IL CASO
Il gestore di un residence “patteggia” la pena di un anno e quattro mesi per l'appropriazione di somme di danaro corrispondenti all'imposta di soggiorno pagata dai suoi clienti, avendo incassate definitivamente tali somme, invece di riservarle all'amministrazione comunale competente a riscuotere il tributo.
La sentenza viene impugnata per asserita erronea qualificazione giuridica del fatto di reato da parte del GIP, in quanto l'appropriazione temporanea di una somma di denaro integrerebbe in astratto la meno grave ipotesi di illecito penale del peculato d'uso di cui all'art. 314 c.p., comma 2.
LA SOLUZIONE
La Corte di Cassazione agisce nell’ambito delle sue ordinarie funzioni (giudice di legittimità), per un verso, e da giudice di cognizione, per altro verso, in quanto nelle more della trattazione del ricorso, differita per effetto dell'emergenza epidemica da Covid-19, è intervenuto a modificare la disciplina del versamento dell'imposta di soggiorno da parte dei gestori delle strutture alberghiere e ricettive il D.L. 19 maggio 2020, n. 34, art. 180, convertito nella L. 20 luglio 2020, n. 77.
Si tratta di vicenda normativa incidente sull'inquadramento giuridico del fatto oggetto di contestazione, che deve essere esaminata dal giudice di legittimità ai sensi dell’art. 609 c.p.p., comma 2.
Sotto il profilo della qualificazione giuridica, la Corte ribadisce la correttezza della decisione del GIP, in quanto costituisce principio consolidato che il peculato d'uso non è mai configurabile rispetto all’appropriazione di somme di denaro (come avvenuto nel caso di specie), dal momento che la sua natura fungibile non consente dopo l'uso la restituzione della stessa cosa, ma solo del tantundem, irrilevante ai fini dell'integrazione della ipotesi attenuata.
Sotto il profilo delle modifiche apportate alla fattispecie di reato contestato, dalla novella legislativa che ha stabilito l'inserimento del comma 1-ter nell’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2011, il gestore della struttura viene oggi a essere individuato quale responsabile del pagamento dell'imposta (figura prevista e definita dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 64), e sottoposto alle sanzioni amministrative derivanti dal mancato versamento della stessa, mentre in precedenza operava da ausiliario dell'ente locale nella riscossione del tributo e nel maneggiare pubblico denaro, fungendo da agente contabile con obbligo di rendiconto.
Prima della recente modifica normativa, in altri termini, si riteneva la sussistenza del delitto di peculato sull'assunto che integrasse il reato la condotta posta in essere dal gestore della struttura ricettiva che si era appropriato delle somme riscosse a titolo di imposta di soggiorno omettendo di riversarle al Comune, poiché lo svolgimento dell'attività ausiliaria di responsabile della riscossione e del versamento, strumentale all'esecuzione dell'obbligazione tributaria intercorrente tra l'ente impositore e il cliente della struttura, determinava l'attribuzione della qualifica di incaricato di pubblico servizio al soggetto privato a cui era demandata la materiale riscossione dell'imposta.
La Corte ha ricordato, sul punto, l’orientamento giurisprudenziale secondo cui la qualità di incaricato di pubblico servizio era ritenuta sussistente in capo al gestore della struttura ricettiva residenziale, anche in assenza di preventivo specifico incarico da parte della pubblica amministrazione, trattandosi di agente contabile e non di un sostituto di imposta, incaricato dell'espletamento di un'attività ausiliaria nei confronti dell'ente impositore ed oggettivamente strumentale all'esecuzione dell'obbligazione tributaria intercorrente in via esclusiva tra il Comune ed il soggetto alloggiante nella struttura ricettiva.
Altro principio condiviso dalla giurisprudenza di legittimità, e richiamato nel caso di specie dagli Ermellini, era che ogni imputazione delle somme riscosse dai contribuenti alla copertura di voci di altra natura, esulanti dal fine pubblico per il quale erano state versate e ricevute, integrasse la condotta appropriativa di cui all'art. 314 c.p., dal momento che il denaro entrava, prima della recente modifica normativa, nella disponibilità della pubblica amministrazione nel momento stesso dell'incasso dell'imposta di soggiorno da parte del gestore.
In estrema sintesi, secondo l’interpretazione fornita dalla Corte, prima della novella del 2020 il gestore raccoglieva e custodiva il denaro (pubblico) versato dai clienti a titolo di imposta di soggiorno per poi riversarlo all'ente titolare della riscossione, mentre oggi deve versare il tributo a prescindere dal pagamento ad opera degli ospiti della struttura ricettiva, sui quali può esercitare diritto di rivalsa secondo modalità tipiche della figura del responsabile d'imposta di cui all'art. 64 TUIR.
Secondo i Giudici di ultimo grado, peraltro, la modifica del quadro di riferimento normativo di natura extra-penale che regola il versamento dell'imposta di soggiorno non ha comportato un fenomeno di abolitio criminis, poiché tale effetto si determina solo quando la modifica riguardi norme realmente integratrici della legge penale, come quelle di riempimento di norme penali in bianco o le norme definitorie, ma non anche le norme richiamate da elementi normativi della fattispecie penale, come quelle su cui ha inciso la vicenda normativa esaminata.
Il ricorso avverso la sentenza di applicazione della pena emessa dal GIP è stato dunque dichiarato inammissibile.
IL REATO
1. Secondo l’art. 2, comma 2 del codice penale “nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato”.
Si tratta di uno dei principi fondamentali del fenomeno giuridico denominato “successione di leggi penali nel tempo”.
Se una persona ha commesso un fatto che al momento della sua commissione era un reato, ma che successivamente il legislatore ritiene di non dovere punire più (magari nell’ambito di un processo di “depenalizzazione”), il soggetto incolpato, imputato o anche condannato per quel fatto non deve subire (o non deve più subire) le conseguenze pregiudizievoli connesse all’irrogazione della sanzione penale, che è tipicamente e ordinariamente più afflittiva di ogni altra sanzione prevista dall’ordinamento.
2. Il peculato differisce dall’appropriazione indebita per la qualifica rivestita dal soggetto che si appropria del denaro o di altra cosa mobile altrui, dal motivo del possesso di tali beni e dalle finalità dell’agente.
Un soggetto che sia pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio commette peculato a prescindere dal fatto di volere procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, se si è appropriato di una cosa mobile che possedeva per ragione del suo ufficio o servizio. Basta l’appropriazione.
Si tratta di un reato contro il buon andamento, l’imparzialità e l’efficienza della pubblica amministrazione, e in virtù della natura collettiva del bene giuridico tutelato è perseguibile di ufficio, mentre l’appropriazione indebita lo è a querela di parte, fatta eccezione per alcune ipotesi particolari e/o più gravi.
Nel caso esaminato in sentenza, il titolare della struttura ricettivo–alberghiera, prima della modifica normativa, se si fosse appropriato delle somme riscosse a titolo di imposta di soggiorno dal cliente, avrebbe commesso il reato di peculato, perché il suo ruolo era giuridicamente equiparato a quello di incaricato di pubblico servizio.
Una volta però che la legislazione speciale che regola il tributo lo ha trasformato in un responsabile di imposta, il titolare della struttura ricettivo-alberghiera ha contestualmente perso anche la qualifica suddetta.
E, non essendo più qualificabile alla stregua di un incaricato di pubblico servizio, se si appropria delle somme riscosse a titolo di imposta di soggiorno, non commette più il reato di peculato.
Si può però dire che chi ha commesso il fatto di reato prima della modifica normativa deve adesso andare esente da pena?
Occorre innanzitutto chiarire che, ai fini della successione di norme penali nel tempo, per fatto di reato si intende non la situazione di fatto che fa da presupposto alla norma penale, ma la fattispecie strutturale e astratta del reato commesso.
In altri termini, l'accertamento dell'effettiva esistenza di una vicenda normativa di abolitio criminis si effettua in base ad un criterio strutturale, secondo il principio per cui in caso di modifica della norma incriminatrice, per accertare se quel fatto di reato sia stato depenalizzato oppure no è sufficiente procedere al confronto strutturale tra le fattispecie legali astratte che si succedono nel tempo, senza la necessità di ricercare conferme della eventuale continuità tra le stesse facendo ricorso ai criteri valutativi dei beni tutelati e delle modalità di offesa, atteso che tale confronto permette in maniera autonoma di verificare se l'intervento legislativo posteriore assuma carattere demolitorio di un elemento costitutivo del fatto tipico, alterando così radicalmente la figura di reato ovvero, non incidendo sulla struttura della stessa, ne consenta la sopravvivenza di un eventuale spazio di applicazione.
Nel caso di successioni di norme cosiddette extrapenali – poiché poste all’esterno della fattispecie tipica -, che pure si collocano in rapporto di interferenza applicativa, come nella vicenda esaminata, sia con la norma che definisce la qualifica soggettiva dell'agente (art. 358 c.p.) che con quella che stabilisce la struttura del reato (art. 314 c.p.), occorre verificare se tuttavia gli elementi fondamentali della condotta incisi implicitamente dalla modifica normativa restino tuttavia inalterati.
Nella vicenda della nuova qualificazione giuridica assunta dal titolare di una struttura alberghiera, in rapporto alla riscossione dell’imposta di soggiorno, ci si trova dinanzi ad un mutamento della situazione di fatto – connesso alla intervenuta modificazione normativa – che però non elide o attenua il disvalore del fatto, anche a seguito del mutato quadro normativo di riferimento.
La condotta appropriativa – disfuzionale rispetto all’interesse tributario tutelato dalla norma – resta, a prescindere dalla circostanza che per quella determinata condotta il titolare della struttura alberghiera non sarà più penalmente punito in futuro.
La medesima conclusione era stata peraltro raggiunta dalla
Corte di legittimità, nella paradigmatica pronuncia a sezioni unite n. 2451 del 27/09/2007, in tema di persistente punibilità dei cittadini romeni espulsi ed autori del reato di inosservanza dell'ordine di allontanamento dallo Stato impartito dal Questore ai sensi del d.lgs. n. 298 del 2012, art. 14, comma 5 ter, pur dopo l'adesione della Romania all'Unione Europea e la perdita dello status di extracomunitari.