Ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 546/92 (come modificato dall’art. 12 legge 448 del 2001 e dall’art. 3 bis della legge 2-12-2005, n. 248 di conversione del D.L. 30-9-2005, n. 203) “appartengono alla giurisdizione tributaria tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie…comunque denominati...”.
La delimitazione della giurisdizione tributaria deriva, dunque, dall’appartenenza della prestazione non ad un elenco nominativamente prefissato di tributi, ma alla materia genericamente indicata dei “tributi di ogni genere e specie“.
L’espressione riprende quella sostanzialmente equivalente, di “imposte e tasse”, anch’essa generica, contenuta nel comma 2 dell’art. 9 c.p.c.
L’evoluzione della giustizia tributaria è stata segnata, a partire dal riconoscimento delle Commissioni tributarie quali organi sicuramente giurisdizionali, da due direttrici di fondo: la prima, costituita dal progressivo adeguamento del processo tributario al processo civile; la seconda, consistente nel continuo ampliamento della cognizione della giurisdizione tributaria.
La Corte costituzionale, posta di fronte al problema della estensione della giurisdizione delle Commissioni tributarie a seguito della riforma del 1992, con riferimento a una possibile violazione dell’art. 102 della Costituzione, dichiarò manifestamente infondata la questione, basata sull’assunto secondo cui il potere di revisione di cui alla VI disposizione transitoria della Costituzione sarebbe già stato esercitato per effetto della delega di cui all’art. 10, numero 14 della legge 9 ottobre 1971, n. 825 e sfociato nella disciplina prevista dal d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, di modo che tale potere non sarebbe stato più suscettibile di ulteriore esercizio, non essendo consentita la revisione di una normativa già revisionata.
La Corte ha rilevato che era privo di fondamento il presupposto da cui partiva il giudice a quo, secondo cui la normativa censurata avrebbe disciplinato, anziché il riordino del contenzioso tributario, l’istituzione di nuovi giudici speciali mediante la revisione dell’ambito della competenza e della cognizione, nonché dell’ordinamento, dei gradi di giudizio e dei poteri conferiti alle Commissioni tributarie.
Invero, la modifica mediante ampliamento della competenza delle Commissioni tributarie non era di per sé tale da trasformare il giudice tributario esistente in un diverso giudice speciale, in quanto era rimasto non snaturato né il sistema di estrazione dei giudici (anzi migliorato dal punto di vista dei requisiti di idoneità e di qualificazione professionale e delle incompatibilità), né la giurisdizione nell’ambito delle controversie tributarie, anche se riconfigurata mediante una soluzione unitaria ed aggiornata con la previsione di imposte locali in aggiunta a quelle statali, e con l’adeguamento delle norme del processo tributario a quelle del processo civile.
D’altra parte, l’art. 102, secondo comma, della Costituzione, in ordine al divieto di istituzione di giudici speciali, avrebbe dovuto essere interpretato, secondo la Corte, in relazione alla VI disposizione transitoria, nel senso di escludere l’introduzione di altri giudici (creati ex novo), diversi da quelli espressamente nominati in Costituzione (Consiglio di Stato, Corte dei conti e Tribunali militari, esclusi testualmente dalla VI disposizione transitoria della Costituzione e come tali non soggetti ad obbligo di revisione, oltre agli organi di giustizia amministrativa di primo grado) e con una ulteriore possibilità di diverso trattamento per le giurisdizioni speciali preesistenti, oggetto tuttavia di obbligo di revisione.
In altri termini, la Costituzione ha voluto che le (altre) giurisdizioni speciali preesistenti avrebbero dovuto essere sottoposte a revisione, revisione che, comportando una scelta delicata tra soppressione pura e semplice e trasformazione, è stata affidata esclusivamente al Parlamento.
Invero, l’obbligo di procedere alla revisione delle anzidette giurisdizioni speciali preesistenti, ha consentito l’intervento del legislatore con leggi posteriori alla Costituzione attraverso mutamenti graduali e con parziali adeguamenti, anche per colmare le molte deficienze del contenzioso tributario sottolineate dalla Corte, con invito a riordino legislativo dell’intera materia.
Allo stesso modo, tuttavia, l’intervenuta revisione non vincola il legislatore ordinario a mantenere immutati nell’ordinamento e nel funzionamento le Commissioni tributarie come già revisionate, in quanto, per le preesistenti giurisdizioni speciali, una volta che siano state assoggettate a revisione, non si crea una sorta di immodificabilità nella configurazione e nel funzionamento, né si consumano le potestà di intervento del legislatore ordinario, il quale conserva il normale potere di sopprimere ovvero di trasformare, di riordinare i giudici speciali, conservati ai sensi della VI disposizione transitoria, o di ristrutturarli nuovamente anche nel funzionamento e nella procedura, con il duplice limite di non snaturare (come elemento essenziale e caratterizzante la giurisprudenza speciale) le materie attribuite alla loro rispettiva competenza e di assicurare la conformità a Costituzione.
Sotto altro profilo, peraltro, l’ampliamento della giurisdizione si è sempre mal raccordato con la previsione normativa sulle parti del processo (art. 10) e sugli atti impugnabili (art. 19).
Ai problemi di raccordo dell’art. 2 con gli artt. 10 e 19 del d.lgs. 546/92 ha dato peraltro risposta la Corte di Cassazione, a sezioni unite, sin dal 2000, dichiarando che vada sempre riconosciuta la giurisdizione del giudice tributario in presenza di una controversia che riguardi uno specifico rapporto tributario.
Il giudice tributario, secondo la Cassazione, ha competenza esclusiva e generale, non circoscritta ad alcuni aspetti, per tributi e tasse di ogni tipo, e tale competenza è indipendente dalla denominazione del tributo o dal contenuto della domanda presentata dai ricorrenti.
D’altra parte, la Corte costituzionale ha ribadito che non appartengono alla giurisdizione tributaria le controversie che conseguano alla violazione di disposizioni non aventi natura tributaria, abbattendo la propria scure sull’articolo 2 del d.lgs. n. 546/1992, nelle parti in cui devolveva alle Commissioni tributarie le controversie relative al canone per l'occupazione di spazi e aree pubbliche (Cosap) e alle sanzioni comunque irrogate da uffici finanziari, anche laddove esse conseguano alla violazione di disposizioni non tributarie. In quell’occasione, la Consulta ha stabilito che il difetto della natura tributaria della controversia fa necessariamente venir meno il fondamento costituzionale della giurisdizione del giudice tributario, con la conseguenza che l'attribuzione a tale giudice della cognizione della suddetta controversia si risolve inevitabilmente nella creazione, costituzionalmente vietata, di un nuovo giudice speciale.
Problemi non facilmente risolvibili attengono poi alla natura del processo tributario.
Teoricamente, il d.lgs. n. 546 del 1992 elenca un catalogo tassativo di atti autonomamente impugnabili (tra cui avviso di accertamento, avviso di liquidazione, ruolo e cartella di pagamento), di modo che gli atti non compresi in tale elenco sono impugnabili – in via differita – con il primo atto successivo, che a sua volta deve essere compreso nell’elenco degli atti espressamente previsti come impugnabili.
Atti ad impugnazione differita sono ad esempio le risposte negative agli interpelli disapplicativi di norme antielusive e i provvedimenti di autorizzazione della perquisizione domiciliare e personale da parte del fisco emessi dal Procuratore della Repubblica, che sono impugnabili con il successivo atto impositivo.
Anche se l’art. 19, comma 3 del d.lgs. n. 546 del 1992 dispone espressamente che “gli atti diversi da quelli indicati non sono impugnabili autonomamente” una parte della giurisprudenza considera impugnabili tutti gli atti che risultino comunque idonei a portare a conoscenza i presupposti di fatto e le ragioni in diritto della pretesa impositiva o del diniego del diritto vantato dal contribuente (tra cui gli inviti al pagamento o le fatture emesse per la riscossione della tariffa sui rifiuti).
Secondo questo filone interpretativo, si tratterebbe di atti ad impugnazione facoltativa, la cui ammissibilità equivale di fatto ad ammettere l’azione di mero accertamento nel processo tributario.
D’altra parte, l’impugnazione di un atto non compreso nell’elenco di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992 non impedisce di affermare la natura tributaria della controversia, essendo le questioni relative alla impugnabilità questioni che attengono alla proponibilità della domanda e non alla giurisdizione, né ha rilievo se la posizione lesa sia un diritto soggettivo o un interesse legittimo, in quanto l’art. 103 della Costituzione, pur attribuendo al Consiglio di Stato e agli altri organi di giustizia amministrativa la giurisdizione per la tutela degli interessi legittimi nel confronti della pubblica amministrazione, non esclude che una giurisdizione amministrativa – tra cui deve essere compresa anche quella delle Commissioni tributarie – possa, in determinati casi, essere organo di tutela anche dei diritti soggettivi (si pensi alle cause tributarie di rimborso).
Se peraltro l’azione ordinariamente esperibile nel processo tributario è un’azione di impugnazione – con correlativo esito di annullamento dell’atto impugnato -, la Corte di cassazione non ha mancato di affermare, anche recentemente, che il processo tributario non è un processo sull’atto (la cui mancata analitica descrizione, relativamente alle pretese impositive e sanzionatorie, infirmerebbe l’essenza stessa del processo), né un processo diretto alla mera eliminazione giuridica dell’atto impugnato, bensì un processo che converge verso una pronuncia di merito, sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente che dell’accertamento dell’ufficio, come anche della dichiarazione del contribuente.
In questa prospettiva, pertanto, sarebbe il rapporto sostanziale posto a base dell’atto impositivo a costituire il petitum sostanziale del procedimento tributario e a dovere essere compiutamente descritto dal giudice del merito, al fine di operare una motivata valutazione sostitutiva.
Sotto questo profilo, dunque, il tipo di potere giurisdizionale esercitato dalle Commissioni tributarie viene ad avere più punti di contatto con quello del giudice ordinario che con quello del giudice amministrativo di legittimità.
In realtà, bisognerebbe distinguere tra casi in cui l’impugnazione verte su vizi formali dell’atto particolarmente gravi (ad esempio, difetto assoluto di motivazione e incompetenza dell’ufficio), rispetto ai quali il giudice si limita ad annullare l’atto impugnato, e casi il cui il giudizio verte sull’an e/o sul quantum dell’imposta, rispetto ai quali la sentenza sostituirebbe l’atto impugnato, sia quando respinge, che quando accoglie il ricorso.
Diversamente dall’esito processuale appena visto – che sfocia in un annullamento dell’atto o in un accertamento “sostitutivo” della pretesa tributaria – le sentenze che accolgono le domande di rimborso sono sentenze di condanna, il cui contenuto è da considerarsi complesso, perché deve contenere, in primo luogo, l’annullamento del diniego di rimborso, e , dall’altro, l’accertamento del credito dell’interessato e la condanna dell’amministrazione a rimborsare.
Diverso ancora, è il tipo di accertamento che viene operato dal giudice sul rifiuto di autotutela, che è da considerarsi non impugnabile – con conseguente inammissibilità dell’azione a tale fine proposta – perché atto discrezionale, non compreso nell’elenco degli atti impugnabili, e perché, in caso contrario, qualora non vi sia stata una rinnovazione totale o parziale dell’istruttoria, si darebbe ingresso ad una controversia sulla legittimità di un atto impositivo ormai definitivo.
Ad ogni modo, posto che la natura tributaria della controversia risulta dirimente nella fase di accertamento del diritto, il discrimine tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione tributaria in ordine all’attuazione della pretesa tributaria manifestata con un atto esecutivo è stato così fissato dalla giurisprudenza:
- alla giurisdizione ordinaria spetta la cognizione delle questioni inerenti alla legittimità dell’atto esecutivo come tale, nonché dei fatti incidenti sulla pretesa sostanziale tributaria azionata in executivis successivi alla valida notifica della cartella o della intimazione, ivi compresa l’opposizione all’esecuzione per far valere l’illegittimità della riscossione tributaria per inesistenza del diritto di procedere alla riscossione stessa;
- alla giurisdizione tributaria spetta la cognizione di ogni questione relativa a fatti incidenti sulla pretesa tributaria che si assumano verificati fino alla notificazione della cartella o dell’intimazione di pagamento, sia che si tratti di fatti inerenti ai profili di forma e di contenuto degli atti in cui è espressa la pretesa, sia che si tratti di fatti costitutivi, modificativi o impeditivi di essa.
Quanto invece al rapporto tra giurisdizione amministrativa e giurisdizione tributaria, gli atti amministrativi e i regolamenti, anche quando contengono norme tributarie, devono necessariamente essere impugnati dinanzi al giudice amministrativo, qualora risulti concreta e attuale la lesione dell’interesse protetto dalla norma.
Gli stessi atti possono peraltro essere anche disapplicati di ufficio dal giudice tributario, in vista dell’annullamento dell’atto applicativo.
Sono infine impugnabili dinanzi al giudice amministrativo gli atti tributari individuali non impugnabili dinanzi alle commissioni tributarie, come gli atti istruttori che hanno destinatari soggetti diversi dal contribuente, il diniego di accesso agli atti del procedimento e i provvedimenti di fissazione del domicilio fiscale.