TAR Lazio, Sez. II quater, 6 novembre 2020, n. 11551 e Cons. Stato, Sez. V, 6 aprile 2021, n. 2759
PREMESSA a cura di Roberto Lombardi
La fattispecie esaminata dal Giudice di primo grado e dal Giudice dell’appello con le sentenze che si vanno a commentare afferisce alla tematica dell’impugnazione di nomine finalizzate all’esercizio di funzioni direttive e semi-direttve all’interno delle magistrature.
Così come avviene per la magistratura ordinaria, anche per la magistratura amministrativa il Giudice amministrativo può sindacare, nel limite dei profili di legittimità, la scelta operata dall’Organo di autogoverno.
Che sia il CSM o il Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa, il TAR in prima battuta, e il Consiglio di Stato in seconda, controllano che l’esercizio di discrezionalità tecnica e amministrativa sia sorretto da un’adeguata istruttoria, rispettoso dei vincoli normativi esistenti e non inficiato da palesi illogicità.
Le due questioni che normalmente si pongono, in casi del genere, sono quelle afferenti ai limiti del sindacato su scelte di merito e agli effetti “a cascata” di un’eventuale pronuncia di annullamento.
Lasciando per un attimo da parte il pluriennale ma ormai stratificato dibattito sui limiti del sindacato di legittimità, con riferimento al secondo aspetto – che lambisce anche l’ulteriore tematica dell’estensione del contraddittorio all’interno di siffatti giudizi -, si discute su quale sia l’effetto prodotto dall’annullamento di un atto di nomina sulle ulteriori nomine seguite temporalmente ad esso.
Soccorrono a tale riguardo gli insegnamenti tradizionali del diritto amministrativo, secondo cui non sempre ciò che segue cronologicamente si pone in rapporto di causalità giuridica con ciò che lo precede.
Il Giudice amministrativo, nel caso in commento, ha rammentato che “perché ciò accada, e affinché, quindi, si possa affermare che l’atto successivo viene travolto dall’annullamento dell’atto presupposto, resta necessario (appunto, in termini di causalità giuridica, anziché fattuale) che il primo costituisca la specifica, ulteriore manifestazione del vizio che ha afflitto il secondo, con la conseguenza che, ravvisato tale vizio, esso non può che congiuntamente infettare ciò che ne è il prolungamento”.
Tale fenomeno, ad esempio, è stato ravvisato in giurisprudenza con riguardo agli atti posti in essere da un Commissario ad acta, la cui nomina sia stata annullata.
Altro discorso occorre invece fare per le vicende amministrative che traggono spunto da un assetto fattuale determinato da atti eventualmente illegittimi, ma che, rispetto a questi ultimi, non ne amplificano il vizio, ma, muovendo da quella condizione, sfociano in episodi della vita del tutto autonomi.
Non è infrequente, cioè, che gli estremi di fatto che si concedono all’azione amministrativa siano indotti da provvedimenti che precedono quest’ultima in via temporale, senza peraltro pregiudicarla giuridicamente; invero, secondo la giurisprudenza, l’effetto caducante è del tutto eccezionale, ed esige la ricorrenza congiunta di due condizioni:
- l’appartenenza dell’atto annullato direttamente e di quello caducato per conseguenza alla medesima serie procedimentale;
- la circostanza che il secondo atto sia inevitabile conseguenza dell’atto presupposto, senza necessità di nuove valutazioni di interessi, specie laddove ciò implichi il coinvolgimento di soggetti terzi (cfr., sul punto, Cons. Stato, sez. IV. n. 3001 del 2018).
D’altra parte, nella ipotesi di annullamento giurisdizionale di un atto di nomina ad incarico direttivo da parte del CSM non si è mai posto il problema di una eventuale caducazione degli atti con cui era stata, nel frattempo, coperta la sede già occupata, essendo pacifico che il magistrato “perdente posto” deve essere ricollocato, in conformità alla sua qualifica e alle sua aspirazioni, presso le ulteriori sedi disponibili, e conciliando le esigenze del magistrato medesimo con lo stato dell’organico, quando non è possibile revocare il bando per il posto originario.
Altre questioni particolari che si possono porre nel caso di nomina a Presidente di Tribunale amministrativo regionale sono riconducibili all’applicabilità alla magistratura amministrativa delle regole previste dall’ordinamento giudiziario sulle incompatibilità tra magistrati e avvocati uniti da un vincolo di parentela o affinità “qualificato”, che svolgono le funzioni nella stessa sede giudiziaria.
L’incompatibilità in discorso può essere originaria o sopravvenuta, ed implica in ogni caso una segnalazione immediata da parte del magistrato interessato, per le valutazioni di competenza, all’Organo di autogoverno.
Il CPGA applica direttamente gli artt. 18 e 19 del regio decreto n. 12 del 1941, perché ciò è previsto dall’art. 28 della legge n. 186 del 1982, e nei limiti di compatibilità con la specificità della giurisdizione amministrativa, trattandosi di disposizioni pensate e scritte per la magistratura ordinaria.
D’altronde, il rinvio all’ordinamento giudiziario in parte qua, contenuto nella legge n. 186 del 1982, ha per oggetto gli artt. 18 e 19 dell’ordinamento giudiziario, e non certamente le circolari con le quali il CSM ha conferito loro ulteriore attuazione.
La incompatibilità trova la sua essenza nel pregiudizio che, in difetto di essa, potrebbe essere arrecato al requisito costituzionale dell’imparzialità della magistratura, valore che potremmo definire, prendendo a prestito le parole della Corte di Giustizia dell’Unione europea, come “equidistanza dalle parti della controversia e dai loro rispettivi interessi riguardo all’oggetto di quest’ultima”.
L’imparzialità del giudice nel singolo processo è un riflesso della più generale imparzialità della giurisdizione in senso lato, la quale deve essere organizzata in modo tale da non prestare il fianco al ragionevole sospetto che la sussistenza di un rapporto di familiarità tra un componente dell’ufficio giudiziario ed un suo parente o affine possa tradursi in una ragione di vantaggio per il parente che eserciti la professione forense, e in definitiva di inquinamento dei processi ai quali il magistrato non partecipa, ma sui quali potrebbe esercitare un’indebita influenza.
Le incompatibilità c.d. parentali codificate dagli artt. 18 e 19 dell’ordinamento giudiziario sono dunque strumenti serventi rispetto all’imparzialità della giurisdizione.
Nell’ipotesi dell’incompatibilità parentale, l’alterazione della par condicio può dipendere non solo dal diretto coinvolgimento del giudice in una certa causa, ma anche dal sospetto che i colleghi del magistrato siano indotti a favorirne il parente, pur quando il magistrato non vi abbia a che fare.
D’altra parte, in tema di conferimento di incarichi direttivi e semi-direttivi, convergono a definire la fattispecie non solo le aspettative di progressione di carriera ma anche esigenze sottese al principio costituzionale di competenza, il quale esige che, in linea di principio e salvo ragioni ostative specifiche e adeguatamente comprovate, debba essere il magistrato più idoneo tra quelli aspiranti a ricoprire l’incarico, nell’interesse stesso dell’amministrazione della giustizia.
E ciò vale non soltanto per una magistratura, come quella ordinaria, in cui la progressione in carriera avviene, nell’ambito di una procedura concorsuale, con scrutinio comparativo dei meriti, ma anche per la magistratura amministrativa, in cui vige un criterio che privilegia l’anzianità nel ruolo (la cosiddetta anzianità “senza demeriti”).
Anche in quest’ultimo caso, infatti, l’ordinamento esprime una scelta normativa in ordine alla maggiore attitudine all’incarico, che, desunta dall’anzianità di ruolo, informa di sé l’assetto della magistratura amministrativa, al punto che ogni deviazione da essa introduce un elemento di sospetto nella fattispecie, ponendo in dubbio non solo il requisito della competenza, ma anche quello della c.d. indipendenza interna del magistrato nei confronti del proprio organo di autogoverno.
Occorre dunque trovare il giusto punto di equilibrio tra l’applicazione di una causa di incompatibilità ambientale e la nomina alle funzioni direttive secondo criteri di “competenza” - così come qualificati dal singolo ordinamento -, e verificare se le norme in materia lascino spazi di discrezionalità all’Organo di autogoverno, allorché siano disponibili soluzioni organizzative tali da fugare anche solo il ragionevole sospetto di inquinamento della funzione giurisdizionale.
Il problema si pone in particolar modo nel caso di preposizione del magistrato ad ufficio direttivo mono-sezionale.
Si contrappongono qui due tesi, che sono state alternativamente “sposate”, nel caso in commento, dai Giudici di primo e secondo grado.
Da un lato, vi è la tesi secondo cui l’art. 18 dell’ordinamento giudiziario, nella parte in cui stabilisce che “i magistrati preposti alla direzione di uffici giudicanti sono sempre in situazione di incompatibilità di sede ove un parente o affine eserciti la professione forense presso l'Ufficio dagli stessi diretto, salvo valutazione caso per caso per i Tribunali ordinari organizzati con una pluralità di sezioni per ciascun settore di attività civile e penale” (comma 4) recherebbe un divieto assoluto di preposizione del magistrato ad ufficio direttivo mono-sezionale nella sede in cui il suo parente o affine avvocato esercita la professione, a prescindere dalla diversità del campo di azione dei due.
Si tratterebbe, secondo questa impostazione, di una presunzione assoluta di incompatibilità che opera per categorie e che astrae dalla necessità di un concreto conflitto di interessi, e di conseguenza non prevede né ammette prove contrarie.
Sotto altro versante, si pone la tesi secondo cui sia un'interpretazione logica della norma, sia l’eventuale incostituzionalità per manifesta irragionevolezza di un’applicazione meccanica dell’art. 18, comma 4 dell’ordinamento giudiziario alla magistratura amministrativa, deporrebbero per la permanenza anche in questi casi di un potere discrezionale del CPGA di rilevare in concreto la causa di incompatibilità, nei limiti di un accertamento, motivato e procedimentalizzato, della sussistenza di un pregiudizio non rimovibile all’imparzialità della funzione giurisdizionale
Si potrebbe dire, partendo dalle ultime vicende interne che hanno contribuito a “sporcare” l’immagine della magistratura italiana, che il problema non sta tanto nel rispetto di astratte formule di principio, quanto nella eccessiva libertà e autoreferenzialità del potere giudiziario.
E’ facile tuttavia obiettare a questo argomento che la conservazione o l'irrigidimento in via interpretativa di alcune regole di “etichetta” e di giusta equidistanza, quantomeno apparente, tra una posizione di “forza decisionale” e un numero indefinito di posizioni di “aspettativa di giustizia”, elide in modo efficace un primo e facile argomento di contestazione della legittimità e autorevolezza del potere esercitato, e certamente contribuisce, quanto meno, a non indebolire ulteriormente la fiducia del cittadino nella giustizia.
COMMENTO
a cura di Federico Smerchinich
Il fatto e la decisione del TAR Lazio
Nel 2019 un magistrato amministrativo si candida al ruolo di Presidente del TAR Marche ed in subordine a quello di Presidente in una sezione del TAR Lazio. In sede di presentazione della domanda dichiara, altresì, che la propria figlia svolge la professione forense nel circondario del capoluogo marchigiano con alcune cause patrocinate anche davanti al Tribunale Amministrativo di Ancona, ma che la stessa si sarebbe impegnata a rinunciare allo svolgimento della professione avanti a detto TAR qualora il genitore fosse stato nominato Presidente e per tutta la durata dell'incarico.
Svolta l’istruttoria, il Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa (CPGA), ponendo l’attenzione sull’esistenza di un’unica sezione presso il TAR Marche, ha ritenuto incompatibile il magistrato genitore dell’avvocato con il ruolo di Presidente di detto TAR.
E così, il magistrato ritenuto incompatibile per il tribunale marchigiano ha proposto ricorso impugnando il decreto di nomina di un suo collega come Presidente del TAR Marche e la delibera della Commissione del CPGA che avevano rilevato la sua incompatibilità.
Il TAR Lazio, dopo aver superato alcune questioni di rito, ha ritenuto il ricorso fondato, prendendo le mosse dal concetto di imparzialità ed indipendenza del giudice calato in una situazione concreta e non astratta. In particolare, richiamando gli articoli 18 e 19 r.d. 12/1942, in ossequio al disposto dell’art. 28 l. n. 186/1982, ha rilevato come ogni magistrato, ordinario od amministrativo, debba necessariamente e per Costituzione svolgere il proprio ruolo con imparzialità ed indipendenza, e che l’ordinamento appresta alcuni strumenti per tutelare tali prerogative: l’astensione, la ricusazione e l’incompatibilità.
Tuttavia, ed è per tale aspetto che la pronuncia assume interesse, la tutela dell’imparzialità ed indipendenza giurisdizionale non sarebbe da valutarsi in astratto, ma dovrebbe essere vagliata alla luce delle risultanze che caratterizzano la fattispecie concreta posta all’attenzione della Commissione consiliare prima e del TAR poi. In altre parole, per il giudice romano, non bisogna partire dal pregiudizio per cui l’esistenza di un rapporto parentale tra giudice ed avvocato possa comportare sempre e necessariamente uno sviamento o un indebolimento dell’imparzialità del magistrato.
In tal senso, a parere del TAR Lazio, sembrerebbe muovere anche la formulazione dell’art. 18 citato, il quale prevedrebbe comunque due casi di incompatibilità rigida o assorbente (commi 3 e 4 della norma): quella dei Tribunali ordinari monosezione e quella del ruolo di direzione degli uffici giudicanti in assenza di plurime sezioni civili o penali. Negli altri casi, è l’organo di autogoverno, nella sua discrezionalità, a dover vagliare la possibilità o meno di "sanzionare" la sussistenza dell'incompatibilità in concreto, secondo gli indicatori di cui all’art. 18 citato comma 2.
Traslando il tema giuridico nel caso di specie, il TAR rileva che il fatto che il Tribunale amministrativo marchigiano abbia un’unica sezione possa essere superato dall’impegno dell’avvocato (figlio) di rinunciare ai mandati aventi ad oggetto il patrocinio in tale sede, esercitando peraltro tale legale la propria attività prevalentemente nei settori del diritto civile e del lavoro. Assumerebbe, invece, rilievo ostativo, almeno in astratto, la limitazione dovuta al ruolo direttivo dell’ufficio giudicante, considerando il dato letterale della norma che renderebbe l’incompatibilità apparentemente insuperabile in caso di assenza di plurime sezioni (come appunto nel caso del TAR Marche). Ricorda, infatti, il TAR decidente che la ratio della norma è di valorizzare la circostanza per cui, nei Tribunali con diverse sezioni organizzate per materie, il diverso numero di uffici consentirebbe di diluire l’influsso che il rapporto parentale potrebbe avere sul giudicante. Diluizione, invece, difficile da prefigurare laddove unico sia l’ufficio giudicante e dove per forza di cose gli atti dell’avvocato figlio transiterebbero per l’ufficio del giudicante genitore.
A tal punto della sua argomentazione, tuttavia, il TAR ritiene che ci siano margini per valicare in concreto i limiti posti dall’art. 18 commi 3 e 4, considerando che essi pongono un divieto solo relativo (e non assolutamente vincolante). E così, è possibile superare la tesi del controinteressato, che valorizza la vincolatività della scelta in caso di nomina a TAR con unica sezione, ed il dato letterale della disposizione, che usa la parola “sempre”, rilevando che la norma che pure si riferisce letteralmente ai soli tribunali civili e penali (non a quelli amministrativi) non introduce vincoli irremovibili, bensì lascerebbe uno spazio di discrezionalità all’organo di autogoverno. Infatti, altrimenti ragionando, e dunque volendo vedere un automatismo legale nella norma, l’art. 18 sarebbe secondo il giudice di primo grado da ritenere incostituzionale in parte qua.
Al contrario, a parere del TAR Lazio, permarrebbe (sempre) per il CPGA un potere discrezionale, che avrebbe consentito, nel caso di specie, ad esempio, di valorizzare la dichiarazione dell’avvocato figlio di rinunciare ai patrocini avanti al TAR Marche, e di evitare così il rischio di "intercettare" il potere giudicante del genitore. Proprio detta dichiarazione cancellerebbe qualsiasi nesso parentale che in potenza potrebbe pregiudicare l’imparzialità decisionale.
E così, dopo aver ritagliato uno spazio residuale per l’esercizio del potere da parte del CPGA, il TAR rileva un difetto di istruttoria e di motivazione da parte della competente Commissione, che non avrebbe svolto un’indagine adeguata a verificare la portata della dichiarazione dell’avvocato figlio di rinunciare alla propria attività davanti al TAR Marche, alle 9 cause ivi pendenti e comunque all’attività anche stragiudiziale che in qualche modo possa influire su questioni amministrative avanti a detto organo giudicante. L’esito di questa istruttoria avrebbe dovuto necessariamente confluire in una motivazione rafforzata che ricostruisse i lavori della Commissione consiliare, andando a dimostrare la presenza o l’assenza delle cause che in concreto avrebbero reso incompatibile la nomina del ricorrente alla carica di Presidente del TAR Marche.
Accogliendo, perciò, il ricorso, in virtù di un’interpretazione estensiva e costituzionalmente orientata della norma, il TAR Lazio ha ordinato alla Commissione consiliare di istruire nuovamente il procedimento al fine di vagliare con adeguata istruttoria tutti i profili inerenti al ruolo dell’avvocato figlio, e alla sua rinuncia a quella parte dell’esercizio della professione che avrebbe potuto “incrociare” l’operato del genitore giudicante direttore dell’ufficio, al fine di verificarne la portata in concreto in termini di effettiva incompatibilità.
L’appello al Consiglio di Stato e la decisione
Come prevedibile, il CPGA ha proposto ricorso in appello al Consiglio di Stato per la riforma della sentenza del TAR Lazio che aveva accolto il gravame del magistrato amministrativo.
Il Consiglio di Stato, dopo aver previamente trattato alcune questioni preliminari, si concentra sul motivo cardine dell’intera vicenda inerente alla corretta applicazione dell’art. 18, riformando la sentenza di primo grado ed accogliendo la tesi dell’appellante, secondo cui la ratio dell’incompatibilità prevista da detta norma sarebbe quella di garantire l’assenza in astratto (e non in concreto) di condizionamenti di matrice parentale. In tal modo, verrebbe superata la tesi del TAR Lazio, che aveva rilevato una scriminante nella dichiarazione dell’avvocato figlio di dismettere i mandati e di rinunciare a quella parte di professione interferente con il ruolo del genitore.
In particolare, il giudice di secondo grado ritiene di non attribuire alla dichiarazione atipica e privata da parte dell’avvocato figlio quel valore di presunzione di superamento dell’incompatibilità attribuitole dal giudice di prime cure. Ed infatti, ricostruendo il dato normativo, il Consiglio di Stato afferma che i commi 3 e 4 dell’art. 18 r.d. n. 12/1942 introducono (sempre) dei limiti alla discrezionalità dell’organo di autogoverno della giustizia amministrativa, presupponendo iuris et de jure l’incompatibilità nel caso di TAR con monosezione, e nel caso di ruoli di direzione di uffici che non siano suddivisi in sezioni per il civile ed il penale.
Il Consiglio di Stato, in altre parole, ha rilevato una presunzione assoluta di incompatibilità nel caso di nomina del genitore a Presidente di TAR con unica sezione, senza che alcuna dichiarazione proveniente dall’avvocato figlio, di astenersi dalle attività interferenti con il diritto amministrativo ed ruolo del genitore, possa rimuovere lo stato di incompatibilità voluto dalla legge a tutela, secondo il parere del Giudice di appello, non solo della sostanza ma anche dell’apparenza dell’imparzialità e terzietà del giudice, a salvaguardia della “tranquilla fiducia" dei cittadini nella giustizia.
Ciò considerato, la sentenza di primo grado è stata riformata con assorbimento degli altri motivi inerenti all’istruttoria e alla motivazione, motivazione che, alla luce dell’interpretazione dell’art. 18 commi 3 e 4 citato fatta dal Consiglio di Stato, è stata ritenuta congrua rispetto al caso di specie.
Osservazioni conclusive
Non è facile dire quale delle due decisioni sia più giusta per il caso concreto, ma sicuramente si possono mettere in luce alcuni punti di forza e dei dubbi che scaturiscono dalle due sentenze.
Iniziando dalla decisione del TAR Lazio è sicuramente apprezzabile la volontà del giudice di premiare una valutazione caso per caso, sanzionando la scelta della Commissione consiliare di non adeguatamente istruire il procedimento alla luce dei dati fattuali attinenti al caso concreto. Risulta particolarmente interessante la scelta di evitare ogni automatismo legale che tolga potere discrezionale all’organo di autogoverno, valorizzando l’argomento per cui è errato parlare di incompatibilità in astratto quando la stessa riguardi situazioni “superabili”, come avrebbe potuto essere in questo caso, attraverso una dichiarazione di uno dei soggetti che è causa di quella incompatibilità. Al riguardo, è importante osservare che viene fatto un bilanciamento, per nulla scontato, tra il diritto del genitore a perseguire la propria carriera e il diritto del figlio di scegliere di rinunciare a parte della propria professione per evitare il configurarsi della incompatibilità, facendo prevalere l’effetto della scelta in concreto rispetto ad un limite astratto, e di fatto valorizzando l’intrinseca serietà della magistratura e dell’avvocatura, e l’esistenza di altri strumenti di tutela dalle interferenze (come sono, ad esempio, la ricusazione e l'astensione).
Il dubbio che lascia questa decisione è che, però, sembra far dire alla norma più di quanto in realtà la stessa non dica. L’art. 18, commi 3 e 4, prevede effettivamente due casi di incompatibilità si potrebbe dire assoluta, tramite l’uso, in entrambi i commi, dell’avverbio “sempre”, nel caso di Tribunali monosezionali o di copertura di ruoli dirigenziali in uffici non suddivisi al loro interno in sezioni. Queste norme sono pensate per la magistratura ordinaria, dove certamente l’apparato organizzativo degli uffici è diverso, considerando le molteplici sottomaterie che fanno capo al diritto civile e al diritto penale, ma sono applicabili, quanto meno per la loro ratio, anche alla giustizia amministrativa, in virtù dell’art. 28 l. n. 186/1982. E la norma sembra proprio voler evitare che si creino situazioni di apparente mancanza di imparzialità dovuta alla poca “distanza” tra il ruolo ricoperto da persone imparentate.
Ed infatti, la decisione del Consiglio di Stato trova il suo punto di forza proprio sul significato letterale, oltre che teleologico, della disposizione di legge, valorizzando l’argomento per cui la serietà della giurisdizione, la fiducia dei cittadini e dell’organo giudicante fanno leva non solo su dati concreti, ma soprattutto sull’assenza in astratto di ogni possibile interferenza parentale che possa anche solo far sorgere il dubbio di una possibile mancanza di obiettività. In altre parole, l’imparzialità è garantita quando non c’è neanche in potenza alcuna possibilità di criticare una decisione del giudice per una presunta interferenza parentale.
Il dubbio che lascia questa decisione del Consiglio di Stato è che parrebbe essere forse troppo rigorosa rispetto al caso di specie, svalutando la dichiarazione (ritenuta atipica e privata) dell’avvocato figlio di rinunciare a svolgere parte della propria professione e di dismettere i mandati avanti al TAR Marche, anche in considerazione dell'esistenza di altri precedenti che aprirebbero ad interpretazioni meno restrittive. In altre parole, il Consiglio di Stato sembra affermare che la dichiarazione di un soggetto, peraltro un legale, non avrebbe il potere di vincere la presunzione, ritenuta assoluta, di incompatibilità nel caso di Tribunali monosezionali in cui il parente svolge il ruolo direttivo.
Come visto, entrambe le decisioni si basano su argomenti sostenibili ma diametralmente opposti, discostandosi per il valore di assolutezza o relatività dato all’art. 18 commi 3 e 4 del r.d. n. 12/142.
De iure condendo, non sarebbe una cattiva idea l’introduzione di una disciplina legislativa ad hoc dettata per le incompatibilità che si possono creare nell’ambito della giustizia amministrativa, data anche la sua peculiarità e la spiccata specializzazione delle cause che si svolgono dinanzi ad essa, e che lasci spazio ad una seppure minima discrezionalità dell’organo di autogoverno, non eliminando a priori la possibilità di valorizzare la dichiarazione del figlio avvocato e l’impegno deontologico e professionale dallo stesso assunto, così da evitare di ritenere aprioristicamente che il rapporto genitore (giudicante) - figlio (avvocato) sia pregiudizievole al buon andamento della giustizia, anche quando non vi sia nessuna possibilità, nemmeno astratta, di interferenza tra le due attività.
Tuttavia, de iure condito, il dato letterale dell’art. 18, commi 3 e 4, non pare lasciare margini alla discrezionalità in casi come quello di specie, quasi che la ratio sia di evitare le “male lingue” che potrebbero ruotare attorno ad un Tribunale e all’operato dei suoi giudici e avvocati, qualora vi sia anche solo in potenza il rischio di un rapporto parentale troppo stretto tra giudicante ed avvocato. Quindi la decisione del Consiglio di Stato sembra la più rispettosa del diritto positivo, seppure implichi di fatto una dequotazione della dichiarazione fatta dall’avvocato figlio e del suo impegno all’astensione, ed una svalutazione oggettiva del principio di lealtà deontologica che deve sempre guidare il ruolo dell’avvocato, e dell’aspettativa di serietà riposta dall’ordinamento nel magistrato, sacrificati in nome di una più ampia e forse sfuggente - anche se imprescindibile nell'attuale momento storico - nozione di credibilità della giustizia nel suo insieme.
Detto ciò, è comunque evidente che la decisione più "garantista" assunta dal Consiglio di Stato nel caso concreto eviterà problemi di ogni futura contestazione dovuta ad interferenze parentali nell’ambito della giurisdizione del TAR Marche, cosa che non sarebbe stata scontata se il CPGA, tornando sui propri passi a seguito della decisione del TAR Lazio, avesse cambiato infine decisione.