Gli ultimi articoli pubblicati

TAR Lazio, Roma, Sezione Terza, sentenza n. 15284 pubblicata il 4 agosto 2025 IL CASO E LA DECISIONE L’articolata sentenza che si commenta prende posizione su un'importante tematica che riguarda il servizio di trasporto: cioè la modalità di tenuta del foglio di servizio elettronico nell’ambito del noleggio con conducente . Il giudizio ha origine da un’impugnativa di ANITRAV – Associazione Nazionale Imprese Trasporto Viaggiatori (di seguito solo “ANITRAV”) avverso il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, per l’annullamento in principalità del decreto interministeriale n. 226 del 16.10.2024 , che disciplina le modalità di tenuta e compilazione del foglio di servizio elettronico di cui all'' articolo 11, comma 4, della legge n. 21 del 15.1.1992 ai fini dello svolgimento del servizio di noleggio con conducente. La ricorrente, in qualità di associazione di categoria tra le più rappresentative nel settore del trasporto di linea mediante noleggio con conducente (NCC), contesta l’atto impugnato in quanto non sarebbe stato sottoposto al controllo preventivo della Corte dei Conti; avrebbe illegittimamente reintrodotto l’obbligo di rientro in rimessa e alcune esenzioni dallo stesso che sono stati già dichiarati incostituzionali dalla sentenza n. 56/2020 della Corte costituzionale (c.d. regime dei 20 minuti e servizio nell’ambito dei contratti di durata); consentirebbe il trattamento dei dati personali tramite un’applicazione di esclusivo utilizzo del Ministero che esporrebbe i dati stessi a grandi rischi sotto il profilo della tutela alla privacy , oltre ad apparire sproporzionato quanto a modalità, finalità e durata; realizzerebbe un’invasione delle competente della potestà normativa e regolamentare delle Regioni in materia di NCC, violando, altresì, la libertà di iniziativa economica; sarebbe una violazione della direttiva servizi che impone di notificare alla Commissione Europea gli atti limitativi delle libertà in materia di servizi. Nell’ambito del giudizio, la tesi dell’associazione ricorrente è stata sostenuta dalla Regione Puglia e opposta da alcune Associazioni e Cooperative di Taxi. Nello scrutinare il giudizio, innanzitutto, il TAR respinge l’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di interesse, valorizzando il fatto che ANITRAV persegue in maniera stabile e non occasionale il fine di rappresentare e tutelare le imprese piccole e medie che svolgono attività di trasporto viaggiatori su strada nonché servizi pubblici non di linea, categoria ben individuata e delimitata, della quale mira a promuovere e favorire l’attività imprenditoriale. Gli interessi dei soggetti rappresentati sarebbero dunque lesi dagli atti impugnati. Per sostenere la legittimazione attiva e l' interesse dell’associazione ricorrente, il TAR richiama alcuni indirizzi giurisprudenziali (Cons. St., n. 3932/2011 e Cons. St., V, 7.11.2014, n. 5480) che affermano la possibilità di impugnare gli atti che, anche in maniera generale e astratta, sono in grado di incidere sugli interessi, comportamenti e scelte dei destinatari senza necessità di postergare la tutela giurisdizionale a momenti futuri o a ulteriori provvedimenti attuativi. Ebbene, nel caso di specie, l’atto impugnato inciderebbe direttamente sull’attività dei vettori NCC, anche perché, spiegano i Giudici, " non v’è alcun dubbio che tale incidenza vi sia, in quanto il contenuto dispositivo del decreto impugnato e dei relativi allegati esaurisce i profili di conformazione dell’attività dei vettori NCC connessi all’introduzione del foglio di servizio elettronico, residuando esclusivamente la definizione di aspetti meramente tecnici legati all’accesso all’applicazione informatica, e ha diretta incidenza sul comportamento dei destinatari della disciplina, nonché sulla convenienza economica dei rapporti instaurati con i terzi" . Sempre in rito, il TAR ritiene non estensibile il giudizio ai rappresentanti della categoria dei taxi e inammissibile l’intervento della Regione Puglia, ritenuta un controinteressato che ha prestato acquiescenza al provvedimento lesivo. Passando al merito, viene dichiarato inammissibile il motivo di ricorso relativo al trattamento dei dati personali , dato che la posizione fatta valere con tale doglianza è, infatti, la tutela della vita privata e familiare di soggetti terzi ai conducenti, bene di cui, tuttavia, l’associazione ricorrente non può in alcun modo reputarsi titolare, né la ricorrente ha addotto la sussistenza di profili di rilevanza alla doglianza immediatamente attinenti alla propria sfera giuridica (Cons. Stato, II, 23.4.2025, n. 3496). In questo senso non potrebbe neanche ritenersi che gli operatori NCC assumerebbero la qualità di titolari del trattamento di dati personali. Il TAR ritiene, poi, infondato il motivo di ricorso secondo cui l’atto impugnato sarebbe stato assoggettabile al controllo della Corte dei Conti. Difatti, non si tratta di atto normativo, bensì di atto amministrativo assunto da un’Autorità Amministrativa alla luce dell’art. 11, co. 4, della legge 15.1.1992, n. 21, come sostituito dall’art. 10-bis del decreto-legge 14.12.2018, n. 135 (convertito con legge 12/2019). Risulta, invece, fondato il motivo di ricorso che censura la sovrapposizione di competenze e lo sconfinamento della delega legislativa , laddove consente a un organo centrale dello Stato di conservare le informazioni relative al foglio elettronico con accesso consentito a un’ampia platea di soggetti, inclusi i dipendenti comunali, gli appartenenti ad organi militari e di polizia e i dipendenti delle motorizzazioni civili, nonché per un periodo di tempo (3 anni) significativamente superiore a quello di 15 giorni previsto dalla legge per il foglio di servizio cartaceo. Per suffragare la fondatezza del motivo, il TAR ricostruisce il quadro normativo in materia, evidenziando che con il decreto-legge 14.12.2018, n. 135 (convertito, con modificazioni, dalla legge 11.2.2019, n. 12) modificativo della legge 15.1.1992, n. 21, il legislatore ha operato un complessivo riassetto del regime afferente all’esercizio dell’attività di NCC, introducendo le seguenti modifiche alla previgente disciplina contenuta nella: - possibilità di effettuare la prenotazione del servizio, oltre che presso la rimessa, anche presso la sede, e altresì mediante l’utilizzo di strumenti tecnologici (nuovo art. 3, co. 1, l. n. 21/1992); - possibilità di disporre, oltre che della rimessa situata nel comune che ha rilasciato l’autorizzazione, di ulteriori rimesse nel territorio di altri comuni della medesima provincia o area metropolitana (art. 3, co. 3, l. n. 21/1992); - possibilità, anche per i titolari di autorizzazione per l'esercizio del servizio di noleggio con conducente di autovettura ovvero di natante, in caso di malattia, invalidità o sospensione della patente, intervenute successivamente al rilascio della licenza o dell'autorizzazione, di mantenere la titolarità della licenza o dell'autorizzazione a condizione che siano sostituiti alla guida dei veicoli o alla conduzione dei natanti, per l'intero periodo di durata della malattia, dell'invalidità o della sospensione della patente, da persone in possesso dei requisiti professionali e morali previsti dalla normativa vigente (art. 10, co. 2-bis, l. n. 21/1992); - previsione dell’obbligo di compilazione e tenuta da parte del conducente di un foglio di servizio in formato elettronico, le cui specifiche sono stabilite dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti con proprio decreto, adottato di concerto con il Ministero dell'interno, in sostituzione del foglio di servizio cartaceo già previsto dalla previgente normativa (art. 11, co. 4, l. n. 21/1992); - previsione dell’obbligo di rientro in rimessa al termine di ogni servizio (già precedentemente introdotto ma successivamente sospeso dall’art. 7-bis, co. 1, del D.L. n. 5/2009, con disposizione reiterata di anno in anno sino all’intervento del D.L. n. 135/2018) e delle relative deroghe, che consentivano di iniziare un nuovo servizio senza il rientro in rimessa quando: i) sul foglio di servizio sono registrate, sin dalla partenza dalla rimessa o dal pontile d’attracco, più prenotazioni di servizio oltre la prima, con partenza o destinazione all’interno della provincia o dell’area metropolitana in cui ricade il territorio del comune che ha rilasciato l’autorizzazione (art. 11, co. 4-bis, l. n. 21/1992); ii) in via transitoria, quando il servizio è svolto in esecuzione di un contratto in essere tra cliente e vettore, stipulato in forma scritta con data certa sino a quindici giorni antecedenti la data di entrata in vigore del presente decreto e regolarmente registrato (art. 10-bis, co. 9, d.l n. 135/2018); - possibilità di fermata su suolo pubblico durante l’attesa del cliente che ha effettuato la prenotazione del servizio e nel corso dell'effettiva prestazione del servizio stesso (art. 11, co. 4-ter, l. n. 21/1992); - istituzione, presso il Centro elaborazione dati del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, di un registro informatico pubblico nazionale delle imprese titolari di licenza per il servizio taxi effettuato con autovettura, motocarrozzetta e natante e di quelle di autorizzazione per il servizio di noleggio con conducente effettuato con autovettura, motocarrozzetta e natante (c.d. RENT, art. 10-bis, co. 3, d.l. n. 135/2018); - disciplina, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti e del Ministro dello sviluppo economico, da adottare ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, dell’attività delle piattaforme tecnologiche di intermediazione che intermediano tra domanda e offerta di autoservizi pubblici non di linea (art. 10-bis, co. 8, d.l. n. 135/2018). Per quanto di interesse, poi, la Corte costituzionale, con la citata sentenza n. 56/2020 ha ritenuto ragionevoli e non sproporzionati l’obbligo di ricevere le richieste di prestazioni e le prenotazioni presso la rimessa o la sede, anche con l’utilizzo di strumenti tecnologici, l’obbligo di compilare e tenere un “foglio di servizio”, nonché la temporanea moratoria al rilascio di nuove autorizzazioni NCC fino alla completa operatività del RENT. Secondo il TAR, con l' architettura data dal decreto contestato, l’Amministrazione ha precostituito i presupposti per realizzare un controllo generalizzato dell’intera attività dei vettori NCC, per un periodo di tempo particolarmente lungo (3 anni), tramite la diretta disponibilità, accentrata in mano pubblica, di tutti i dati concernenti i servizi di tutti gli operatori attivi sull’intero territorio nazionale, con acquisizione anche delle informazioni riguardanti gli spostamenti degli utenti. Ciò considerato, il TAR ha valutato illegittime le previsioni del decreto ministeriali, in quanto la normativa primaria non consentirebbe un assetto di questo tipo e il Ministero avrebbe travalicato le proprie competenze. Ulteriormente, il TAR, analizzando la tematica del foglio di servizio elettronico che, per espressa previsione normativa sovraordinata, deve essere non solo compilato ma anche tenuto dal conducente , ha evidenziato che la normativa non prevede la possibilità di conservazione di questo foglio fino a creare un archivio digitalizzato , con un meccanismo particolarmente pervasivo che non era nelle intenzioni del legislatore, un meccanismo che reca un pregiudizio ancora maggiore, considerata la durata triennale della tenuta dello stesso. Dunque, il Ministero avrebbe superato i limiti posti dal legislatore nazionale. Da ultimo, il TAR accoglie anche i motivi relativi al “ regime dei 20 minuti ”, affermando che l’introduzione di un vincolo temporale tra la prenotazione e l’inizio del servizio non può in alcun modo essere riguardato come una specifica del foglio di servizio, costituendo a tutti gli effetti un vincolo conformativo dell’attività dei vettori NCC e, quindi, un profilo di regolazione della relativa attività. La circostanza che il suddetto vincolo sia introdotto sotto forma di un blocco dell’applicazione informatica, che consente la registrazione della bozza del foglio di servizio solo fino a 20 minuti prima dell’inizio del servizio stesso, costituisce un mero espediente finalizzato a ricondurre all’oggetto della delega un (nuovo) limite all’esercizio dell’attività non previsto, né consentito, dalla legge. Uguale considerazione viene fatta dal TAR in merito alla necessità di coincidenza tra partenza e arrivo del servizio nella medesima data. RIFLESSIONI SUL RAPPORTO TRA POTERE LEGISLATIVO E POTERE AMMINISTRATIVO Come spesso accade, l’Amministrazione, con un’attività di gold plating , ha disciplinato la materia dello strumentario di servizio di un operatore professionale privato superando il dato legislativo e arrivando a porre delle condizioni che rischiano di gravare sia sulla privacy dei clienti, sia sulla libertà d’iniziativa economica dei gestori del noleggio con conducente, richiedendo oneri eccessivi e non proporzionati, né giustificati. L’importanza di rispettare il principio di separazione dei poteri emerge tutte quelle volte in cui il confine tra potestà legislativa e potere amministrativo si assottiglia, da un lato perché la materia richiede plurimi atti attuativi, dall'altro perché le competenze tecniche dei due plessi – legislativo e amministrativo – non sono ben amalgamate. E, così, come in questo caso, si concretizza il rischio che l’amministrazione pubblica interferisca o si sovrapponga al potere legislativo andando a iper regolare una materia o a porre condizioni più gravose di quelle ammesse dalla legge. Nel caso di specie, il Giudice amministrativo evidenzia che il Ministero pare avere sbagliato in due direzioni. Da una parte, ha strumentalizzato l’attività dei NCC di tenuta dei dati, trasformandola in un controllo generalizzato della durata di ben 3 anni, a differenza dei 15 giorni ammessi dalla legge. Dall’altra, ha vincolato in maniera troppo stringente i vettori NCC al regime dei 20 minuti (da rispettare tra una corsa e l’altra). Il tutto, "fingendo" di operare sulle specifiche tecniche del foglio di servizio, m effettivamente andando a conformare l'attività di servizio, in eccedenza rispetto a quanto richiesto dal Legislatore. La sentenza in commento prova a riportare a regime il sistema partendo da due fili conduttori: la tutela della privacy (peraltro soltanto "evocata", in quanto secondo i Giudici la legittimazione a preservarla non sarebbe degli operatori) e il rispetto della libertà di iniziativa economica dei vettori. Difatti, non bisogna dimenticare che, nella ripartizione delle competenze tra potere legislativo e potere esecutivo, è il primo a porre le basi normative, mentre al secondo competono gli aspetti attuativi. Perciò, quando l’amministrazione pone dei vincoli contrastando o superando il dato normativo, ecco che allora si pone in antitesi con il potere legislativo, introducendo una norma in maniera non consentita. E, soprattutto, in un settore come quello dei trasporti – dove la tematica dei NCC è particolarmente sensibile e spinosa – l’importanza di coordinamento tra potere legislativo e potere esecutivo è un aspetto imprescindibile, considerando la portata nazionale che lo stesso ha. Tuttavia, questo non è solo un tema di antinomie di stretto diritto, bensì anche una questione pratica di rilievo. Perché se si consente un controllo generalizzato dell’attività dei vettori NCC attraverso la disponibilità accentrata in mano pubblica di tutti i dati di servizio degli operatori, si crea certamente un problema di privacy e di concorrenza, potendosi anche profilare le attività dei singoli NCC, con controllo pervasivo di un’attività imprenditoriale che per Costituzione dovrebbe essere libera. Problemi che rischiano di aggravare gli oneri dei conducenti NCC, svantaggiandoli sul mercato rispetto ad operatori di altri servizi. Peccato soltanto che il TAR adito non abbia indagato a fondo, rilevando preliminarmente un'inammissibilità del ricorso sul punto, la questione dell' aggressione alla riservatezza dei dati personali dei trasportati , quando probabilmente il preservare tale riservatezza costituisce anch'esso un diretto interesse dei conducenti, al fine di rendere più appetibile la loro offerta di trasporto.

Tribunale sez. uff. indagini preliminari - Roma, ordinanza del 31/01/2025 IL CASO Alcuni soggetti venivano imputati dinanzi al Tribunale penale di Roma ai sensi dell' art. 346-bis c.p. , per avere pianificato, in concorso tra di loro, lo sfruttamento di relazioni personali e occulte con il Commissario per l'emergenza sanitaria nazionale Covid, al fine di indurre tale soggetto - pubblico ufficiale nell'esercizio delle proprie funzioni - a compiere atti contrari ai doveri di ufficio (atti integranti l'abrogato reato di abuso di ufficio). Così facendo, avrebbero ottenuto, in favore di specifici imprenditori anch'essi concorrenti nel reato, una esclusiva di fatto nell'intermediazione delle forniture di maschere chirurgiche e dispositivi di protezione individuale, in violazione dei doveri di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione, così come richiamati anche dall'art. 122 del d.l. n. 18 del 2020, convertito con modificazioni dalla L. 24 aprile 2020, n. 27. L'accreditamento in tal modo operato presso il Commissario produceva, secondo l'accusa, da un lato la garanzia della possibilità di selezionare "in solitaria" le società cinesi a cui commissionare la fornitura di un numero rilevante di mascherine protettive, per un importo pari a oltre a un miliardo di euro, dall'altro l'ottenimento per l'accreditatore di quasi 12 milioni quale prezzo per l'illecita mediazione. Nel corso dell'udienza preliminare, il Pubblico ministero sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, lettera e) della legge n. 114 del 2024, nella parte in cui tale norma aveva modificato in "riduzione" lo spettro di azione dell'art. 346 bis c.p., sul presupposto che, consistendo la principale condotta criminosa contestata agli imputati in una mediazione onerosa teleologicamente orientata alla commissione di fatti che, nella legislazione all'epoca vigente, costituivano ipotesi di abuso di ufficio a vantaggio indebito di privati, l'intervenuta modifica normativa avrebbe privato di rilevanza penale un fatto non solo di estrema gravità ma anche in relazione al quale era stato disposto il sequestro del profitto e del prezzo del reato. Il Giudice penale adito accoglieva l'impostazione accusatoria, ritenendo non manifestamente infondata la questione sollevata, oltre che rilevante ai fini del decidere, e conseguentemente rimetteva con ordinanza gli atti alla Corte costituzionale. TRAFFICO DI INFLUENZE E NUOVA FORMULAZIONE Il reato previsto e punito dall'art. 346-bis c.p. prevedeva, originariamente, la reclusione da uno a tre anni, per la condotta di colui che, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 319 e 319-ter, sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente si faceva dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all'omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio. La stessa pena si applicava anche a chi indebitamente dava o prometteva denaro o altro vantaggio patrimoniale. Successivamente, la L. n. 3 del 2019 , in attuazione dell'obbligo internazionale derivante dalla Convenzione di Strasburgo sulla corruzione, ha riformulato la struttura della fattispecie, ampliando l'area di applicabilità della norma, con particolare riferimento - ma non solo - alla natura della utilità erogata o promessa, ed elevato i limiti edittali della pena. Tuttavia, con un ulteriore intervento normativo, l' art. 1 lett. e) della L. n. 114 del 2024 ha ridotto in misura consistente il possibile parametro applicativo della fattispecie, introducendo le seguenti specificità della condotta: - il profilo della mediazione illecita deve consistere nell'utilizzazione intenzionale intenzionale di relazioni realmente esistenti, e non anche meramente asserite, con l'agente pubblico; - l'utilità data o promessa per la mediazione illecita viene limitata ai casi di denaro o altra utilità economica; - la predetta mediazione deve essere finalizzata alla commissione di un reato da parte dell'agente pubblico, dal quale possa derivare un vantaggio indebito. Secondo il Tribunale di Roma, nel caso in commento, la contestuale abrogazione del reato di abuso di ufficio ad opera della stessa legge n. 114 del 2024 ha reso, di fatto, la norma di cui all'art. 346-bis c.p., nell'ipotesi di mediazione onerosa , di difficilissima applicazione, anche e soprattutto perché uno dei reati-obiettivo era proprio l'abuso di ufficio. Sempre secondo il Giudice penale di primo grado, in punto di ammissibilità della questione di costituzionalità prospettata nel caso concreto, l'eventuale declaratoria di illegittimità della norma che da ultimo ha riformulato l'art. 346-bis del codice penale, restringendone sensibilmente, come detto, la portata, avrebbe sì come effetto in malam partem quello di far rivivere la previgente e più ampia formulazione della condotta sanzionabile (effetto ordinariamente inammissibile, in quanto sussiste in materia incriminatrice riserva assoluta in favore del legislatore), ma sarebbe giustificata in via eccezionale - secondo quanto statuito in recenti arresti dalla stessa Corte costituzionale - dalla asserita contrarietà della modifica legislativa del 2024 a specifici obblighi sovranazionali rilevanti ai sensi dell' art. 117 della Costituzione . In particolare, nell'ipotesi del reato di traffico di influenze , sussisterebbe con portata cogente, e necessità di incriminazione delle fattispecie oggetto di parziale depenalizzazione, la Convenzione di Strasburgo (Convenzione penale sulla corruzione adottata dal Consiglio d'Europa), la quale, all’ art. 12 , con riguardo al traffico di influenze, avrebbe posto per gli Stati aderenti, un vero e proprio obbligo di incriminazione, e non una “raccomandazione”, ovvero un “obbligo a prendere in considerazione”. Inoltre, la convenzione di Strasburgo ha individuato un contenuto minimo di condotte che devono essere necessariamente oggetto d'incriminazione, e ha dato rilievo, contrariamente alla normativa introdotta con la L. n. 114 del 2024, allo sfruttamento, da parte del mediatore, di relazioni non solo esistenti ma anche millantate, oltre che, quale contropartita della condotta illecita, a qualsiasi vantaggio indebito, e non solo a utilità economiche. Dubita il Tribunale di Roma anche della legittimità, in rapporto alla citata convenzione, della limitazione del concetto di mediazione illecita a quella diretta a far commettere al funzionario pubblico un atto contrario ai doveri d'ufficio costituente reato . D’altra parte, prosegue il Giudice penale di primo grado, il contenuto precettivo dell'art. 12 della Convenzione di Strasburgo, nel delineare in maniera dettagliata le condotte che devono essere previste come reato dagli Stati membri (quale “contenuto minimo”), non si porrebbe in contrasto con l' art. 25, comma 2 della Costituzione e con il principio di tassatività e determinatezza della norma incriminatrice ovvero con altri principi fondamentali della Carta costituzionale; in altri termini, la norma pattizia internazionale apparirebbe conforme a Costituzione e ben potrebbe essere considerata come parametro di valutazione delle leggi ordinarie interne. Inoltre, quanto al rilievo per cui, a differenza di altre fattispecie di reato delineate nella Convenzione di Strasburgo, il traffico di influenze non avrebbe analoga portata cogente in virtù della possibilità di formulare sul punto “riserve” da parte degli Stati aderenti, il Tribunale di Roma fa rilevare che il dispositivo pattizio è ormai divenuto vincolante per lo Stato Italiano, posto che all'atto dell'approvazione della legge 3/2019 non erano state confermate ulteriormente le riserve apposte al momento del deposito della ratifica. In conclusione, il Giudice penale di primo grado dubita della legittimità dell'art. 1, comma 1, lett. e) della L. n. 114/2024, nella parte in cui, nel richiedere che la mediazione illecita sia solo quella finalizzata alla commissione di un atto contrario ai doveri di ufficio costituente reato non prevede, tra le possibili finalità della condotta, i fatti rientranti della ormai abrogata ipotesi di abuso di ufficio. La disposizione della Costituzione violata sarebbe, nel caso di specie, l'art. 117 Cost., non avendo gli organi legislativi dell'ordinamento rispettato il vincolo discendente dagli obblighi internazionali, tra i quali rientrano anche quelli di incriminazione. Conclude il Tribunale di Roma, dunque, nel senso che una legge ordinaria che non rispetti i vincoli derivanti da un trattato internazionale, si pone in diretto contrasto con l'art. 117 Cost.. La parola, adesso, passa al Giudice delle leggi.

Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sez. I, 06/02/2025 (Ricorsi n. 36617/18 e altri 12) IL CASO La controversia in commento origina dai ricorsi proposti innanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo da tredici aziende italiane avverso le autorizzazioni e gli ordini di servizio esibiti dai verificatori (appartenenti alla Guardia di Finanza e all’Agenzia delle Entrate) in sede di accesso presso i loro locali commerciali o professionali . I ricorrenti hanno sostenuto che tali accessi, nonché la consultazione, la copia o il sequestro dei loro documenti contabili, dei libri sociali e di altri documenti fiscali, erano illegittimi in quanto effettuati in violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, di cui all’art. 8 della Convenzione . Tale disposizione, infatti, prescrive il divieto di ingerenza da parte dell’autorità pubblica nell’esercizio del diritto al rispetto della vita privata e familiare, a meno che la stessa sia conforme alla legge. Nello specifico, i ricorrenti hanno sostenuto che la normativa nazionale in materia di accessi presso i locali commerciali e professionali conferisce all’autorità pubblica un potere discrezionale illimitato atteso che, da una parte, l’autorizzazione all’attuazione delle misure non è sottoposta ad un controllo giurisdizionale, né ex ante né ex post , dall’altra, che non sono disciplinate le condizioni che giustificano l’accesso, in quanto l’autorizzazione non deve contenere una motivazione specifica. Il Governo ha sostenuto che le misure impugnate hanno una base nel diritto interno e che tale base è conforme a quanto richiesto dall’art. 8 della Convenzione. In particolare, ha sottolineato che: a) le norme nazionali richiedono l’autorizzazione dell’organo di gestione competente; b) ai sensi dell’ art. 12 della l. n. 212/2000 (“Statuto dei diritti del contribuente”), gli accessi sono effettuati sulla base di esigenze effettive di indagine e controllo sul luogo; c) la stessa disposizione prescrive il diritto del contribuente di essere informato sulle ragioni che hanno giustificato la verifica e sull’oggetto che la riguarda; d) esistono delle linee guida emanate ogni anno dall’Agenzia delle Entrate e dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, liberamente accessibili, che forniscono istruzioni in merito alla selezione dei contribuenti da sottoporre a verifica e agli specifici profili di rischio da considerare; e) l’autorizzazione all’accesso può essere impugnata innanzi ai giudici tributari unitamente all’avviso di accertamento emesso all’esito del controllo; se, per contro, le misure non portano all’emissione di un avviso di accertamento, le stesse possono essere impugnate dinanzi ai giudici civili. LA SOLUZIONE La Corte, ribadito che nella nozione di domicilio di cui all’ art. 8 della Convenzione rientrano la sede legale e i locali commerciali e professionali del contribuente, ha indagato sulla natura dell’ingerenza esercitata dall’autorità pubblica nei casi sottoposti al suo esame, al fine di valutare se la stessa possa essere giustificata. Il secondo comma dell’art. 8 della Cedu, come anticipato, prescrive che l’ingerenza dell’autorità pubblica nella sfera privata e familiare del contribuente sia conforme alla legge se: a) prevista da una norma di legge; b) persegua uno degli scopi legittimi ivi elencati; c) sia necessaria, in una società democratica, per il raggiungimento di tali scopi. Innanzitutto, la Corte ha ritenuto pacifico tra le parti che le misure avessero un fondamento nel diritto interno, ossia, per quanto riguarda l’Agenzia delle Entrate, l’art. 52 del d.p.r. n. 633/1972 e l’art. 33 del d.p.r. n. 600/1973 che disciplinano gli accessi, le ispezioni e le verifiche , rispettivamente in materia di iva e di imposte dirette, per quanto riguarda la Guardia di Finanza, l’ art. 35 della l. n. 4/1929 . Inoltre, l’art. 12 della l. n. 212/2000, fornisce una serie di garanzie e tutele a favore del contribuente sottoposto a verifica fiscale. L’indagine dei giudici ha avuto ad oggetto la portata del potere discrezionale conferito alle autorità nazionali , in particolare se il quadro giuridico interno indicasse in modo chiaro e prevedibile le circostanze e le condizioni in cui le stesse sono autorizzate ad attuare le misure contestate, e se delimitasse l’oggetto e la portata di tali misure. Con riferimento al primo profilo, la Corte, rilevata la distinzione tra gli accessi presso le abitazioni , per i quali l’autorizzazione può essere rilasciata solo in caso di gravi indizi di violazione delle norme tributarie e deve essere emessa dall’autorità giudiziaria, e gli accessi presso i locali commerciali e professionali , per i quali sono invece sufficienti “esigenze effettive di indagine e controllo sul luogo” e l’autorizzazione viene emessa dal responsabile dell’ufficio, ha richiamato la giurisprudenza della Corte di Cassazione secondo cui in questo secondo caso l’autorizzazione rappresenta “un mero adempimento procedimentale, la cui ratio è individuabile nell’opportunità che la perquisizione trovi l'avallo di un’autorità gerarchicamente o funzionalmente sovraordinata” (Cass. Civ. 6 novembre 2019, n. 28563). Ad avviso dei giudici di legittimità, pertanto, in relazione ai locali adibiti a scopi commerciali e professionali, il quadro giuridico interno non richiede che l’autorizzazione all’accesso venga motivata. Allo stesso modo, la Corte ha ritenuto che le linee guida emanate dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e dall’Agenzia delle Entrate sui criteri da adottare nella selezione dei contribuenti da sottoporre a controllo non fossero sufficienti a delimitare l’ambito di discrezionalità conferito all’autorità pubblica in quanto, alla luce delle giurisprudenza di legittimità sopra richiamata, in assenza di un dovere di motivare le lettere di incarico, il rispetto di tali criteri non è monitorabile e non rappresenta una condizione per la legittimità dell’autorizzazione. Per tutte queste ragioni, è stato ritenuto che: “ la base giuridica delle misure impugnate non fosse in grado di delimitare in modo sufficiente l’ambito di discrezionalità conferito alle autorità nazionali e, di conseguenza, non soddisfi il requisito di “qualità del diritto” di cui all’articolo 8 della Convenzione ”. Considerazioni simili valgono con riferimento alla delimitazione dell’oggetto e della portata delle autorizzazioni impugnate. Innanzitutto, la Corte ha rilevato l’ampiezza del potere di ispezione documentale disciplinato al comma 4 dell’art. 52 del d.p.r. n. 633/1972, posto che la norma lo estende “a tutti i libri, registri, documenti e scritture, compresi quelli la cui tenuta e conservazione non sono obbligatorie, che si trovano nei locali in cui l'accesso viene eseguito, o che sono comunque accessibili tramite apparecchiature informatiche installate in detti locali”. Inoltre, la Corte ha richiamato l’indirizzo della giurisprudenza di legittimità secondo cui la portata delle prove e dei documenti che possono essere acquisiti dalle autorità nazionali non è limitata a quelli relativi agli esercizi oggetto di accesso o a specifiche violazioni, ma può estendersi a qualsiasi altro documento che le autorità che attuano le misure possono ritenere pertinente (Cass. Civ. 7 agosto 2009, n. 18155). Nel caso delle ricorrenti, l’ambito di applicazione delle misure impugnate comprendeva tutti i documenti e le prove relativi al rispetto degli obblighi fiscali dei richiedenti per diversi anni, senza limitare in alcun modo la portata delle ispezioni effettuate nei loro locali. In tale contesto, la Corte ha quindi ritenuto che il quadro normativo non delimitasse in misura sufficiente l’oggetto dell’acquisizione documentale, consentendo all’autorità pubblica di esercitare un potere discrezionale illimitato. Per quanto riguarda, invece, l’esistenza di un controllo giurisdizionale ex post , la Corte ha rilevato che gli atti di autorizzazione all’accesso non rientrano tra quelli autonomamente impugnabili ai sensi dell’art. 19 del d.lgs. 546/1992 e che eventuali vizi potranno essere sollevati solo in sede di impugnazione dell’avviso di accertamento che ne è derivato, in quanto l’autorizzazione costituisce un atto preparatorio la cui legittimità incide sulla validità dell’avviso di accertamento. Inoltre, la Corte ha richiamato l’indirizzo della Corte di Cassazione secondo cui la liceità dell’autorizzazione all’accesso presso i locali commerciali non pregiudica la validità dell’avviso di accertamento definitivo né la possibilità di utilizzare come prova i documenti acquisiti con il provvedimento impugnato, salvo il caso in cui l’autorizzazione manchi del tutto (cfr. Cass. Civ. 29 aprile 2016, n. 8547; Cass. Civ. 7 agosto 2009, n. 18155). Tanto premesso, la Corte ha sostenuto che il ricorso al giudice tributario costituisce un rimedio meramente potenziale, nonché necessariamente differito e non può equivalere ad un ricorso giurisdizionale ex post . Parimenti, la prospettazione del Governo secondo cui, in tutti i casi in cui all’accesso non segue l’emissione di un avviso di accertamento, l’autorizzazione ad accedere ai locali potrebbe essere impugnata dinnanzi al giudice civile, non è stata ritenuta decisiva da parte della Corte. Vale, infatti, quanto già sopra rilevato in relazione alle linee guida: in assenza di un dovere di motivazione delle autorizzazioni, la Corte non vede come i giudici civili possano esercitare un controllo significativo sulle misure disposte dall’Amministrazione. Infine, con riferimento alla possibilità di ricorrere al Garante del Contribuente ai sensi dell’art. 13 della l. 212/2000 , la Corte ha evidenziato che, poiché questi non emette decisioni vincolanti, bensì semplici raccomandazioni, il reclamo non costituisce un rimedio effettivo contro possibili scelte arbitrarie dell’amministrazione finanziaria. Alla luce di tutto quanto evidenziato, la Corte ha concluso che, anche se le misure impugnate avevano un fondamento giuridico nel diritto interno, tale contesto ha conferito alle autorità nazionali un margine di discrezionalità illimitato per quanto riguarda sia le condizioni di attuazione delle misure controverse sia l’ambito di applicazione di tali misure . Allo stesso modo, l’assenza di un adeguato controllo giurisdizionale sulle autorizzazioni dell’Amministrazione, non ha garantito al contribuente il livello minimo di protezione di cui ha diritto ai sensi della Convenzione. Di conseguenza, ha ravvisato una violazione dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. LE INDICAZIONI DEI GIUDICI Posto che la violazione accertata è stata ritenuta di carattere sistemico, ossia risultante dal contenuto del diritto interno, come interpretato e applicato dai giudici nazionali, il Giudice europeo ha ritenuto opportuno fornire allo Stato italiano alcune indicazioni al fine di evitare ulteriori violazioni in futuro. È stato innanzitutto premesso che la maggior parte delle misure ritenute necessarie sono già previste dalla normativa nazionale, in particolare dagli artt. 12 e 13 della l. n. 212/2000, ma i principi generali ivi enunciati “devono essere attuati mediante norme specifiche nel diritto interno, mentre la giurisprudenza dovrebbe essere allineata a tali principi e a quelli stabiliti dalla Corte”. Nello specifico, la Corte europea ha stabilito che il quadro giuridico interno dovrebbe: a) indicare chiaramente le circostanze e le condizioni in cui le autorità nazionali sono autorizzate ad eseguire gli accessi presso i locali commerciali e professionali; b) stabilire garanzie per evitare l’accesso indiscriminato o almeno la conservazione e l’uso di documenti e oggetti non connessi con l’obiettivo della misura in questione; c) prevedere il diritto del contribuente, al più tardi al momento di inizio della verifica, di essere informato dei reali motivi che giustificano la verifica e della sua portata, del suo diritto di essere assistito da un professionista e delle conseguenze del rifiuto di autorizzare la verifica; d) prevedere un controllo giurisdizionale immediato ed effettivo sulla misura contestata, che non sia subordinato all’emissione dell’avviso di accertamento.

Tribunale Milano, sez. IV, 02 giugno 2025 IL CASO E LA DECISIONE La controversia in esame è intercorsa tra un Condominio sito in un immobile residenziale risalente ai primi anni del Novecento e il proprietario di un appartamento ubicato al piano rialzato della scala A dello stabile. Nei primi giorni di gennaio 2025, l'impresa incaricata dal suddetto proprietario ha esposto un cartello recante l'avviso dell' inizio di lavori edilizi consistenti nella creazione di una nuova apertura in una muratura condominiale portante, allo scopo di realizzare un secondo ingresso all'unità abitativa di proprietà del resistente. Da quanto risulterebbe dalla documentazione tecnica depositata, la muratura oggetto dell'intervento sarebbe spessa circa mezzo metro e costituirebbe un elemento portante del fabbricato. A seguito dell'annuncio dei lavori, l'amministratore del Condominio ha convocato un'assemblea per il 28 gennaio 2025, durante la quale, con ampia maggioranza, sono state adottate tre delibere : una prima concernente l'integrazione del regolamento condominiale, introducendo l'obbligo di autorizzazione assembleare per qualsiasi apertura o modifica dei varchi su muri condominiali; una seconda, di diniego espresso alla realizzazione del varco previsto dal predetto proprietario; una terza, di mandato all'amministratore per attivarsi al fine di impedire l'esecuzione dell'intervento. Nonostante l'avvenuta adozione di tali delibere, il 12 marzo 2025 l'architetto incaricato dal proprietario ha comunicato all'amministratore l’imminente inizio dei lavori di apertura. Il proprietario, peraltro, ha giustificato la propria iniziativa sostenendo di aver ricevuto, per il tramite dei precedenti proprietari, un'autorizzazione rilasciata dall'amministratore condominiale nel 2024 per una simile apertura. Tuttavia, ad avviso del Condominio tale autorizzazione sarebbe inconferente, in quanto: non riferita al proprietario e relativa ad un progetto differente quanto a collocazione del varco; non considerante i precedenti interventi di consolidamento strutturale dell'edificio; e, in ogni caso, revocata prima dell'inizio di qualsiasi attività. Il Condominio, dunque, opponendosi alla suddetta aperura, ha agito in giudizio evidenziando che la muratura in oggetto rientra tra le parti comuni ex art. 1117 c.c. e che l'intervento progettato non potrebbe essere ricondotto all'uso individuale consentito dall' art. 1102 c.c. , configurando piuttosto un'innovazione ai sensi dell' art. 1120 c.c. , che necessiterebbe della previa approvazione dell'assemblea condominiale, secondo i quorum previsti dall' art. 1136 c.c. Ha inoltre invocato il regolamento condominiale, il quale vieterebbe modifiche delle strutture portanti senza l'autorizzazione preventiva dell'amministratore e comunque senza approvazione assembleare. Il regolamento, inoltre, vieterebbe modifiche che compromettano la stabilità, la sicurezza o il decoro architettonico dell'edificio, elementi che secondo il Condominio sarebbero tutti coinvolti nell'intervento contestato. Sul piano tecnico, il Condominio ha dedotto problematiche inerenti alla sicurezza e alla conformità edilizia. In particolare, l'apertura prevista si troverebbe in prossimità della rampa delle scale, a distanza inferiore rispetto a quella prescritta dal regolamento edilizio del Comune di Milano (art. 89), oltre che a ridosso di impianti condominiali (gas e corrente elettrica). Sarebbe altresì contestata la legittimità dell'intervento in riferimento alle norme antisismiche (D.G.R. 4317/2021), ritenendo non rispettati i criteri di distanza dagli angoli murari e dalla cerchiatura. In aggiunta, si deduce che la nuova porta, per posizione, dimensioni e proporzioni rispetto alle altre aperture esistenti, altererebbe il decoro architettonico dello stabile, violando l' art. 1120, comma 4, c.c. , oltre a determinare un'illegittima appropriazione di porzione del bene comune (la muratura stessa), in contrasto con l' art. 1102 c.c. Con riferimento alla tutela possessoria , il Condominio ha ravvisato nella condotta del resistente gli estremi della turbativa ( ex art. 1170 c.c. ), già attuale, stante l'esecuzione di fori prodromici all'apertura e l'avvenuto annuncio dei lavori, e potenzialmente suscettibile di aggravarsi in caso di prosecuzione delle opere; ha fatto altresì riferimento alla possibilità che possa configurarsi uno spoglio ( art. 1168 c.c. ), qualora venga effettivamente creato il varco. In subordine, il Condominio ha agito ex art. 700 c.p.c. , il fumus boni iuris essendo dimostrato dai fatti sopra esposti ed il periculum in mora sussistendo a fronte dei danni irreparabili alla stabilità dell'edificio e alla sicurezza degli abitanti. Il proprietario si è difeso contestando in fatto e diritto il ricorso avversario: in particolare, ha dedotto di aver acquistato in data 5 settembre 2024 un appartamento sito nel suddetto stabile da soggetti che, già nel febbraio precedente, avevano richiesto all'amministratore l'autorizzazione all'apertura di una seconda porta sul pianerottolo condominiale, al fine di rendere frazionabile l'immobile in due unità distinte. Tale autorizzazione, secondo quanto documentato in atti, sarebbe stata rilasciata in data 28 febbraio 2024, previo esame favorevole dei progettisti e del tecnico strutturista incaricato. Secondo il resistente, detta autorizzazione, benché rilasciata ai danti causa, sarebbe tuttora efficace e idonea a legittimare la medesima opera anche a beneficio dell'attuale proprietario. Inoltre, la fattibilità tecnica dell'intervento sarebbe stata ulteriormente confermata in più occasioni da parte del medesimo tecnico incaricato dal resistente, in risposta alle obiezioni sollevate in sede assembleare e dal tecnico di parte condominiale. Il resistente richiama l' art. 1102 c.c. , ritenendo che l'apertura della porta configurerebbe un uso più intenso del bene comune pienamente consentito al singolo condomino, in quanto: - non sarebbe pregiudicata la stabilità del fabbricato, come attestato da plurime perizie; - non risulterebbe violato il decoro architettonico, trattandosi di intervento interno al pianerottolo e dunque privo di impatto visivo rilevante; - non sarebbe alterata la destinazione della cosa comune, né risulterebbe lesa la possibilità di pari uso da parte degli altri condomini; - l'intervento risulterebbe conforme al regolamento condominiale vigente, che all'art. 2 del capitolo 2 prevede quale unica autorizzazione necessaria quella dell'amministratore, autorizzazione che si assumerebbe tuttora valida e non efficacemente revocata. Conseguentemente, a dire del resistente, la delibera assembleare del 28 gennaio 2025, con la quale è stata introdotta una limitazione al diritto di modificare i varchi nel muro comune, non risulterebbe valida in quanto adottata a maggioranza e non all'unanimità, come invece richiesto per le modifiche a regolamenti contrattuali. In ogni caso, il resistente ha contestato la validità del diniego espresso dall'assemblea, per carenza di motivazione concreta e definitiva, evidenziando che tale diniego sarebbe fondato su rilievi meramente dubitativi. Né l'intervento violerebbe il Regolamento Edilizio del Comune di Milano, tanto più che risulterebbe già consentito mediante regolare presentazione di SCIA, cui non sarebbero seguite osservazioni da parte dell'Amministrazione comunale. Infine, in relazione alla doglianza secondo cui l'apertura della porta determinerebbe un’illegittima appropriazione di porzione del muro comune, il resistente assume che tale uso esclusivo sarebbe legittimo ai sensi dell' art. 1102 c.c. , non pregiudicando gli altri condomini. All’esito del giudizio il Giudice, in accoglimento del ricorso, ha ordinato al proprietario resistente l' immediata cessazione di ogni turbativa e molestia all'esercizio del possesso del muro condominiale , provvedendo - a sue cure e spese - alla rimozione di ogni parte di cantiere eventualmente allestito, nelle more del giudizio, nelle parti comuni del Condominio ricorrente. LA SOLUZIONE IN DIRITTO Il Tribunale, anzitutto, ha accertato che il Condominio possiede il muro portante che affaccia sul pianerottolo del piano rialzato; detto muro ha la funzione di sostenere l'edificio ed altresì di circoscrivere la geometria tipica degli edifici dei primi anni del ‘900. Il possesso del muro è esercitato non tanto mediante il suo materiale utilizzo, bensì per mezzo della sua pluridecennale funzione di sostegno del Condominio, caratterizzando oltretutto l'armonia dei suoi spazi comuni interni. Il Giudice, quindi, ha affermato che il Condominio gode di quel muro quotidianamente - appunto - possedendolo: in particolare, ha sottolineato che la sezione quarta civile del Tribunale avesse già in precedenza evidenziato, con sentenza del 21 maggio 2015, che “ la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente affermato il principio per cui il decoro architettonico di un edificio costituisce una caratteristica essenziale dello stabile e quindi un elemento incidente, oltre che sul valore economico del bene, anche sul modo di godimento da parte del suo possessore, con la conseguenza che la modificazione dell'assetto estetico, comportando un'interferenza nel godimento del bene, può integrare un'indebita turbativa suscettibile di tutela possessori ” [1] . Tanto è vero che, nella motivazione della sentenza in esame, si legge che già “ All'esito della fase sommaria del procedimento il giudice designato pronunciava l'ordinanza del 6 marzo 2012, successivamente confermata con provvedimento collegiale del 16 maggio 2012 dal Tribunale adito con reclamo ai sensi dell' art. 669 terdecies c.p.c. , con cui ordinava al convenuto il ripristino dello stato dei luoghi mediante demolizione del manufatto "ritenuta prospettabile, nel caso in esame, unicamente la molestia possessoria consistente nel turbamento del pacifico godimento dell'edificio condominiale attuato attraverso la realizzazione, ormai completa, di un intervento di recupero del sottotetto chiaramente incidente sul decoro architettonico ed estetico dell'edificio, tutelabile, ai sensi dell' art. 1170 c.c. ”. In conseguenza di quanto precede, quindi, il Tribunale ha sottolineato che occorreva esaminare l'eventuale molestia del muro comune sotto il profilo del decoro architettonico dello spazio circostante. Nello specifico, secondo il Giudice, dal piano rialzato è ben visibile anche il piano superiore, circostanza che già consente di rilevare una totale disarmonia tra i piani, posto che al primo piano non vi è un'altra apertura in corrispondenza di quella che il proprietario vorrebbe realizzare. Quindi, il Tribunale ha ricordato che la Corte di Cassazione, con sentenza n. 851 del 2007 , ha affermato che: “ In tema di condominio negli edifici, per "decoro architettonico" deve intendersi l'estetica del fabbricato data dall'insieme delle linee e delle strutture che connotano lo stabile stesso e gli imprimono una determinata, armonica fisionomia ed una specifica identità; pertanto, nessuna influenza, ai fini della tutela prevista dall' art.1120 cod. civ. , può essere attribuita al grado di visibilità delle innovazioni contestate, in relazione ai diversi punti di osservazione dell'edificio, ovvero alla presenza di altre pregresse modifiche non autorizzate ”. Una ulteriore disarmonia geometrica emergerebbe altresì allo stesso piano rialzato, in cui non esiste un'altra apertura simmetrica sulla sinistra. A tal proposito, si ricorda che la simmetria è una declinazione del decorso architettonico come chiarito dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 14607/2012 : “ In tema di condominio, è illegittimo l'uso particolare o più intenso del bene comune, ai sensi dell' art. 1102 cod. civ. , ove si arrechi pregiudizio al decoro architettonico dell'edificio condominiale. (Nella specie, in applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, che aveva ritenuto illegittima la realizzazione di alcuni fori di porta o di finestra posti sulle facciate dell'edificio, i quali avevano alterato la simmetria dei fori preesistenti, producendo un risultato esteticamente sgradevole) ”. Inoltre, il Tribunale ha accertato che la nuova apertura verrebbe disposta in uno spazio ridotto, soffocato tra la scala e l'angolo del muro in cui sono financo posizionate delle tubature condominiali: pertanto, un'opera siffatta produce un effetto geometricamente sgradevole rispetto alla armonia ed al respiro che offre lo spazio del pianerottolo del piano rialzato con ringhiere in ferro battuto; pianerottolo che già di per sé non appare particolarmente ampio e che pertanto verrebbe ulteriormente gravato da una porta che ne riduce la profondità. Del resto, non a caso originariamente detto piano rialzato è stato realizzato (e mantenuto per decenni) con una sola apertura. Quindi, il Tribunale ha ritenuto una profonda forzatura l'incastro di una seconda porta tra le scale e l'angolo del muro, ciò comportando tra l'altro lo spostamento dell'interruttore ed un irregolare posizionamento del plafone sovrastante, che risulterebbe fuori asse rispetto alla porta. La stessa colorazione della parte inferiore del muro, sebbene non presenti decorazione alcuna, rappresenterebbe un elemento fortemente caratterizzante dell'edificio, proprio per la sua continuità geometrica lungo l'intero perimetro dei pianerottoli e delle scale, unitamente alla ringhiera in ferro battuto. Continuità interrotta dalle aperture già esistenti che, in quanto limitate e ordinatamente posizionate, sono in perfetto equilibrio con la descritta armonia della colorazione continuativa del muro, che, per contro, verrebbe forzatamente alterata dalla apertura di una porta ultronea. Una apertura siffatta invero trasforma completamente la fisionomia dell'originario pianerottolo, sia di per sé considerato sia in relazione ai piani superiori. Secondo il Giudice, il decoro architettonico dell'edificio merita dunque di essere tutelato, in quanto la trasformazione del muro comune “ rompe […] l'armonia e la continuità delle linee e delle forme geometriche dell'edificio ” (in tal senso, cfr. sentenza del 11 maggio 2012, già menzionata). Edificio che risale ai primi anni del ‘900, i cui interni sono tipici degli edifici di quel tempo, il cui possesso (materiale ed estetico) merita di essere tutelato a fronte della contraria volontà condominiale ad una sua trasformazione. Sebbene il resistente sostenga di aver agito convinto di esercitare un proprio diritto contro la volontà del Condominio, la sede possessoria non è quella in cui il Tribunale deve valutare la sussistenza del diritto in capo al singolo condomino ad effettuare opere di definitiva trasformazione di una parte comune. Pertanto, il Giudice ha sottolineato come non fosse quella la sede per valutare se il resistente avesse o meno il diritto all'apertura della seconda porta a seguito della originaria autorizzazione dell'amministratore, essendo, invece, sufficiente accertare, ai fini della tutela possessoria, che l'opera del resistente arreca una profonda molestia nel possesso del muro comune . Né varrebbe sostenere che sino ad oggi alcuna opera è stata ancora eseguita. La tutela possessoria è ammissibile non solo dal momento in cui si siano già verificati lo spoglio o la molestia, bensì anche laddove comportamenti univoci conducono a ritenere che quello spoglio e quella molestia comprometteranno il possesso. In tal senso si è espressa la Suprema Corte, affermando che “ Perché sussista turbativa del possesso non è necessario che siano state poste in essere alterazioni fisiche attuali della situazione di fatto tutelabile, ma è sufficiente che l'altrui comportamento denunziato dal ricorrente, risulti idoneo a porre in pericolo o in dubbio il libero esercizio del possesso, di guisa che l'azione di manutenzione devesi considerare utilmente esperita anche in via preventiva ogniqualvolta sussista una minaccia di compromissione della preesistente situazione di fatto in ragione di un comportamento nel quale siano ravvisabili i presupposti logico e materiale di un possibile successivo ulteriore comportamento direttamente lesivo del possesso ” [2] In conclusione, quindi, secondo il Tribunale, sussistono i presupposti per l'accoglimento della domanda ex art. 1170 c.c. e, per l'effetto, per ordinare al resistente a sue cure e spese, l'immediata cessazione di ogni turbativa e molestia all'esercizio del possesso del muro condominiale, provvedendo alla rimozione di ogni parte di cantiere eventualmente allestito, nelle more del giudizio, nelle parti comuni del Condominio ricorrente. [1] Cass., 22 giugno 1995, n. 7069 ; Cass. 10 luglio 1985 n. 4109 . [2] Cass. sentenza n. 14868/2000
Cass. civ., sez. unite, 25.7.2025, n. 21271 L’ art. 6 bis della l. n. 212 del 2000 (introdotto dall’ art. 1, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 219 del 2023 , come interpretato autenticamente dall’art. 7 bis del d.l. n. 39 del 2024 e attuato dal d.m. 24.4.2024) è una disposizione innovativa che (salvo talune eccezioni indicate nel suo comma 2) ha introdotto anche nell’ordinamento tributario il principio generale di obbligatorietà del contraddittorio procedimentale , “informato ed effettivo”, mediante la comunicazione al contribuente di uno “schema d’atto” con contestuale fissazione del termine di sessanta giorni per la presentazione di controdeduzioni e dell’obbligo a carico dell’Amministrazione di motivare le osservazioni non accolte. Precedentemente, nell’ordinamento tributario italiano non era codificato per l’Amministrazione finanziaria il generale obbligo di attivare il contraddittorio endoprocedimentale con il contribuente, anche alla luce del fatto che l’ art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 2000 prevedeva il contraddittorio solo per gli accertamenti consequenziali ad accessi, ispezioni e verifiche presso i luoghi di riferimento del contribuente, con esclusione quindi delle verifiche cc.dd. “a tavolino” . Nell’ordinamento dell’Unione europea, invece, l’obbligo generale di attivazione del contraddittorio in capo all’Amministrazione rappresenta un principio pienamente acquisito e la giurisprudenza unionale afferma da tempo che il diritto a una buona amministrazione sancito dall’ art. 41, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea è inteso anche come “ il diritto a che le questioni siano trattate in modo imparziale, equo ed entro un termine ragionevole dalle istituzioni e dagli organi dell’Unione ”. Tuttavia, sempre secondo la giurisprudenza unionale, la violazione dell’obbligo di contraddittorio, in assenza di una norma specifica che ne definisca in termini puntuali le conseguenze, comporta l’invalidità dell’atto solo quando il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e se, in mancanza del suddetto vizio, il procedimento si sarebbe potuto concludere in maniera diversa. Questo criterio è stato recepito dal giudice nazionale il quale ha riconosciuto che i principi fondamentali del diritto europeo impongono, nell’ambito dei cosiddetti “tributi armonizzati”, ove ha luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, un generale obbligo dell’Amministrazione di instaurare un’interlocuzione preventiva con il contribuente, la cui inosservanza può portare all’invalidità dell’atto impositivo solo quando il contribuente assolve alla “ prova di resistenza ” ( Cass. civ., sez. unite, 9.12.2015, n. 24823 ). La giurisprudenza nazionale successiva alla fondamentale pronuncia delle Sezioni Unite del 2015 ha fornito interpretazioni oscillanti sull’oggetto della prova di resistenza. Alcune sentenze hanno richiesto l’allegazione da parte del contribuente delle ragioni che avrebbe potuto far valere e non ha proposto, correlando la valutazione di non pretestuosità alla astratta rilevanza delle difese non potute svolgere in relazione all’addebito contestato, ossia alla loro idoneità a incidere sull’esito del procedimento, senza accenno a valutazioni giudiziali di tipo prognostico sui diversi possibili esiti procedimentali; altre sentenze invece ritenuto necessario la verifica in concreto dell’impatto del vizio sul procedimento , talora inasprendo il contenuto della prova di resistenza mediante la richiesta al contribuente della dimostrazione della idoneità delle ragioni addotte a incidere a suo favore sull’esito finale dell’accertamento. La sentenza a sezioni unite qui segnalata ha bene chiarito l’oggetto della prova di resistenza affermando il seguente principio di diritto: « con riguardo alla disciplina previgente ed alle verifiche ‘a tavolino’ su tributi armonizzati, la violazione dell’obbligo di contraddittorio procedimentale comporta l’invalidità dell’atto purché il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto gli ‘elementi in fatto’ che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa, fittizia o strumentale, tale essendo quella non idonea, secondo una valutazione probabilistica ex ante spettante al giudice di merito, a determinare un risultato diverso del procedimento impositivo ». La Corte è giunta a tale conclusione, invero di portata generale in tema di “prova di resistenza”, osservando che: - il contraddittorio preventivo ha natura endoprocedimentale, non processuale, ed è funzionale alla costruzione istruttoria della fattispecie impositiva mediante l’allegazione di “fatti e circostanze” di cui l’Amministrazione non è a conoscenza, operando essa da una sfavorevole posizione iniziale di asimmetria informativa che può essere colmata solo con l’apporto conoscitivo del contribuente ; l’accollo della prova di resistenza a carico del contribuente trova giustificazione proprio in questa strutturale asimmetria e nella correlata vicinanza al contribuente dell’elemento da acquisire; - la potenzialità del richiesto “risultato diverso” (che costituisce il nucleo dimostrativo fondamentale) deve essere comprovata con la “ specifica indicazione dei fatti e delle informazioni mancate ”, in una con la loro concreta e ragionevole idoneità a orientare l’Amministrazione a non più adottare il provvedimento impositivo, oppure ad adottarlo con un contenuto oggettivamente o soggettivamente più mite; - i fatti deducibili nel contraddittorio preventivo non sono necessariamente gli stessi che possono essere dedotti in sede giurisdizionale; - il giudice di merito, nell’esaminare il vizio di mancato esperimento del contraddittorio endoprocedimentale, deve “ compiere - prima ed indipendentemente dal giudizio di fondatezza dell’impugnazione - una valutazione rispondente ai tipici canoni della prognosi postuma ex ante (perché riguardante il momento dell’omesso contraddittorio preventivo), ispirata a parametri di fattualità, specificità, concretezza, probabile idoneità causale dell’elemento tralasciato a sortire un risultato diverso del procedimento impositivo , solo per questa via escludendosi il carattere meramente pretestuoso, vacuo e strumentale dell’istanza ”. In definitiva, la prova di resistenza deve avere ad oggetto “elementi di tipo fattuale” e non di natura esclusivamente giuridica, elementi che si presentino attinenti e rilevanti nella fattispecie concreta, elementi che si dimostrino potenzialmente idonei, indipendentemente dalla loro fondatezza, a deviare in senso favorevole al contribuente l’esito dell’istruttoria accertativa.