 2013, n. 9680 in Fisco on line, 2013; Cass. civ., sez. I, 21 marzo 2000, n. 3312 in Mass. giur. it., 2000; Cass. civ., sez. I, 21 dicembre 1994, n. 11017, cit.).
[34] Sul punto, G. F. Campobasso, op. cit., 337, anche per i riferimenti in dottrina e giurisprudenza alla nota 82. In giurisprudenza, recentemente, a mettere in luce la non applicabilità della norma in questione Cass. civ., sez. I, 29 settembre 2020, n.20625, in Ilsocietario.it, 2019, con nota di Franchi, nonché in Guida al dir., 2020, 46, 63: la pronuncia ha sottolineato che, nel caso dell’art. 2373 c.c., a differenza che nell’ipotesi del c.d. “abuso di maggioranza”, la situazione di conflitto rilevante deve essere valutata con riferimento non già a confliggenti interessi dei soci, bensì a un eventuale contrasto tra l'interesse del socio e l'interesse sociale inteso come l'insieme degli interessi riconducibili al contratto di società tra i quali non è ricompreso l'interesse della società alla prosecuzione della propria attività, giacchè la stessa disciplina legale del fenomeno societario consente che la maggioranza dei soci ponga fine all'impresa comune senza subordinare tale decisione ad alcuna condizione. AI fini dell'annullamento per conflitto di interessi ai sensi dell'art. 2373 c.c., è essenziale che la delibera sia idonea a ledere l'interesse sociale, inteso come l'insieme di quegli interessi che sono comuni ai soci, in quanto parti del contratto di società, e che concernono la produzione del lucro, la massimizzazione del profitto sociale (ovverosia del valore globale delle azioni o delle quote), il controllo della gestione dell'attività sociale, la distribuzione dell'utile, l'alienabilità della propria partecipazione sociale e la determinazione della durata del proprio investimento. Pertanto, si ha conflitto di interessi rilevante quale causa di annullabilità delle delibere assembleari quando vi è, di fatto, un conflitto tra un interesse non sociale e uno qualsiasi degli interessi che sono riconducibili al contratto di società (Cass. civ., sez. 1, 12 dicembre 2005, n. 27387, in Giur. comm., 2007, 1, II, 86, con nota di Frisoli).
[35] In particolare, casi affrontati in giurisprudenza sono stati, tra gli altri, la delibera di scioglimento anticipato della società per ricostituirne subito dopo un’altra senza un socio sgradito; la delibera sistematica di non distribuire dividendi per deprimere il valore di mercato delle azioni e costringere il socio di minoranza a svendere i propri titoli.
[36] Come nel caso della delibera di aumento del capitale sociale al solo fine di ridurre la quota di partecipazione di un socio di minoranza impossibilitato a sottoscrivere l’aumento;
[37] Ex plurimis, Cass. civ., 7 marzo 1992,n. 2764, in Giur. comm.,1994, II, 588; Cass. civ., 5 maggio 1995, n. 4923, in Riv. dir. comm., 1996, II,329 (pervenendo a soluzione positiva nel caso di uno scioglimento anticipato della società); Cass. civ., 11 giugno 2003, n. 9353, in Società, 1004, 188, con nota di Malavasi (aumento di dieci volte del capitale sociale); Cass. civ., 17 luglio 2007, n. 15942, in Società, 2 nota di Ferrari (riconoscimento di compensi sproporzionati al socio amministratore).
[38] Cass. civ., 4 maggio 1994, n. 4323, in Foro it. 1995, I, 2219; Cass. civ., 5 maggio 1995, n. 4923, in Riv. dir. comm., 1996, II, 217, con nota di Ciaffi; Cass. civ., 11 giugno 2003, n. 9353, in Riv. notariato, 2004, 216; Cass. civ., sez. I, 12 dicembre 2005, n. 27387, cit.
[39] Come nel caso di delibera di scioglimento anticipato della società, Cass. civ., n. 20625/20 cit.
[40] In tal senso, con riguardo alle delibere di scioglimento anticipato della società, oltre a Cass civ., n. 20625/20 cit., anche Trib. Ancona, 15 settembre 2020, n.1098, in banca dati de jure.
[41] Cass. civ., 20625/20 cit., e prima, Cass. civ., sez. I, 12 dicembre 2005, n. 27387, cit.
[42] Trib. Venezia, sez. spec. impr., 31 ottobre 2018, in Giur. comm., 2020, 3, II, 633.
[43] Cass. civ., sez. I, 26 ottobre 1995 n. 11151, in Vita not. 1996, 919.
[44] Trib. Roma, sez. spec. imp., 30 aprile 2018, n.8581, in Ilsocietario.it, 2018.
[45] Cass. civ., sez. I, 28 maggio 2020, n.10096, in Ilsocietario.it, 2020, con nota di Franchi.
[46] Sull’abuso del diritto si vedano, senza pretesa di esaustività, P. Rescigno, L'abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1965, I, 205; C. Salvi, Abuso del diritto, in Enciclopedia Giuridica Treccani, I, Roma, 1988; G. Alpa, La buona fede integrativa: note sull'andamento parabolico delle clausole generali, in Il ruolo della buona fede oggettiva nell'esperienza storica e contemporanea, Atti del Convegno internazionale di studi in onore di Alberto Burdese (a cura di) L. Garofalo, Padova, I,2003, 156; F. Galgano, Qui suo iure abutitur neminem laedit?, in Contr. Impr., 2011, 311; G. Alpa, Appunti sul divieto dell'abuso del diritto in ambito comunitario e sui suoi riflessi negli ordinamenti degli stati membri, in Contr. Impr, 2015, 2, 245. Con riferimento al diritto commerciale, si veda A. Ferrari, L'abuso del diritto nelle società, Padova, 1998; P. Montalenti, L'abuso del diritto nel diritto commerciale, in Riv. dir. civ., 2018, 4, 873
[47] Ovvero, in termini generali, quelle ipotesi in cui un comportamento, che formalmente rappresenta l'esercizio di un diritto soggettivo, è sprovvisto di tutela giuridica o comunque illecito in quanto svolto in violazione delle regole generali di buona fede e correttezza. In giurisprudenza, sull’abuso del diritto, si vedano, tra le altre, Trib. Roma, sez. spec. impr., 30 aprile 2018, n. 8581, in Ilsocietario.it, 2018; Cass. civ., sez. I, 12 maggio 2011 n. 10488, in Giust. civ., 2011, 7-8 , 1696; Cass. civ., sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106, in Rass. dir. civ. 2010, 2, 577, con nota di Giorgini. Si vedano anche Cass. civ., 5 maggio 1995, n. 4923, in Mass. giur. it., 1995; Cass. civ., 26 ottobre 1995, n. 11151 in Giur. it., 1996, I, 1, 574; Cass. civ., 12 dicembre 2005, n. 27387, in Mass. giur. it., 2005; Cass. civ., 17 luglio 2007, n. 15942, in Società, 2008, 3, 306; Cass. civ., 17 luglio 2007, n. 15950, in www.leggiditalia.it; Cass. civ., 20 gennaio 2011, n. 1361, in CED Cassazione, 2011; Cass. civ., 17 febbraio 2012, n. 2334, in Riv. notariato, 2012, 2, 448; Cass. civ., 28 giugno 2020, n. 10096, cit..
[48] Cass. civ., 20625/20 cit.
[49] Trib Ancona, cit.
[50] Cass. civ., sez. I, 05 maggio 1995, n. 4923, cit.,; Cass. civ., sez. I, 26 ottobre 1995, n. 11151, cit.,; Cass. civ., sez. I, 11 giugno 2003, n. 9353, cit.
[51] Tra le altre si veda anche C. app., Roma, 21 febbraio 2019, in Foro it. 2019, 5, I, 1795.
[52] Cass. civ., sez. lav., 19 aprile 2003, n. 6361, in Foro it. 2004, I, 1219; Trib. Roma, 22 ottobre 2002, in Giur. it. 2003, 1888; Trib. Milano, 22 giugno 2001, in Giur. it., 2002, 1898, con nota di Dentamaro; Trib. Ancona, 15 settembre 2020, n.1098, in banca dati de jure. Secondo Trib. Venezia, sez. spec. impr., 31 ottobre 2018, in Giur. comm., 2020, 3, II, 633, l'elemento di discrimine tra legittima soggezione della minoranza al principio maggioritario e abuso di detto principio, tale da rendere arbitrario e ingiustificato il voto apparentemente vincolante, è la ricorrenza dell'interesse sociale: ove nel voto espresso dalla maggioranza non si possa individuare alcun interesse sociale, il pregiudizio sopportato dalla minoranza potrà considerarsi arbitrario ed ingiustificato, diversamente dal caso in cui il sacrificio della minoranza sia giustificato dal superiore interesse sociale. Secondo Trib. Roma, sez. spec. impr., 30 aprile 2018, n. 8581, Ilsocietario.it, 2018, occorre che l'abuso si concreti nella intenzionalità specificatamente dannosa del voto, ovvero nella compressione degli altrui diritti in assenza di apprezzabile interesse del votante; d’altronde, in parte motiva la suddetta sentenza conferma la duplicità di ipotesi di abuso indicata nel testo e il carattere alternativo delle stesse.
[53] In particolare, sono ricondotte a questa categoria le deliberazioni maggioritarie che modificano la preesistente struttura sociale, incidendo in modo diretto o indiretto sulla posizione dei singoli soci rispetto all'originaria configurazione della società: Cass. civ., 17 luglio 2007, n. 15950, in Giust. civ. mass., 2007, 9; Cass. civ., 17 luglio 2007, n. 15942, in Riv. notariato, 2009, 3, 640, con nota di Timpano; Cass. civ., 11 giugno 2003, n. 9353, cit.; Cass. 26 ottobre 1995, n. 11151, cit.; Cass. 5 maggio 1995, n. 4923, cit.; Cass. 4 maggio 1994, n. 4323, cit.
[54] Ex plurimis, Cass. civ., sez. I, 29 maggio 1986, n. 3628, in Giur. comm., 1987, II,572; Cass. civ., sez. lav., 19 aprile 2003, n. 6361, cit.
[55] Occorrono indici oggettivi da cui sia dato inferire la violazione di vincoli imposti dall'ordinamento alla maggioranza e desunti nei modi succitati. Possibili sintomi del fatto che il diritto di voto sia esercitato al fine precipuo di danneggiare sono la mancanza di motivazione, l'esclusivo vantaggio proprio o di terzi perseguito dal socio abusante e la mancanza di vantaggio o il danno all'interesse sociale (Trib. Milano, sez. spec. imp., 22 gennaio 2015, n.45749, in Ilsocietario.it, 2015). La dimostrazione che è stato leso un interesse del socio individualmente tutelato non esaurisce, poi, l'onere probatorio dell'attore, dovendo egli soddisfare altresì il convincimento del giudice circa la mancanza di un concomitante interesse in capo alla società.
[56] Trib. Ancona, cit.; Cass., 20265/20 cit.;
[57] Trib. Milano, sez. spec. impr., 23 aprile 2019, n. 4030, in Ilsocietario.it, 2020, con nota di Elmi.
[58] Trib. Milano, sez. spec. impr., 22 gennaio 2015, n. 45749, in Ilsocietario.it, 2015.
[59] In tal senso, Trib. Milano, sez. spec. imp., 22 gennaio 2015, cit.; Trib. Milano, sez. spec. imp., 7 giugno 2018, in Ilsocietario.it 2018.