Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 24 gennaio 2022 - Ricorso n. 11791/20
IL CASO E LA DECISIONE
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato lo Stato italiano per la violazione degli articoli 3, 5 e 6 della Convenzione, perpetrata ai danni di un cittadino sottoposto a misure detentive applicate in regime carcerario ordinario, nonostante le decisioni dei giudici - che ne avevano accertato la responsabilità penale - ne avessero disposto il ricovero in una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS).
Nel caso di specie, il ricorrente dinanzi alla CEDU ha contestato il suo mantenimento illegale in regime carcerario ordinario e l’inadeguatezza delle sue condizioni di detenzione, che si erano accompagnate alla carenza di un trattamento adeguato ai suoi disturbi psichiatrici.
La vicenda giudiziaria interna era nata nel 2017, quando al ricorrente, affetto da un disturbo di personalità e da un disturbo bipolare, con stato mentale aggravato dall’abuso di sostanze psicoattive, era stata applicata dal GIP di Roma la misura cautelare degli arresti domiciliari, in relazione all’accusa di molestie nei confronti della sua ex-compagna, di resistenza a pubblico ufficiale e di lesioni personali.
Successivamente, il GIP aveva sostituito gli arresti domiciliari con la misura della custodia cautelare in carcere, chiedendo alla direzione sanitaria del carcere di redigere una relazione sullo stato di salute e sulla compatibilità dell’interessato con la detenzione, al fine di valutare la capacità del sistema penitenziario di assicurare al ricorrente la somministrazione delle cure necessarie.
A seguito di una assoluzione per infermità psichica e contestuale applicazione della misura del ricovero in REMS per un periodo di sei mesi, il GIP rilevò che la misura di sicurezza applicata al ricorrente non era mai stata eseguita a causa dell’indisponibilità di posti nelle strutture interessate, e il ricorrente fu rimesso in libertà.
Tuttavia, dopo un nuovo arresto in flagranza per i reati di furto aggravato e resistenza a pubblico ufficiale e il deposito di una perizia psichiatrica volta ad accertare lo stato psicologico dell’interessato al momento dei fatti e la sua pericolosità sociale, il Magistrato di sorveglianza di Roma, con ordinanza del 21 gennaio 2019, accertava che il ricorrente, pur essendo sottoposto a una misura di libertà vigilata presso una comunità terapeutica, concessa nell'ambito del primo procedimento penale, era stato nel frattempo sottoposto a custodia cautelare in carcere il 2 luglio 2018 e non aveva rispettato le condizioni degli arresti domiciliari ordinati dal tribunale di Tivoli.
Di conseguenza, sostituiva la misura della libertà vigilata con l'applicazione immediata della detenzione in REMS per un anno, ritenendo che tale misura fosse l'unica adeguata, tenuto conto della pericolosità sociale del ricorrente.
A partire dal 5 febbraio 2019, così, il DAP chiedeva più volte a diverse REMS del Lazio di accogliere il ricorrente, ricevendo tuttavia riscontri negativi per indisponibilità di posti.
Nel settembre 2019, di conseguenza, il Magistrato di sorveglianza di Roma richiedeva al DAP di verificare le disponibilità di posti presso le REMS site al di fuori della regione Lazio, sottolineando l’urgenza di eseguire la misura di sicurezza e di cura del ricorrente, che nel frattempo era ancora detenuto nel carcere di Rebibbia. Nessuna delle REMS sollecitate dal DAP fu però in grado di accogliere il ricorrente, a causa dell’indisponibilità di posti, sia all’interno che all’esterno della regione.
Nel frattempo, con sentenza del 20 maggio 2019, depositata il 10 giugno 2019, la Corte d’appello di Roma, adita dal ricorrente, aveva ridotto la pena comminata in primo grado al ricorrente, revocato la misura della custodia cautelare in carcere e ordinato la sua rimessione in libertà.
Il ricorrente, peraltro, restò detenuto a Rebibbia.
Il 18 novembre 2019, l’interessato chiese al Magistrato di sorveglianza di Roma di rivalutare la sua pericolosità sociale e la possibilità di seguire un percorso terapeutico in una struttura più adeguata alle sue condizioni di salute.
Al fine di prendere una decisione sulla domanda del ricorrente, il magistrato di sorveglianza chiese allora al servizio sanitario del carcere di Rebibbia e al centro di salute mentale del servizio sanitario locale di consegnargli delle relazioni aggiornate sullo stato di salute dell’interessato e sulle soluzioni terapeutiche praticabili. La relazione del servizio psichiatrico di Rebibbia, in data 29 dicembre 2019, attestava che il ricorrente era in buone condizioni fisiche ed era costantemente seguito dai medici specialisti dell’istituto. La relazione del centro di salute mentale, in data 26 febbraio 2020, sottolineava, invece, la necessità di un percorso terapeutico riabilitativo di tipo residenziale e l’inserimento in comunità anziché in una REMS.
Il 2 marzo 2020, ritenendo insufficienti e contraddittori gli elementi che risultavano dalle due relazioni sopra menzionate, il Magistrato di sorveglianza designò un perito psichiatra per un nuovo esame del ricorrente.
Il 3 marzo 2020 quest’ultimo chiese alla Corte europea dei diritti dell'uomo, ai sensi dell’articolo 39 del suo regolamento, di indicare al Governo delle misure idonee a porre fine alla sua detenzione in carcere; il 26 marzo 2020 il Governo produsse una relazione del servizio di psichiatria di Rebibbia, recante la stessa data, in cui si attestava che il ricorrente era regolarmente seguito da specialisti e aveva raggiunto un certo equilibrio mentale.
Il 7 aprile 2020 la Corte indicò al Governo, ai sensi dell’articolo 39 sopra citato, di assicurare il trasferimento del ricorrente in una REMS o in altra struttura che potesse garantire la presa in carico adeguata, sul piano terapeutico, della patologia psichica del ricorrente.
Il 10 aprile 2020, su richiesta del DAP, il servizio psichiatrico di Rebibbia consegnò una relazione in cui si faceva menzione delle cure prestate in carcere al ricorrente. Tale relazione attestava che quest'ultimo, a partire dal mese di ottobre 2019, dopo essersi sottoposto volentieri alle cure somministrate, aveva raggiunto un certo equilibrio mentale. Inoltre, la relazione indicava che il progetto terapeutico e riabilitativo elaborato per il ricorrente aveva compreso visite regolari dello psichiatra curante ai fini del monitoraggio della terapia farmacologica, incontri con lo psicologo del servizio per le dipendenze patologiche e la partecipazione ad attività sportive. Nella relazione si precisava che il 28 ottobre 2019 e il 26 febbraio 2020 i referenti dei servizi sanitari locali si erano riuniti per stabilire un programma terapeutico e individuare una struttura di accoglienza extramuraria.
Il 15 aprile 2020 il rappresentante del ricorrente informava la Corte che il suo cliente era ancora detenuto in carcere e che la lettera inviata alle autorità italiane per chiedere il trasferimento nella comunità terapeutica disponibile ad accoglierlo (Santa Maria del Centro Italiano di Solidarietà - CeIS) era rimasta senza risposta.
Il 27 aprile 2020 il Governo comunicò alla Corte di aver informato il Magistrato di sorveglianza di Roma della misura provvisoria indicata dalla Corte, precisando che il potere di modificare la misura del ricovero in REMS mediante l'applicazione di un'altra misura di sicurezza meno severa rientrava nella competenza esclusiva dell'autorità giudiziaria. Per quanto riguarda il trasferimento, poi, il Governo affermò che, nonostante le ripetute richieste, non si era ancora liberato nessun posto nelle REMS.
Nel maggio del 2020 il Magistrato di sorveglianza di Roma riceveva la perizia psichiatrica richiesta, dove veniva attestato che il ricorrente era ancora socialmente pericoloso, anche se in misura minore, in quanto più consapevole della sua malattia. Il perito confermava altresì la necessità per l’interessato di intraprendere un programma di riabilitazione terapeutica di tipo residenziale.
Peraltro, l’11 maggio 2020, il Magistrato di sorveglianza di Roma dichiarò attenuata la pericolosità del ricorrente, revocando la misura della detenzione in REMS, e sostituendola con la misura della libertà vigilata presso la comunità indicata dal perito, dove il ricorrente avrebbe dovuto seguire un trattamento terapeutico individualizzato.
Il 12 maggio 2020 il ricorrente fu trasferito in comunità, dalla quale fuggì il giorno dopo.
Il Magistrato di sorveglianza di Roma dovette a quel punto dichiarare che la pericolosità del ricorrente si era aggravata e applicare nuovamente la misura di sicurezza della detenzione in REMS per una durata non inferiore a un anno.
Il ricorrente fu dunque nuovamente arrestato e condotto, dal 27 luglio del 2020, presso la REMS «Castore» di Subiaco (Roma), dove era stata nel frattempo indicata la disponibilità di un posto.
Dopo avere esaminato la successione cronologica e la portata dei fatti appena descritti, la Corte europea dei diritti dell’Uomo si è così pronunciata, in ordine alle violazioni della Convenzione dedotte in giudizio:
- il mantenimento in stato detentivo in ambiente penitenziario ordinario, nonostante il parere contrario degli psichiatri che lo seguivano, ha impedito al ricorrente di beneficiare di una cura terapeutica adeguata al suo stato di salute mentale, così da aggravare le sue condizioni e da costituire un trattamento inumano e degradante, vietato dall’articolo 3 della Convenzione;
- la privazione della libertà del ricorrente a partire dal 21 maggio 2019 non si è svolta in modo conforme alle esigenze della lettera e) dell’articolo 5 § 1 della Convenzione;
- il ricorrente non ha disposto di alcun mezzo per ottenere, con un grado sufficiente di certezza, riparazione delle violazioni dell'articolo 5 § 1 della Convenzione, con conseguente violazione anche dell’articolo 5 § 5 della Convenzione;
- non essendo stata eseguita la sentenza del 20 maggio 2019 con la quale la corte d'appello di Roma aveva ordinato la rimessione in libertà del ricorrente, e non essendo stato ricoverato costui nel frattempo in REMS, nonostante quanto stabilito dal Magistrato di sorveglianza, la permanenza in carcere è da considerarsi una violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione;
- le autorità interne non si sono conformate entro un termine ragionevole alla misura provvisoria indicata dalla Corte, che consisteva nell'assicurare il trasferimento del ricorrente in una struttura (REMS o di altro tipo) che permettesse di garantire che la sua patologia psichica fosse adeguatamente presa in carico sul piano terapeutico, e tale ritardo nell'applicazione della misura provvisoria non è stato giustificato da circostanze eccezionali, con conseguente violazione dell’art. 34 della Convenzione.
Per questi motivi, la Corte ha condannato lo Stato italiano a versare al ricorrente la somma di euro 36.400 per danno morale e di euro 10.000 per le spese.
LE PRINCIPALI VIOLAZIONI ACCERTATE
L’art. 3 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo prevede che «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.»
La Corte adita ha ritenuto che lo Stato italiano abbia violato, nel caso esaminato, il suddetto principio basilare.
In particolare, dopo avere evidenziato che per rientrare nell'ambito di applicazione di questa disposizione, che sancisce uno dei valori fondamentali delle società democratiche, un maltrattamento deve raggiungere un livello minimo di gravità, e che questo “minimo” dipende dal complesso degli elementi della causa, in particolare dalla durata del trattamento, dai suoi effetti fisici e psicologici nonché, talvolta, dal sesso, dall'età e dallo stato di salute della vittima, la Corte ha ricordato che l’art. 3 della Convenzione impone allo Stato di assicurarsi che tutte le persone ristrette siano detenute in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato a uno stress o a una prova la cui intensità superi il livello inevitabile di sofferenza inerente alla detenzione e che, considerate le esigenze pratiche della carcerazione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati in maniera adeguata, in particolare mediante la somministrazione delle cure mediche richieste.
Per determinare se la detenzione di una persona malata sia conforme all’articolo 3 della Convenzione, occorre prendere in considerazione la salute dell’interessato e l’effetto delle modalità di esecuzione della sua detenzione sulla evoluzione della salute stessa, posto che le condizioni di detenzione non devono in nessun caso sottoporre la persona privata della libertà a sentimenti di paura, angoscia e inferiorità che possano umiliare, svilire e minare eventualmente la sua resistenza fisica e morale.
Al riguardo, è chiaro che i detenuti affetti da disturbi mentali sono più vulnerabili dei comuni detenuti, e che alcune esigenze della vita carceraria li espongono maggiormente a un pericolo per la loro salute, aumentando il rischio che si sentano in situazione di inferiorità, il senso di stress e angoscia normalmente percepiti.
Tale situazione comporta pertanto la necessità di una maggiore attenzione nel controllo del rispetto della Convenzione, soprattutto in relazione al carattere adeguato o meno delle cure e dei trattamenti medici dispensati in carcere.
Il semplice fatto che un detenuto sia stato visitato da un medico e che gli sia stato prescritto un determinato trattamento non può portare a concludere automaticamente che le cure dispensate sono appropriate.
Spetta alle stesse autorità coinvolte, in questo caso, dimostrare di aver creato le condizioni necessarie affinché il trattamento prescritto sia effettivamente seguito, di modo che l'assenza di una strategia terapeutica globale per la cura di un detenuto affetto da disturbi mentali può costituire un «abbandono terapeutico» contrario all'articolo 3.
Ancora, secondo i principi espressi nel tempo dalla Corte europea, qualora non sia possibile curare il detenuto nel luogo di detenzione, è necessario che quest’ultimo possa essere ricoverato o trasferito in un reparto specializzato.
Nel caso in commento, era pacifico che l'interessato soffrisse di crisi psicotiche ricorrenti e che avesse tentato di suicidarsi quando era detenuto; era altresì pacifico che il ricorrente non fosse stato trasferito in un reparto penitenziario psichiatrico nonostante a partire dal 5 febbraio 2019 il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria ne avesse chiesto il trasferimento in REMS.
Al riguardo, la Corte ha dovuto esaminare se lo stato di salute del ricorrente fosse compatibile con la sua detenzione in carcere, in particolare in un reparto comune, e verificare se le cure mediche che gli erano state dispensate fossero sufficienti e appropriate.
Sulla base della documentazione acquisita dalla vicenda processuale “interna” del ricorrente, la Corte ha rilevato che lo stato di salute mentale del ricorrente fosse incompatibile con la detenzione in un reparto carcerario comune e che, nonostante le indicazioni chiare e univoche emergenti da tale documentazione, l'interessato era rimasto detenuto in un reparto comune del carcere per quasi due anni.
Secondo le valutazioni degli specialisti, peraltro, il mantenimento del ricorrente in un reparto comune del carcere era da ritenersi incompatibile con l'articolo 3 della Convenzione, né il ricorrente aveva beneficiato di alcun programma terapeutico articolato adeguato alla sua patologia, finalizzato a porre rimedio ai suoi problemi di salute o a prevenirne l'aggravamento, e tutto ciò in un contesto caratterizzato da cattive condizioni di detenzione.
La Corte europea non ha potuto che ribadire e fare proprie, pertanto, queste valutazioni.
Altra violazione accertata è stata quella di detenzione illegale ai sensi dell’art. 5, paragrafo 1, della Convenzione.
Tale norma mira essenzialmente a proteggere l'individuo contro qualsiasi privazione della libertà arbitraria o ingiustificata ed ha come corollari tre grandi principi.
Innanzitutto, le eccezioni alla privazione della libertà, delle quali esiste un elenco esaustivo, richiedono un'interpretazione stretta e non si prestano alle numerose giustificazioni previste da altre disposizioni.
In secondo luogo, qualsiasi privazione della libertà deve essere anche «regolare», ivi compreso il rispetto dei «modi previsti dalla legge», con cui la Convenzione rinvia essenzialmente alla legislazione nazionale e sancisce l'obbligo di osservarne le norme sostanziali e procedurali.
Sotto altro profilo, peraltro, esigendo che qualsiasi privazione della libertà avvenga «nei modi previsti dalla legge», l'articolo 5 § 1 impone in primo luogo che qualsiasi arresto o detenzione abbia una base legale nel diritto interno, e che la legge in questione sia compatibile con la preminenza del diritto, che è una nozione sottesa a tutti gli articoli della Convenzione. Su quest'ultimo punto, la Corte ha sottolineato che, in materia di privazione della libertà, è particolarmente importante soddisfare il principio generale della certezza del diritto.
Di conseguenza, è fondamentale che il diritto interno indichi chiaramente le condizioni nelle quali una persona può essere privata della libertà, e che la legge stessa sia prevedibile nella sua applicazione, in modo da soddisfare il criterio di «legalità» stabilito dalla Convenzione, ai sensi del quale una legge deve essere sufficientemente precisa per permettere alla persona sottoposta alla giustizia – se necessario avvalendosi del parere di esperti – di prevedere, a un livello ragionevole, tenuto conto delle circostanze della causa, le conseguenze che possono derivare da un determinato atto.
Terzo principio fondamentale, è l'importanza della tempestività o della celerità dei controlli giurisdizionali richiesti.
Nel caso di privazione “legale” della libertà per condanna o altra pronuncia penale ad essa equiparata quanto ad effetti, deve esistere tra condanna/pronuncia e detenzione un nesso di causalità sufficiente. Tuttavia, il nesso tra la condanna iniziale e la proroga della privazione della libertà si attenua a poco a poco con il passare del tempo.
Il nesso di causalità potrebbe ad esempio interrompersi se una decisione di non rimessione in libertà o una nuova decisione di incarcerazione di una persona arrivasse a fondarsi su motivi incompatibili con gli obiettivi indicati nella decisione iniziale del giudice, o su una valutazione non ragionevole, tenuto conto di questi obiettivi. In tal caso, una carcerazione inizialmente regolare si trasformerebbe in una privazione della libertà arbitraria e, pertanto, incompatibile con l'articolo 5.
Per quanto riguarda la privazione della libertà delle persone affette da disturbi mentali, un individuo può essere considerato «alienato» e subire una privazione della libertà soltanto se sussistono almeno le tre condizioni seguenti:
- la sua alienazione deve essere stata accertata in maniera probante;
- il disturbo deve essere di natura o di ampiezza tale da legittimare l'internamento;
- il disturbo deve persistere, perché si protragga validamente l’internamento.
Più nello specifico, un disturbo mentale può portare ad una privazione della libertà se viene stabilito che l'internamento è necessario perché la persona interessata ha bisogno di una terapia, di farmaci o di qualsiasi altro trattamento clinico per guarire, o affinché il suo stato di salute migliori, ma anche se risulta che è necessario sorvegliarla per impedirle, ad esempio, di farsi del male o di fare del male ad altri.
La Corte ha ricordato che, in linea di principio, la «detenzione» di un alienato può essere considerata «regolare» soltanto se attuata in un ospedale, in una clinica o in un altro istituto appropriato e che la misura della detenzione in una REMS ha lo scopo non solo di proteggere la società, ma anche di offrire all'interessato le cure necessarie per migliorare, per quanto possibile, il suo stato di salute e permettere in tal modo di attenuare o gestire la sua pericolosità.
Tuttavia, nel caso di specie, è stato accertato che il ricorrente, nonostante avesse bisogno di un trattamento appropriato al fine di ridurre il pericolo che egli rappresentava per la società, non era stato trasferito in una REMS, neanche dopo la sentenza con la quale la corte d'appello di Roma aveva ordinato la sua liberazione.
L’interessato era stato infatti mantenuto in detenzione in regime carcerario ordinario, in cattive condizioni, e non aveva beneficiato di un percorso terapeutico individualizzato.
E dal momento che lo Stato è tenuto, nonostante i problemi logistici e finanziari, ad organizzare il proprio sistema penitenziario in modo da assicurare ai detenuti il rispetto della loro dignità umana, anche se, in un primo tempo, un divario tra i posti disponibili e i posti necessari può essere considerato accettabile, il ritardo nell'ottenimento di un posto non può durare all'infinito ed è accettabile soltanto se debitamente giustificato. Le autorità devono dimostrare di non essere rimaste passive, ma di avere, al contrario, cercato attivamente una soluzione e di essersi sforzate di superare gli ostacoli che si frapponevano all'applicazione della misura.
Nel caso di specie, la Corte adita ha accertato che, a partire dal febbraio 2019, il DAP aveva inviato numerose richieste alle REMS della regione Lazio e a quelle presenti sul territorio nazionale per trovare un posto per il ricorrente, ma senza successo, per mancanza di posti disponibili.
A fronte di questi rifiuti, le autorità nazionali non hanno né creato nuovi posti all’interno delle REMS né trovato un'altra soluzione.
L'indisponibilità di posti non è stata dunque considerata dalla Corte una valida giustificazione per mantenere il ricorrente in ambiente penitenziario.
Ne è conseguito che la privazione della libertà del ricorrente, quanto meno a partire dal 21 maggio 2019, non si è svolta in modo conforme alle esigenze stabilite dall’ dell’articolo 5 § 1, lett. e), con inevitabile lesione del diritto sotteso a tale norma.