IL CASO
Il dott. Piercamillo Davigo, eletto nell’anno 2018 Consigliere del Consiglio Superiore della Magistratura (C.S.M.), con ricorso al T.A.R. del Lazio, ha impugnato la delibera del C.S.M. del 19 ottobre 2020 con la quale si è dichiarata la cessazione del medesimo dalla carica di membro togato del Consiglio Superiore della Magistratura a seguito di collocamento a riposo per raggiunti limiti di età. Il T.A.R. del Lazio, con sentenza n. 11814, depositata il 13 novembre 2020, confermata in grado di appello, ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione del giudice adito, indicando, quale giudice munito di giurisdizione, il giudice ordinario, dinanzi al quale la causa può ora essere riproposta ai sensi dell’art. 11 cod. proc. amm...
LA DECISIONE IN RITO
Il quesito pregiudiziale, risolto dal T.A.R. con la condivisione del Consiglio di Stato, verteva sul se la determinazione assunta dal Consiglio Superiore della Magistratura, con cui si è dichiarata la cessazione dalla carica del dott. Piercamillo Davigo, consistesse in un vero e proprio provvedimento amministrativo ovvero in un mero atto paritetico con funzione di vincolato accertamento di un effetto decadenziale discendente dal dettato normativo.
Seguendo la prima ipotesi vi sarebbe l’esercizio di un potere autoritativo con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo, mentre nell’opposta ricostruzione, trattandosi di un mero atto ricognitivo incidente sulla pretesa, avente la consistenza di diritto soggettivo, alla continuazione nel munus elettivo, la giurisdizione spetterebbe al giudice ordinario.
Il T.A.R. ha optato per la seconda soluzione ritenendo che nella fattispecie la giurisdizione del giudice amministrativo fosse da escludere, non essendo stato dispiegato da parte del C.S.M. alcun potere autoritativo nei confronti del ricorrente, trattandosi invece di una mera attività di verifica, conclusasi con l’accertamento che il dott. Davigo non sia più in possesso del prerequisito necessario per mantenere la carica, costituito dall’appartenenza all’ordine giudiziario.
Il T.A.R. ha peraltro individuato l’oggetto immediato del giudizio nella pretesa del ricorrente a permanere, in base all’ art. 104, sesto comma, della Costituzione, nelle funzioni di membro effettivo del C.S.M., per gli interi quattro anni del mandato, indipendentemente dal collocamento a riposo a partire dal 21 ottobre 2020, dunque indipendentemente dalla permanenza dello status di magistrato. Tale pretesa, come anche osservato dal giudice di appello, in quanto esplicazione di “diritti soggettivi di elettorato passivo” originati dal risultato elettorale e consistenti nel diritto alla acquisizione e nel diritto alla conservazione dello status elettivo, costituisce un diritto soggettivo perfetto, che non è sottratto alla giurisdizione ordinaria per il solo fatto che sia stato dedotto in giudizio mercé l’impugnazione di un apparente provvedimento amministrativo.
LA QUESTIONE DI MERITO
Risolta definitivamente in tali termini la questione di giurisdizione, al giudice ordinario, presso il quale il giudizio potrà essere proseguito, spetterà dunque risolvere il merito della lite, giudicando la fondatezza della pretesa del dott. Davigo come sopra delineata.
Anche tale questione di merito, afferente al tema degli effetti del collocamento a riposo sul mantenimento del mandato consiliare, non è di minore interesse, scontrandosi su di essa due opposte ed entrambe plausibili tesi: quella del ricorrente secondo cui il C.S.M. avrebbe errato nel ritenere che, al venir meno dell’appartenenza all’ordine giudiziario per sopraggiunto pensionamento, consegua l’automatica cessazione dall’incarico di consigliere, essendo la durata di tale carica fissata comunque in quattro anni dall’ art. 104, sesto comma, della Costituzione; e la tesi del C.S.M., secondo cui l’appartenenza all’ordine giudiziario costituisce un prerequisito, non solo per l’esercizio del diritto di elettorato passivo (e attivo) ma anche per il mantenimento della carica per tutto il quadriennio.
E’ tuttavia indubitabile che l’accoglimento della prima tesi comporterebbe la creazione di una ulteriore categoria di componenti del C.S.M. non riconducibile ad alcuna di quelle indicate dall’art. 104 della Costituzione, ovvero di magistrati che essendo stati collocati in pensione, non potrebbero più rappresentare l’ordine giudiziario, e nemmeno i cittadini, non essendo stati eletti dal Parlamento. Invece, la Costituzione ha stabilito una precisa composizione del C.S.M. stabilendo che i suoi componenti (oltre a quelli “di diritto” ovvero il primo presidente e il procuratore generale della Cassazione) siano costituiti per i due terzi da magistrati, ossia da coloro che amministrano la giustizia e che per primi sono chiamati (e hanno interesse) a garantire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, e per un terzo da professori di diritto o avvocati eletti dal Parlamento in seduta comune, che rappresentano i cittadini, ossia quel “popolo” nel cui nome viene amministrata la giustizia e da cui essa trae la propria legittimazione; senza che si possa ricavare uno spazio per componenti che possano divenire portatori di interessi di altra natura, la cui presenza altererebbe la proporzione tra componente laica e componente togata stabilita dalla Costituzione.
Anche la necessità di evitare una tale distorsione indurrebbe a riferire la durata quadriennale della carica stabilita dal sesto comma dell’art. 104 della Costituzione (“i membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni…”) genericamente all’organo e non al singolo mandato.
A differenza invece di quanto accade per i giudici costituzionali, per i quali l’art. 135, terzo comma, della Costituzione (“I giudici della Corte costituzionale sono nominati per nove anni, decorrenti per ciascuno di essi dal giorno del giuramento…”), nel prevedere la durata del mandato, fa decorrere espressamente, per singolo giudice, i nove anni dal giorno di ciascun giuramento, senza stabilire una durata complessiva dell’organo, ma invece che (quarto comma): “Alla scadenza del termine il giudice costituzionale cessa dalla carica e dall’esercizio delle funzioni”. Dunque è chiaro che in tal caso vi è la previsione di una durata esplicitamente riferita al singolo mandato e il collocamento in quiescenza di un magistrato nominato componente della Corte Costituzionale non può incidere sul mandato dello stesso; qui dunque l’appartenenza all’ordine giudiziario, peraltro espressamente estesa anche ai magistrati a riposo, è chiaramente requisito di eleggibilità ma non di permanenza nella titolarità dell’ufficio. La ratio, infatti, non è quella legata alla costituzione di un organo di autogoverno, bensì quella legata alla creazione di un organo con funzioni giurisdizionali, super partes, neutrale e imparziale, svincolato da qualsiasi interesse, ivi compresi quelli della magistratura. Sarebbe dunque giustificata una diversità di effetti del sopraggiunto collocamento a riposo sul mantenimento della carica a seconda che esso riguardi componenti del C.S.M. oppure componenti della Corte Costituzionale.
Da queste brevi e sommarie osservazioni si ricava che comunque la questione di merito, rimasta ancora in sospeso, non si presenti di agevole e scontata soluzione.