Tribunale di Torre Annunziata, sez. Lavoro, sentenza n. 811 del 30 maggio 2023
IL CASO E LA SOLUZIONE
Una ex dipendente comunale ha chiesto al suo datore di lavoro il risarcimento del danno (biologico e professionale) che le sarebbe derivato dalle condotte vessatorie e persecutorie tenute nei suoi confronti nell'arco di un periodo di tempo pluriennale.
Tali condotte avrebbero dovuto qualificarsi, nell'impostazione della ricorrente, come integranti fattispecie di mobbing o comunque di straining sul posto di lavoro, con esito finale di dimissioni "coartate", condotte così identificate in concreto:
- azioni intimidatorie;
- apposizione di condizioni restrittive a legittime richieste lavorative;
- privazione della libertà di espressione;
- atteggiamento ostruzionistico nell'evadere normali richieste lavorative;
- violazione del diritto alla disconnessione.
Con particolare riferimento a quest'ultimo aspetto, la ex dipendente ha evidenziato di essere stata contattata dagli organi di vertice dell'amministrazione locale durante giorni in cui era in malattia e sollecitata negli stessi giorni ad inviare una relazione sull'attività svolta.
Il Tribunale adito ha peraltro respinto la richiesta di risarcimento del danno, non ritenendo raggiunta la prova né del mobbing né dello straining, e specificando, in particolare, che per configurare tali fattispecie non basta che gli effetti potenzialmente dannosi dell'azione intenzionalmente orientata a danno del lavoratore cadano nel raggio di cognizione di chi agisce, ma occorre che gli effetti suddetti costituiscano l'elemento polarizzante della volontà dell'agente, nel senso che il procurare un danno al lavoratore sia l'unica ragione della condotta.
Tuttavia, nel caso esaminato dal Tribunale di primo grado, il ricorrente non avrebbe provato tale esclusivo intento, ma si sarebbe limitato a postulare un'asserita inesistenza di ragioni giustificative alle misure organizzative adottate dall'amministrazione comunale.
D'altra parte, l'illiceità, l'illegittimità o anche solo l'inopportunità di un atto o fatto imputabile al datore di lavoro non può costituire di per sé solo quella pluralità di indizi gravi precisi e concordanti da cui desumere l'esistenza del dolo specifico, in assenza di elementi ulteriori di prova su tale dolo, elementi atti in particolare a indicare un progetto persecutorio coinvolgente diversi soggetti all'interno dell'amministrazione.
Sotto altro profilo, i certificati medici attestanti una sintomatologia del tipo "stress lavoro correlato" non hanno sopperito, nel caso di specie, alla insufficienza della prova del comportamento scientemente vessatorio e stressogeno.
DIRITTO ALLA DISCONNESSIONE E DANNO DA STRESS LAVORATIVO
Nella pronuncia del Giudice del lavoro di Torre Annunziata si intrecciano tematiche molto rilevanti e particolarmente attuali, specie se considerate in relazione alla ormai diffusa pratica, anche nelle pubbliche amministrazioni, dello smart working.
Punto di partenza della vicenda giuridica sono alcuni principi definitori di istituti tipicamente "lavoristici" e l'individuazione della loro connessione con la più generale tematica del risarcimento del danno, specie alla luce della norma cardine in materia, prescrivente l'obbligo per il datore di lavoro di "adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro" (art. 2087 c.c.).
Sovviene innanzitutto la definizione di mobbing, fattispecie a condotta libera e connotata soltanto in riferimento ai suoi effetti, che devono consistere in una coartazione, diretta o indiretta, della libertà psichica del lavoratore, così da costringerlo a una certa azione, tolleranza od omissione.
Devono sussistere, ai fini di configurabilità di tale fattispecie, un elemento oggettivo e uno soggettivo, il primo riferibile alla reiterazione delle condotte prevaricatrici (con una durata di almeno sei mesi ed episodi pressoché quotidiani, secondo le indicazioni della più autorevole letteratura esistente in materia), il secondo, intrinsecamente connesso alla finalità persecutoria di vari atti o comportamenti, che, se analizzati isolatamente, possono apparire anche neutri (nel caso ad esempio di semplici atti di amministrazione del rapporto di lavoro) o addirittura rappresentativi dell'esercizio di diritti o potestà.
Tanto premesso, la variante, anch'essa persecutoria, dello straining, si caratterizza più specificamente quale somma di comportamenti stressogeni scientificamente attuati nei confronti di un dipendente.
Esulano peraltro da mobbing e straining le situazioni di malessere o di disagio riferibili esclusivamente alla sfera delle condizioni e delle componenti caratteriali del lavoratore, rilevando piuttosto la sensibilità media dell'uomo comune; non qualsiasi screzio, o inurbanità, o scortesia, o persino qualsiasi maleducazione o offesa, vengono dunque attratti nell'ambito delle tutele risarcitorie.
La valutazione di illiceità delle situazioni più gravi della patologia dell'organizzazione deve conseguentemente essere compiuta al netto delle ipersensibilità soggettive; non esiste infatti un diritto alla felicità nei rapporti di lavoro, ma soltanto l'obbligo di tenere comportamenti improntati a buona fede, per cui non è lesiva la condotta avvertita come tale dal lavoratore in dipendenza esclusiva della propria fragilità nei rapporti interpersonali.
Nelle condotte di tipo persecutorie sul lavoro, specie nella modalità "agile" di esso, ha un rilievo sempre più marcato la tematica della necessaria separazione tra orario di ufficio e cd. tempo libero.
Il diritto alla disconnessione, in Italia, è ancora racchiuso in un ibrido normativo, in cui non vi è nemmeno espressa qualificazione dell'istituto quale diritto, posto che si tratta di un interesse collettivo dei lavoratori dipendenti, nel suo significato letterale, che si attua nell'ambito di una modalità di svolgimento della prestazione lavorativa che necessita quale requisito sostanziale della presenza di strumenti tecnologici.
Invero, in un mondo del lavoro sempre più digitalizzato e interconnesso, i dispositivi tecnologici aiutano nella comunicazione, nella gestione dei documenti, nel controllo degli stati dei singoli progetti, o anche nella gestione di ferie e permessi, con nuove possibilità di reperibilità costante e connessione "totale" che possono rendere molto difficile la separazione tra lavoro e vita privata.
In questo quadro si inserisce dunque il citato diritto alla disconnessione, volto cioè a garantire al lavoratore l'impossibilità pratica si essere "inseguito" dai suoi compiti professionali anche oltre l'orario di lavoro normalmente praticato.
Il legislatore italiano ha collegato direttamente tra di loro, nel suo primo arresto normativo in materia, tale nuovo diritto e il lavoro agile (smart working), quale nuova modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato.
Posto che datore e prestatore di lavoro possono stabilire che la prestazione lavorativa possa essere eseguita, senza precisi vincoli di orario, anche all'esterno dei locali aziendali, il cosiddetto diritto alla disconnessione implica innanzitutto che il lavoratore sia libero di disattivare le strumentazioni tecnologiche e le piattaforme informatiche di lavoro, una volta terminata l'ordinaria prestazione quotidiana.
Sotto questo profilo, il comma 1 dell'art.19 della L. n. 81 del 2017 si limita a disporre che l'accordo individuale tra azienda e lavoratore individui i tempi di riposo del lavoratore nonché "le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro."
D'altra parte, come ha evidenziato sul punto anche il Garante della privacy, il ricorso alle tecnologie non può rappresentare l'occasione per il monitoraggio sistematico del lavoratore, ma deve avvenire nel rispetto delle garanzie dei lavoratori, ovvero entro i limiti di durata massima dell'orario di lavoro giornaliero e settimanale derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva, e nel rispetto dei periodi di ferie e di tutti gli altri legittimi casi di assenza.
Successivamente alla L. n. 81, in Italia la questione è stata regolamentata in termini generali da alcuni CCNL, sempre con l'obiettivo di ridurre al massimo, se non azzerare, il rischio di un' "invasione di campo" (uso della tecnologia senza soluzione di continuità dalla sfera lavorativa alla sfera privata).
In altri Paesi, invece - in primis la Francia - il diritto alla disconnessione è stato normato a livello primario.
Ma quali conseguenze comporta la violazione del diritto alla disconnessione?
Un primo aspetto concerne l'ambito retributivo e il doveroso riconoscimento di una maggiorazione del compenso a chi impiega le proprie energie personali anche al di fuori dell'orario di lavoro, specie se si tratta di semplici mansioni operative.
Un secondo aspetto riguarda l'eventuale inserimento della fattispecie in una più ampia condotta vessatoria, con un automatico transito - per certi versi inevitabile - del comportamento "invasivo" della vita privata del lavoratore all'interno di una gestione oggettivamente non equilibrata del rapporto di lavoro, salva poi la valutazione in concreto del Giudice - come accaduto nel caso scrutinato dal Tribunale di Torre Annunziata -, sulla sussistenza di tutti gli altri elementi necessari a integrare la fattispecie di condotte persecutorie o vessatorie sul posto di lavoro.
D'altra parte, per garantire l’effettivo diritto alla disconnessione, è necessario in partenza che il lavoratore possa disattivare i propri dispositivi di connessione, quanto meno per evitare la ricezione di comunicazioni aziendali oltre l’orario di lavoro o nei periodi di assenza legittimati.
Posto che uno dei principali rischi lavorativi "moderni" da evitare, a tutela dell’integrità psicofisica dello smart worker, è il cosiddetto rischio di tecnostress, ovverosia la sindrome che colpisce l’individuo che deve gestire forme di conoscenze complesse e il flusso informativi offerto dalle nuove tecnologie, può essere proprio la disconnessione "automatica" a costituire una efficace misura preventiva per attuare in pieno tale tutela.