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Autore: Alma Chiettini 12 agosto 2025
Cass. civ., sez. unite, 25.7.2025, n. 21271 L’ art. 6 bis della l. n. 212 del 2000 (introdotto dall’ art. 1, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 219 del 2023 , come interpretato autenticamente dall’art. 7 bis del d.l. n. 39 del 2024 e attuato dal d.m. 24.4.2024) è una disposizione innovativa che (salvo talune eccezioni indicate nel suo comma 2) ha introdotto anche nell’ordinamento tributario il principio generale di obbligatorietà del contraddittorio procedimentale , “informato ed effettivo”, mediante la comunicazione al contribuente di uno “schema d’atto” con contestuale fissazione del termine di sessanta giorni per la presentazione di controdeduzioni e dell’obbligo a carico dell’Amministrazione di motivare le osservazioni non accolte. Precedentemente, nell’ordinamento tributario italiano non era codificato per l’Amministrazione finanziaria il generale obbligo di attivare il contraddittorio endoprocedimentale con il contribuente, anche alla luce del fatto che l’ art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 2000 prevedeva il contraddittorio solo per gli accertamenti consequenziali ad accessi, ispezioni e verifiche presso i luoghi di riferimento del contribuente, con esclusione quindi delle verifiche cc.dd. “a tavolino” . Nell’ordinamento dell’Unione europea, invece, l’obbligo generale di attivazione del contraddittorio in capo all’Amministrazione rappresenta un principio pienamente acquisito e la giurisprudenza unionale afferma da tempo che il diritto a una buona amministrazione sancito dall’ art. 41, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea è inteso anche come “ il diritto a che le questioni siano trattate in modo imparziale, equo ed entro un termine ragionevole dalle istituzioni e dagli organi dell’Unione ”. Tuttavia, sempre secondo la giurisprudenza unionale, la violazione dell’obbligo di contraddittorio, in assenza di una norma specifica che ne definisca in termini puntuali le conseguenze, comporta l’invalidità dell’atto solo quando il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e se, in mancanza del suddetto vizio, il procedimento si sarebbe potuto concludere in maniera diversa. Questo criterio è stato recepito dal giudice nazionale il quale ha riconosciuto che i principi fondamentali del diritto europeo impongono, nell’ambito dei cosiddetti “tributi armonizzati”, ove ha luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, un generale obbligo dell’Amministrazione di instaurare un’interlocuzione preventiva con il contribuente, la cui inosservanza può portare all’invalidità dell’atto impositivo solo quando il contribuente assolve alla “ prova di resistenza ” ( Cass. civ., sez. unite, 9.12.2015, n. 24823 ). La giurisprudenza nazionale successiva alla fondamentale pronuncia delle Sezioni Unite del 2015 ha fornito interpretazioni oscillanti sull’oggetto della prova di resistenza. Alcune sentenze hanno richiesto l’allegazione da parte del contribuente delle ragioni che avrebbe potuto far valere e non ha proposto, correlando la valutazione di non pretestuosità alla astratta rilevanza delle difese non potute svolgere in relazione all’addebito contestato, ossia alla loro idoneità a incidere sull’esito del procedimento, senza accenno a valutazioni giudiziali di tipo prognostico sui diversi possibili esiti procedimentali; altre sentenze invece ritenuto necessario la verifica in concreto dell’impatto del vizio sul procedimento , talora inasprendo il contenuto della prova di resistenza mediante la richiesta al contribuente della dimostrazione della idoneità delle ragioni addotte a incidere a suo favore sull’esito finale dell’accertamento. La sentenza a sezioni unite qui segnalata ha bene chiarito l’oggetto della prova di resistenza affermando il seguente principio di diritto: « con riguardo alla disciplina previgente ed alle verifiche ‘a tavolino’ su tributi armonizzati, la violazione dell’obbligo di contraddittorio procedimentale comporta l’invalidità dell’atto purché il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto gli ‘elementi in fatto’ che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa, fittizia o strumentale, tale essendo quella non idonea, secondo una valutazione probabilistica ex ante spettante al giudice di merito, a determinare un risultato diverso del procedimento impositivo ». La Corte è giunta a tale conclusione, invero di portata generale in tema di “prova di resistenza”, osservando che: - il contraddittorio preventivo ha natura endoprocedimentale, non processuale, ed è funzionale alla costruzione istruttoria della fattispecie impositiva mediante l’allegazione di “fatti e circostanze” di cui l’Amministrazione non è a conoscenza, operando essa da una sfavorevole posizione iniziale di asimmetria informativa che può essere colmata solo con l’apporto conoscitivo del contribuente ; l’accollo della prova di resistenza a carico del contribuente trova giustificazione proprio in questa strutturale asimmetria e nella correlata vicinanza al contribuente dell’elemento da acquisire; - la potenzialità del richiesto “risultato diverso” (che costituisce il nucleo dimostrativo fondamentale) deve essere comprovata con la “ specifica indicazione dei fatti e delle informazioni mancate ”, in una con la loro concreta e ragionevole idoneità a orientare l’Amministrazione a non più adottare il provvedimento impositivo, oppure ad adottarlo con un contenuto oggettivamente o soggettivamente più mite; - i fatti deducibili nel contraddittorio preventivo non sono necessariamente gli stessi che possono essere dedotti in sede giurisdizionale; - il giudice di merito, nell’esaminare il vizio di mancato esperimento del contraddittorio endoprocedimentale, deve “ compiere - prima ed indipendentemente dal giudizio di fondatezza dell’impugnazione - una valutazione rispondente ai tipici canoni della prognosi postuma ex ante (perché riguardante il momento dell’omesso contraddittorio preventivo), ispirata a parametri di fattualità, specificità, concretezza, probabile idoneità causale dell’elemento tralasciato a sortire un risultato diverso del procedimento impositivo , solo per questa via escludendosi il carattere meramente pretestuoso, vacuo e strumentale dell’istanza ”. In definitiva, la prova di resistenza deve avere ad oggetto “elementi di tipo fattuale” e non di natura esclusivamente giuridica, elementi che si presentino attinenti e rilevanti nella fattispecie concreta, elementi che si dimostrino potenzialmente idonei, indipendentemente dalla loro fondatezza, a deviare in senso favorevole al contribuente l’esito dell’istruttoria accertativa.
Autore: a cura di Federico Smerchinich 11 agosto 2025
TAR Lazio, Roma, sentenza n. 9437 pubblicata il 19 maggio 2025 IL CASO E LA DECISIONE (commento di Federico Smerchinich) Tra i vari strumenti che il legislatore ha previsto per risolvere in maniera alternativa, o meglio preventiva, le controversie nell’ambito dell’esecuzione dei contratti pubblici, vi è il collegio consultivo tecnico (di seguito “CCT”), introdotto dal d.l. n. 76/2020 , il c.d. decreto “Semplificazioni”, nella vigenza del d.lgs. n. 50/2016, e confermato, oltre che aggiornato, dal d.lgs. n. 36/2023 e dal suo correttivo. Questo istituto sta riscontrando particolare successo pratico, ma è anche stato fonte di dibattito e discussione nelle aule giudiziarie, come nella sentenza in commento. Difatti, uno degli snodi cruciali dell’applicazione di questo istituto è capire chi ne possa essere membro o presidente. Il caso portato all’attenzione della giurisprudenza amministrativa prende le mosse da un ricorso proposto da alcuni avvocati in proprio e dall’Ordine degli avvocati di Roma per l’annullamento in parte qua del decreto del Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili (di seguito “MIMS”) n. 12 del 17.01.2022 , di adozione delle linee guida per l’omogenea applicazione da parte delle stazioni appaltanti delle funzioni del collegio consultivo tecnico. Difatti, l’ art. 6 comma 8 bis d.lgs. n. 76/2020 ha individuato nel MIMS il soggetto che deve determinare i requisiti per accedere al ruolo di membro del CCT e tale Ministero ha predisposto un decreto contenente i requisiti e le indicazioni sulle compatibilità con tali ruoli, ma escludendo gli avvocati del libero foro da tale possibilità. Nell’ambito del giudizio in commento vi è stato anche l’intervento ad adiuvandum di un’associazione specialistica che rappresenta parte degli avvocati amministrativisti. Nella sostanza i ricorrenti hanno contestato che il decreto del MIMS avrebbe esplicitamente escluso gli avvocati del libero foro dalla possibilità di ricoprire il ruolo di presidente dei CCT. In particolare, è stato evidenziato che l’allegato A al decreto del MIMS, nel fissare i requisiti esperienziali per la nomina del "giurista", non avrebbe contemplato, tra i professionisti ivi elencati, gli avvocati del libero foro come possibili presidenti del CCT. Una soluzione che sarebbe stata contraddittoria rispetto all’art. 6 d.l. n. 76/2020 che aveva introdotto questo istituto, ma anche discriminatoria rispetto alla nomina degli avvocati in altri ruoli come quello di giudice della Corte Costituzionale, membro laico del CSM o membro della Camera Arbitrale presso l’ANAC, dove l’avvocato del libero foro è equiparato ad altre figure professionali. I ricorrenti hanno anche ricordato che la legge professionale forense n. 247/2012 riconosce agli avvocati del libero foro un ruolo di rilevanza pubblicistica e gli garantirebbe, quale prerogativa dell’istituto, un ruolo negli organi di natura tecnica. Infine, è stata contestata altresì l’assenza del parere del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici da parte del MIMS prima della stesura del decreto impugnato. Da parte sua, il Ministero si è difeso sostenendo che il decreto ammetterebbe comunque la partecipazione degli avvocati alla presidenza dei CCT, purché dimostrino il possesso di certi (ulteriori) requisiti. Nelle more del processo, dopo l’accoglimento dell’istanza cautelare con sospensione degli atti contestati, è mutata la disciplina sui contratti pubblici, con la pubblicazione del d.lgs. n. 36/2023 , dove l’istituto del CCT è stato riconfermato e "istituzionalizzato"; d'altra parte, la disciplina in materia di requisiti tecnici per la nomina come componente e presidente di CCT è stata resa autonoma dal decreto ministeriale del 2022 soltanto con la pubblicazione del c.d. "correttivo" al codice ( d.lgs. n. 209/2024 ). I ricorrenti hanno in ogni caso manifestato la permanenza del loro interesse alla decisione del ricorso , in quanto, pur avendo la sopravvenienza normativa eliminato la presunta discriminazione ai danni degli avvocati del libero foro, soltanto la conferma nel merito dell'illegittimità del pregresso decreto ministeriale avrebbe potuto consolidare gli effetti positivi derivanti dalla nomine nel frattempo avvenute in favore dei singoli professionisti, sulla base della sospensiva accordata dal TAR. In via preliminare, il Giudice di primo grado ha dichiarato inammissibile l’intervento ad adiuvandum di un avvocato in proprio , richiamando la giurisprudenza che non ritiene possibile l’intervento in giudizio della parte che avrebbe potuto proporre ricorso autonomo, e quello dell’associazione specialistica, rilevando in tal caso la sostanziale non omogeneità della posizione di tutti gli iscritti dell’associazione, tenuto conto che per ogni categoria professionale contemplata dal gravato punto 2.4.2., lett. c), dell’Allegato A, del d.m. n. 12/2022 era richiesto il possesso di una specifica esperienza decennale per poter assumere l’incarico di presidente del CCT, e che non fosse dunque " escluso che alcuni degli iscritti all’associazione, per ragioni di carattere temporale, non possiedano ancora tale requisito e, quindi, non possano attualmente ambire allo svolgimento dell’incarico in questione (...) ". Secondariamente, il TAR si è pronunciato sulla permanenza dell’interesse a ricorrere dei ricorrenti. In particolare, il giudice di prime cure ha concordato con i ricorrenti sul fatto che, mentre il d.lgs. n. 36/2023, con gli artt. 215-219, ha superato la fase transitoria disposta dal d.l. n. 76/2020, rinviando comunque alla disciplina del d.m. n. 12/2022 contestato, solo con il cd. correttivo si è definitivamente abbandonato tale decreto ministeriale. Da questo momento in poi, infatti, è stato lo stesso d.lgs. n. 36/2023 a divenire fonte normativa del CCT tramite il suo allegato V.2 art. 2 rubricato “Requisiti e incompatibilità”. Alla luce di questa disamina, il TAR ha accertato la permanenza dell’interesse a ricorrere relativamente agli incarichi di presidente assunti prima della novella legislativa introdotta con il correttivo d.lgs. n. 209/2024, nelle more consentita solo in virtù della sospensione cautelare richiesta e concessa con riferimento allo stesso decreto ministeriale oggetto di impugnazione. Difatti, dal correttivo in avanti è pacifico che anche gli avvocati del libero foro possono divenire presidenti del CCT in presenza dei requisiti richiesti. Inoltre, il TAR ha precisato che i requisiti di cui alle lett. da a) ad f) dell’art. 2 comma1 allegato V.2. d.lgs. n. 36/2023 possano essere cumulati. Dopo aver risolto le questioni di rito, il TAR ha proceduto all'esame di merito del ricorso, ritenendo illegittimo che gli avvocati del libero foro non fossero stati espressamente annoverati tra le figure professionali che il MIMS aveva incluso nella categoria dei giuristi di cui all’art. 2.4.2. lett. c) del d.m. 12/2022, in quanto tali idonei a divenire presidenti del CCT. Secondo il TAR, questa esclusione sarebbe irragionevole , dato che consentirebbe solo agli avvocati con esperienza ultra decennale da presidente presso le commissioni per l’accordo bonario di divenire presidente di CCT, anche considerando che ormai le commissioni per l’accordo bonario sono un istituto in disuso. Inoltre, il TAR ha rilevato un interessante profilo di illegittimità del decreto, laddove, pur escludendo gli avvocati del libero foro, giustappone a qualifiche derivanti da un rapporto di dipendenza con lo Stato, altre qualifiche prive di un vincolo funzionale con l’amministrazione statale (es. dirigenti di stazioni appaltanti con personalità giuridica di diritto privato) che agiscono iure privatorum e solo occasionalmente sono funzionali al raggiungimento di interessi pubblici. Un’equiparazione in melius di tali soggetti con i dipendenti delle amministrazioni statali che si rivela dunque anch'essa irragionevole e discriminatoria, se confrontata con la contestuale decisione di escludere da tale ambito gli avvocati. In conclusione, il TAR ritiene che la scelta del MIMS di escludere gli avvocati del libero foro dai soggetti che possono essere presidenti del CCT non risulta espressione di un corretto e ragionevole esercizio della discrezionalità riconosciuta al Ministero dall’art. 6 comma 8 bis d.l. n. 76/2020, anche considerando che questa norma al comma 1 prevede che una delle funzioni del CCT sia quella di prevenire e risolvere le controversie nella fase esecutiva dei contratti pubblici e che l’esclusione si pone in contraddizione con la possibilità di nominare gli avvocati come membri della Camera Arbitrale presso l’ANAC di cui all’art. 210 d.lgs. n. 36/2023. All’esito di tali argomentazioni, il TAR ha accolto dunque il ricorso, precisando tuttavia che, stante l’intervento del correttivo sul d.lgs. n. 36/2023 - che ha, di fatto, abrogato il d.m. n. 12/2022 -, nessuna modifica normativa deve essere apportata dal MIMS in conseguenza di tale pronuncia. I GIURISTI DI CARRIERA E IL NUOVO ISTITUTO: LIMITI E PERICOLI (annotazione a cura di Roberto Lombardi) Sembra abbastanza paradossale che il TAR Lazio abbia dovuto "sbloccare", prima con una pronuncia cautelare e poi con una decisione "confermativa" di merito, la possibilità di nomina come presidente di CCT per gli avvocati. Se infatti si guarda agli obiettivi dell'istituto, alle competenze richieste e all'effettiva vicinanza alle parti di chi presiede il Collegio, la figura dell'avvocato "esperto" pare garantire al meglio (o quasi) una buona interpretazione del ruolo. Più discutibile invece è lo sdoganamento normativo , senza se e senza ma, in favore dei magistrati , per lo svolgimento di questo ruolo. Dopo il divieto assoluto di arbitrati , stabilito nell'ormai lontano 2012 dalla Legge Severino, qualcuno si è chiesto, non senza ragioni, se il legislatore del 2020 ("decreto semplificazione" del luglio 2020), che ha introdotto i Collegi Consultivi Tecnici, non abbia di fatto aggirato il divieto. D’altra parte, posto che il Collegio Consultivo Tecnico ha la funzione di assistenza per la rapida risoluzione delle controversie, o delle dispute tecniche di ogni natura, suscettibili di insorgere nel corso dell’esecuzione del contratto di affidamento di lavori diretti alla realizzazione di opere pubbliche, ivi inclusi i lavori di manutenzione straordinaria, e che per i lavori sopra soglia l’istituzione del Collegio Consultivo Tecnico è obbligatorio , trattasi in ogni caso di attività consultiva . Ciò la distingue nettamente dall'attività degli arbitrati: il collegio consultivo, infatti, non dirime una controversia, ma previene e affianca la stazione appaltante nella fase esecutiva, ovvero – nell’ipotesi di collegi consultivi tecnici facoltativi - anche nella fase di stesura di predisposizione del bando e di scelta del contraente. Tuttavia, secondo la linea di pensiero critica nei confronti della forte apertura del nuovo istituto ai magistrati, il rischio di possibili pregiudizi alla imparzialità di questa articolare tipologia di giurista, che aveva giustificato il divieto degli arbitrati, è qui forse ancora maggiore, data la inevitabile commistione tra magistrato e stazione appaltante. Di certo, un ruolo fondamentale spetta alla disciplina interna dei singoli organi di autogoverno, a cui è devoluto il compito di meglio definire regole che la normativa ha lasciato a maglie larghe. Il sistema ideale sarebbe quello del conferimento , basato su criteri oggettivi e rigidamente predeterminati, in grado di ridimensionare la possibilità di vincoli fiduciari impropri. Tuttavia, almeno nella giustizia amministrativa - tra le cui file, specie al Consiglio di Stato, si annoverano i principali beneficiari delle presidenze dei più importanti di CCT - il sistema tipico è quello dell'autorizzazione, con richiesta nominativa da parte di stazione appaltante e impresa appaltatrice. A questo riguardo , la disciplina interna in materia di incarichi di presidente dei collegi consultivi tecnici è stata regolamentata dal CPGA con delibera n. 65 del 2020 e ha subito una sostanziale modifica nei suoi aspetti più significativi, a seguito di ulteriore delibera adottata dal Consiglio nella seduta del 5 luglio 2023. Si è passati da una incompatibilità automatica ex ante (nel caso di partecipazione, nell’anno precedente all'incarico, a un collegio che aveva deciso una controversia in cui era parte il soggetto privato o pubblico coinvolto nell'appalto) a un sistema di “disclosure” con riserva di gradimento. In pratica, una volta che l’interessato ha ricevuto l'incarico dai due soggetti coinvolti nell’esecuzione dell’appalto, la segreteria dell’Ufficio di appartenenza del magistrato destinatario di tale incarico verifica se costui ha fatto parte di un collegio che ha deciso, nei due anni precedenti alla sua designazione, un contenzioso coinvolgente una delle partiche gli hanno conferito l’incarico stesso. Se il riscontro è positivo, tale notizia viene comunicata ai due soggetti interessati, affinché gli stessi possano rideterminarsi negativamente, se lo desiderano, rispetto all'incarico già conferito. Il ragionamento sottostante a tale scelta del Consiglio di Presidenza è che le parti che attribuiscono l'incarico, prima della designazione del magistrato, potrebbero non essere a conoscenza di eventuali cause di incompatibilità; tuttavia, l'incompatibilità normalmente valorizzata dall'Organo di autogoverno è quella riferibile a una potenziale lesione dell'immagine del magistrato e a un sostanziale pregiudizio al corretto svolgimento delle sue funzioni, con interesse dei privati che dovrebbe restare sullo sfondo. Sono stati inoltre introdotti tre limiti alla maggiore elasticità della nuova disciplina: - la possibilità che il Capo dell'Ufficio possa sindacare il pregiudizio di funzionalità derivante dall'incarico (con un parere di “opportunità”); - il limite numerico massimo di tre incarichi per volta; - l'obbligo di comunicazione semestrale dei compensi ricevuti in relazione all'incarico stesso (poi diventato annuale). Da notare, a tale ultimo riguardo, che la parte fissa del compenso per la partecipazione a un CCT è soltanto eventuale, perché subordinata alla partecipazione ad almeno 4 riunioni. Il calcolo del compenso è inoltre soggetto a una serie di riferimenti matematici che lo rendono molto complesso (oltre che, come detto, presuntivo), per cui in sede di prima applicazione delle norme interne è stata ritenuta sufficiente l'indicazione del parametro principale di valutazione, che resta il valore dell'appalto da eseguire. La questione riveste comunque molta importanza in rapporto al rispetto del limite del 65% della retribuzione media della qualifica di appartenenza del magistrato, limite entro cui deve essere contenuta la remunerazione per gli incarichi extraistituzionali se l’anno successivo se ne vuole assumere un altro, e si tratta in ogni caso di somme (almeno quelle pagate dal privato) che fuoriescono dal tetto retributivo massimo stabilito per i dipendenti pubblici dal legislatore. Occorre peraltro verificare, adesso che la Corte costituzionale con la sentenza n. 135 di quest'anno ha dichiarato l'illegittimità sopravvenuta della norma sul “tetto retributivo”, se continuerà o meno, da parte dei magistrati (specie di quelli amministrativi), la preferenza per le presidenze dei CCT - dato che parte del compenso ricevuto, ovvero quello di competenza della parte privata, non soggiace al citato "tetto" -, o se si riapriranno i tradizionali percorsi verso il cumulo di incarichi governativi ben remunerati, una parte dei quali, per il livello stipendiale e retributivo raggiunto dal magistrato assegnatario dell'ulteriore incarico, era fino ad oggi, di fatto, svolta a titolo "gratuito".
Autore: a cura di Roberto Lombardi 30 luglio 2025
PREMESSA Prima della disciplina organica stabilita dal d.lgs. n. 45 del 2024 , il collocamento fuori ruolo dei magistrati (in particolare, di quelli ordinari) era disciplinato in maniera non sistematica dall’ art. 50 d.lgs n. 160/2006 e dalla legge n. 190/2012 . Più in generale, la fonte normativa primaria del collocamento fuori ruolo dei pubblici dipendenti è costituita dall’ art. 58 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 ; tale norma, in forza della disposizione di cui all’ art. 276, comma 3 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 , era estensibile anche ai magistrati appartenenti all’ordine giudiziario. Di fatto, alcuni incarichi extragiudiziari, per il tipo di impegno che richiedono, presuppongono che il magistrato sia collocato fuori dal ruolo organico della magistratura. L’istituto del collocamento fuori ruolo prevede che il magistrato chiamato a esercitare funzioni ontologicamente diverse dalle attribuzioni proprie della qualifica giudiziaria si distacca dalla struttura istituzionale d’origine e, pur conservando lo status di cui godeva presso l’amministrazione di appartenenza, lascia vacante l’ufficio del quale era titolare, che può essere assegnato, così, a un altro magistrato. Si tratta in altri termini di una modifica oggettiva e temporanea del rapporto di lavoro , per effetto della quale il dipendente viene destinato a svolgere, presso un’amministrazione diversa da quella di appartenenza, compiti speciali che presentano un qualche interesse (anche) per l’amministrazione originaria, senza recidere con quest’ultima ogni rapporto. Vi sono sempre stati, d’altra parte, molteplici discussioni in merito all’opportunità del collocamento fuori ruolo dei magistrati, in quanto le critiche rivolte a tale istituto sono essenzialmente tre: - l’amministrazione della giustizia non ne trarrebbe in concreto alcun vantaggio; - la destinazione ad altri incarichi avrebbe conseguenze negative in termini di organico e di sottrazione di energie lavorative agli uffici giudiziari; - una prolungata assenza dai ruoli potrebbe determinare una diminuzione del sapere professionale, con ricadute negative sul sistema giustizia al momento del ritorno alla giurisdizione. Si è, per altro verso, e in senso contrario, ritenuto che i magistrati fuori ruolo costituiscano una risorsa indispensabile e strategica sia per il miglioramento dell’efficienza di importanti settori dell’amministrazione sia per l'accrescimento del prestigio che la magistratura nel suo complesso riceve per la qualità dell’opera che la professionalità dei magistrati sa rendere anche al di fuori dell’esercizio delle funzioni giurisdizionali. Sotto questo profilo, il problema sarebbe consistito, più che altro, nell’introdurre o rendere più efficaci, nella normativa primaria e secondaria, alcuni principi di fondo volti a contemperare le esigenze delle amministrazioni “di destinazione” con quelle dell’amministrazione giudiziaria. E’ stato evidenziato, a tale riguardo, che le norme introdotte dalla legge 6 novembre 2012, n. 190 avevano lasciano insoddisfatte alcune esigenze avvertite dalla magistratura come necessarie per la razionalizzazione del sistema, con particolare riferimento all’accesso agli incarichi, alla durata degli stessi, alla valutazione dell’attività prestata fuori ruolo e alla disciplina del rientro in ruolo. LA DISCIPLINA DEI FUORI RUOLO NELL’AMBITO DELLA MAGISTRATURA AMMINISTRATIVA L’ art. 1, comma 1 della L. n. 71 del 2022 ha delegato Il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi recanti disposizioni finalizzate alla trasparenza e all'efficienza dell'ordinamento giudiziario. Tra le materie da modificare, nel rispetto dei criteri direttivi previsti dalla stessa legge delega, vi era anche il riordino della disciplina del collocamento fuori ruolo dei magistrati ordinari, amministrativi e contabili . Il Governo, nell’attuare tale delega, avrebbe dovuto individuare, tra l’altro, le tipologie di incarichi extragiudiziari da esercitare esclusivamente con contestuale collocamento fuori ruolo per tutta la durata dell'incarico, rispettare il principio secondo cui condizione dell'incarico da conferire è che lo stesso corrisponda a un interesse dell'amministrazione di appartenenza e prevedere la necessità di valutare sempre puntualmente le possibili ricadute che lo svolgimento dell'incarico fuori ruolo potrebbe determinare sotto i profili dell'imparzialità e dell'indipendenza del magistrato. Sono stati poi previsti limiti di rilevanza e di tempo degli incarichi, con possibilità di individuazione di tassative deroghe, oltre che la necessità di individuazione della soglia di scopertura di organico della sede di servizio del magistrato oltre la quale non può essere autorizzato il fuori ruolo e la necessità di riduzione del numero massimo di fuori ruolo autorizzabili, con previsione della “ possibilità di collocamento fuori ruolo dei magistrati per la sola copertura di incarichi rispetto ai quali risultino necessari un elevato grado di preparazione in materie giuridiche o l'esperienza pratica maturata nell'esercizio dell'attività giudiziaria o una particolare conoscenza dell'organizzazione giudiziaria ”. La delega è stata infine attuata, seppure tardivamente rispetto al limite temporale stabilito per legge, dal d.lgs. n. 45 del 2024 . Facendo un passo indietro, per ciò che concerne la magistratura amministrativa , e prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina, vi era una delibera interna del Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa ( delibera del 10 maggio 2013 ) che, nel richiamare la normativa all’epoca vigente, distingueva tra fuori ruolo obbligatorio senza limiti, fuori ruolo obbligatorio con limiti e collocamento in fuori ruolo facoltativo . Con riferimento a quest’ultimo tipo di fuori ruolo, lo stesso veniva disposto in “ conseguenza della ritenuta impossibilità o inopportunità del contemporaneo svolgimento delle funzioni istituzionali e dell’incarico extra-istituzionale ”. Il totale dei magistrati collocati fuori ruolo non poteva superare, nel vecchio regime, il numero massimo di 26 (dal 2026 tale numero scenderà a 25), ad eccezione dei fuori ruolo obbligatorio “senza limiti” (a titolo esemplificativo: Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro, Sottosegretario di Stato, Giudice costituzionale), i quali dovevano sempre essere autorizzati, con eventuale contestuale rientro in ruolo dei fuori ruolo facoltativi e via via, secondo specifici criteri, dei fuori ruolo meno “vincolati” e vincolanti. La nuova disciplina ha di fatto posto il problema dell’abrogazione implicita della delibera interna che si era data l’organo di autogoverno in materia, ed è stata allo scopo designata una Commissione speciale che possa riordinare – specie nei punti in cui vengono affidate all’organo di autogoverno alcune scelte strategiche (ad esempio, individuazione della scopertura di organico degli Uffici oltre il quale non è consentibile il collocamento in fuori ruolo) – la cornice normativa applicabile ai magistrati amministrativi. Pare in ogni caso vincolante, rispetto a ogni altra "indicazione interna", la volontà del legislatore, espressa all' art. 2 del d.lgs. n. 45 del 2024 , secondo cui il magistrato deve sempre essere collocato in fuori ruolo, qualora l'incarico da svolgere presso altro ente pubblico non garantisca " l'integrale svolgimento ordinario del lavoro giudiziario ". Nel frattempo, è prevalsa nel tempo l’interpretazione secondo cui anche i “fuori ruolo” possono essere autorizzati per lo svolgimento di ulteriori incarichi extraistituzionali, entro i limiti di cui all’ art. 4 comma 3, lett. h) della delibera del 18 dicembre 2001 del Consiglio di Presidenza (preesistenza di un incarico continuativo presso l’amministrazione interessata all’incarico stesso o presso altra amministrazione, qualora, nel secondo caso, il magistrato abbia in corso di svolgimento anche un altro incarico non continuativo). E anche il limite originariamente stabilito dalla delibera in materia di autorizzazione di incarichi di Presidente di collegio consultivo tecnico (secondo cui il magistrato fuori ruolo o in aspettativa non poteva assumere tale incarico) è stato rimosso dal Consiglio di Presidenza nella seduta del 19 dicembre 2024. I CASI PIU’ RILEVANTI TRATTATI DAL CPGA DOPO L’ENTRATA IN VIGORE DELLE NUOVE NORME Pur nell’assenza perdurante della nuova disciplina interna imposta dal d.lgs. n. 45 del 2025, e dopo l’entrata in vigore di tale decreto legislativo, il Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa si è trovato ad affrontare, negli ultimi mesi, alcune delicate questioni sistematiche afferenti a richieste di collocamento in fuori ruolo (o di prosecuzione dello status di fuori ruolo presso la stessa o presso altra amministrazione). Si sono presentate, in particolare, cinque particolari situazioni rispetto alle quali il Consiglio ha dovuto riflettere a fondo sulla valutazione puntuale da effettuare, anche alla luce delle nuove norme. In un primo caso, un magistrato amministrativo in servizio presso il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sede di Milano – Ufficio già gravato dalla presenza di tre giudici con sgravio di 2/3 in quanto componenti dell’organo di autogoverno – ha chiesto l’autorizzazione a svolgere in fuori ruolo l’incarico di coordinatore del Gruppo di Lavoro sulla digitalizzazione dei contratti pubblici (Gruppo DIGIT) istituito presso il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Nel dibattito che si è svolto in Plenum da un lato è stata fatta rilevare l’esplicita richiesta di fuori ruolo avanzata con missiva dal Ministro competente, dall’altro si è evidenziata la rilevante scopertura di organico del Tribunale di appartenenza. In particolare, è stato fatto notare che il d.lgs. n. 45 del 2024, all’ art. 6, comma 1 , ponga una condizione ostativa oggettiva e assoluta al collocamento fuori ruolo (“ Non può essere collocato fuori ruolo il magistrato la cui sede di servizio presenti un rilevante indice di scopertura dell'organico stabilita in via generale dall'organo di governo autonomo ”) e che il fatto che il Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa non avesse ancora stabilito tale indice di scopertura non avrebbe dovuto esimere il Consiglio stesso ad esercitare una discrezionalità conferita per legge. Ciò, anche in considerazione del fatto che, quasi contestualmente, l’Organo di autogoverno in parola aveva adottato una delibera che aveva fissato alcuni criteri per lo svolgimento dell’incarico di componente della Commissione di concorso per magistrato tributario, prevedendo in tale ambito che l’esonero totale dal carico di lavoro, previsto dalla norma di legge, non potesse essere consentito ai magistrati che prestassero servizio in Tribunali qualificati come “sedi PNRR”, ovvero in Tribunali in cui altri colleghi hanno già uno sgravio del carico di lavoro per lo svolgimento di incarichi interni, ovvero ancora in Uffici con un indice di scopertura del 20%. In senso contrario, è stato opinato che, in assenza della determinazione da parte dell’organo di autogoverno della percentuale di indice di scopertura “ostativa”, gli unici elementi da prendere in considerazione fossero le eventuali ricadute negative che il collocamento fuori ruolo della richiedente avrebbero avuto sull’organizzazione e la funzionalità del T.A.R. Milano, ricadute negative che peraltro erano state escluse dallo stesso Presidente dell’Ufficio giudiziario interessato. E’ stato inoltre fatto notare che una richiesta basata sul rapporto fiduciario (tra Ministro e magistrato) fosse sufficiente a giustificare tanto l’incarico quanto la richiesta di fuori ruolo e che l’ art. 6, comma 3 stabilisce, in deroga alla regola dell’ ostatività di un “rilevante indice di scopertura”, che l'organo di governo autonomo “ può sempre valutare, tenendo conto delle esigenze dell'ufficio di provenienza e dell'interesse dell'amministrazione di appartenenza, la possibilità di concedere il collocamento fuori ruolo in ragione del rilievo costituzionale dell'organo conferente (…) ”. Il conferimento in fuori ruolo è stato infine concesso con deliberazione a maggioranza; da notare che trattasi di ipotesi che le nuove norme collocano – in termini di resistenza e priorità – al gradino più basso ( lett. g), comma 1 dell’art. 7 del d.lgs.n. 45 del 2024 : “altri incarichi”). Un secondo caso ha riguardato la richiesta di un Consigliere di Stato ad essere autorizzato allo svolgimento dell’incarico di assistente di studio di uno dei Giudici costituzionali, con servizio a tempo pieno, dopo averlo svolto fino a quel momento a tempo parziale. In questo caso, la scopertura organica del Consiglio di Stato, pari al 13 per cento al momento della deliberazione, non sarebbe risultata ostativa, e l’unico rilievo di interesse sarebbe stata l’individuazione dell’orizzonte temporale entro cui autorizzare la durata del fuori ruolo. Sotto questo profilo, vi era un potenziale disallineamento tra le nuove norme introdotte dal d.lgs. n. 45 del 2024 (che nulla prevedono sulla necessità di rientro in servizio entro un determinato arco temporale) e la vigente disciplina interna, che consente in questi casi il collocamento fuori ruolo del magistrato per un massimo di tre anni, con obbligo del rientro e successiva permanenza in ruolo per almeno un biennio con effettivo esercizio delle funzioni di istituto ( articolo 4, comma 2, lettera a) della delibera C.P.G.A. del 10 maggio 2013 ). Il Plenum ha deciso di ritenere ancora applicabile la normativa interna vigente – in attesa di una modifica di essa da parte dell’istituita Commissione speciale - e ha dunque concesso all’unanimità il fuori ruolo, limitandolo ad una durata “iniziale” di tre anni. Il terzo caso “particolare” ha riguardato una Consigliera di Stato – transitata dai TAR nelle more dello svolgimento dell’incarico – che ha fatto istanza di rinnovo dell’incarico di Direttore del Servizio giuridico dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni. La vicenda è stata caratterizzata dal succedersi di richieste tra di loro non coerenti: prima, di autorizzazione con fuori ruolo, poi, di autorizzazione ad un incarico di consulenza di contenuto analogo a quello dell'iniziale richiesta con rientro in ruolo, infine ancora – ma stavolta sulla base di diversa disciplina giuridica – domanda di prosecuzione dello stesso incarico già svolto, e ancora una volta in fuori ruolo. Mancava in particolare, con riferimento alla prima istanza, il parere obbligatorio prescritto dall’ art. 9, comma 3, lett. b) del d.lgs. n. 45 del 2024 ; nella fattispecie concreta, essendo il magistrato richiedente transitato dai TAR al Consiglio di Stato in posizione di fuori ruolo, tale parere avrebbe dovuto essere rilasciato dal Presidente del Consiglio di Stato stesso, in assenza di assegnazione formale della Giudice ad una Sezione. Inizialmente, il Consiglio di Presidenza ha autorizzato la prosecuzione dell’incarico, prevedendo contestualmente il rientro in ruolo della richiedente, e respingendo la tesi secondo cui, trattandosi di incarico rientrante tra quelli presupponenti il “fuori ruolo obbligatorio”, secondo la Tabella B della delibera del 10 maggio 2023, punto b), fosse da ritenersi incompatibile con lo svolgimento delle funzioni giurisdizionali la prosecuzione del lavoro di Direttore del Servizio giuridico dell’Autorithy . Tale orientamento si era in effetti consolidato in passato proprio con riferimento al medesimo incarico svolto dalla richiedente, e non sarebbe stato scalfito, secondo questa tesi, dall’entrata in vigore del decreto legislativo n. 45 del 2024, il cui articolo 16 del decreto, nello stabilire la linea di compatibilità tra la disciplina precedente e quella attuale, lascia espressamente in vigore l’ art. 1, comma 66 della legge Severino , sulla cui base è fondata la Tabella “B” sopra citata. D’altra parte, anche qualora non si fosse voluta applicare la norma sull’obbligo di fuori ruolo, vi sarebbe stato pur sempre l’ articolo 2, comma 1, del decreto legislativo n. 45 del 2024 , il quale stabilisce che: " Tutti gli incarichi presso Enti pubblici o Pubbliche Amministrazioni la cui assunzione non può garantire l'integrale svolgimento ordinario del lavoro giudiziario possono essere svolti nel rispetto delle previsioni del presente decreto soltanto a seguito del collocamento fuori ruolo o nei casi specificamente previsti dalla legge del collocamento in aspettativa ", dovendosi probabilmente dubitare che la tipologia di incarico ricoperto dalla richiedente non avesse carattere assorbente sotto il profilo del tempo impiegato nello svolgimento di esso. Successivamente al rilascio di tale autorizzazione, peraltro, una nota del Presidente dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni aveva investito nuovamente della questione l’Organo di autogoverno, affinché lo stesso riesaminasse la deliberazione assunta in punto di rientro in ruolo della Consigliera di Stato, sulla base della legge istitutiva dell’Authority, secondo cui sarebbe stato possibile avvalersi di dipendenti dello Stato o di altre amministrazioni pubbliche per svolgere incarichi di tipo dirigenziale, qualora non fosse possibile reperire al proprio interno professionalità dotate delle necessarie competenze, come nel caso in esame, ma soltanto se tali dipendenti “esterni” risultassero “collocati in posizione di fuori ruolo” nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti. Il Consiglio di Presidenza ha a questo punto accolto l’istanza di riesame così avanzata, non prima però di acquisire il parere del Presidente titolare della Sezione del Consiglio di Stato a cui nel frattempo la richiedente era stata formalmente assegnata. Tale parere non era né positivo né negativo, limitandosi il Presidente in questione a sottolineare che era stato talmente poco il tempo di rientro in servizio del magistrato alla sua Sezione assegnato da rendere impossibile l’individuazione in concreto dell’eventuale pregiudizio eventualmente derivante dalla nuova vacanza di organico. D’altra parte, erano nel frattempo pervenute due note da una rappresentanza sindacale del personale impiegato presso l’A.G.C.O.M., che denunciavano una situazione di disagio asseritamente occasionata da comportamenti del magistrato svolgente l’incarico di Direttore di Servizio. Su questo fronte, mentre la maggioranza del Consiglio ha ritenuto di non poter attribuire rilievo a tali segnalazioni, in quanto il loro contenuto non atterrebbe ai profili alla cui verifica è chiamato il Consiglio di Presidenza, una tesi dissenziente ha rimarcato che le evidenziate problematiche di carattere lavorativo e relazionale potrebbero suggerire una potenziale incompatibilità inerente alla permanenza del magistrato nell’amministrazione di destinazione, e che, anche alla luce della normativa interna in materia di autorizzazioni agli incarichi, avrebbe dovuto essere necessaria una valutazione in concreto, al fine di porsi, prima di autorizzare l’incarico, il problema della lesione del prestigio non solo del plesso, ma anche del magistrato stesso, nel caso in cui fossero infondate le accuse implicitamente contenute nella lettera del sindacato. D’altra parte, il comma 4 dell’art. del d.lgs. n. 24 del 2024 stabilisce che “ in ogni caso l'organo di governo autonomo deve valutare le ricadute provenienti dallo svolgimento dell'incarico fuori ruolo sotto il profilo della possibile lesione della immagine di imparzialità e indipendenza del magistrato o del pregiudizio derivante al prestigio delle magistrature ”. L'autorizzazione alla "ripresa" dello svolgimento dell'incarico in posizione di fuori ruolo è stata infine concessa, seppure a maggioranza. Un'ulteriore fattispecie ha riguardato il caso di un magistrato TAR che ha partecipato ad una selezione pubblica in seno al Consiglio di Europa per assurgere al compito di legal advisor del GRECO, organismo internazionale che si occupa di contrasto alla corruzione – tramite monitoraggio del rispetto da parte degli Stati aderenti di determinati standard in materia - e che è stato istituito dallo stesso Consiglio di Europa. Il magistrato richiedente ha evidenziato l' interesse dell'amministrazione a consentirgli un incarico ritenuto prestigioso e di sicura attinenza con materie interferenti anche con il diritto amministrativo (in considerazione della trasversalità della materia “corruzione”), mentre il Capo dell'Ufficio dove egli presta servizio, nel rendere il richiamato parere di cui all'art. 9, comma 3, lett. b) del d.lgs. n. 45 del 2024, ha evidenziato che il venir meno del suo Collega avrebbe determinato una scopertura di organico molto rilevante (circa il 30%) e si sarebbe posto in contrasto con la necessità, a carico dell'interessato, di recuperare l'arretrato individuale di lavoro accumulatosi per via della fruizione di alcuni congedi parentali “frazionati”. Quanto al primo aspetto, è stato peraltro fatto rilevare che la norma di riferimento del d.lgs. n. 45 del 2024 a cui "appoggiare" la richiesta di fuori ruolo fosse l' art. 5, comma 5 e non l'a rt. 11, comma 3 , posto che l'incarico da ricoprire era di esperto amministrativo (incarico non riservato a magistrati) e non afferiva direttamente all'esercizio di funzioni giurisdizionali. D’altra parte, mentre l’art. 5, comma 5 dispone che “ L'interesse dell'amministrazione è sempre sussistente per gli incarichi che la legge affida esclusivamente a magistrati, per gli incarichi presso organi costituzionali o di rilevanza costituzionale, per gli incarichi apicali, anche di diretta collaborazione, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri e i Ministeri o per incarichi presso organismi dell'Unione europea o organizzazioni internazionali di cui l'Italia è parte”, il comma 6 dello stesso articolo dispone che “L'interesse dell'amministrazione di appartenenza non si ritiene sussistente quando l'incarico non richieda un elevato grado di preparazione in materie giuridiche ovvero una particolare conoscenza dell'organizzazione giudiziaria o esperienza pratica maturata nell'esercizio dell'attività giurisdizionale, giudiziaria, consultiva o di controllo ”. Quanto al secondo aspetto, la natura non vincolante, rispetto alla decisione del Consiglio, del parere del Capo dell'ufficio, non eliminava il dato oggettivo di una rilevantissima scopertura dell'organico di tale Ufficio, una volta che fosse stato autorizzato il fuori ruolo. L'organo di autogoverno ha dapprima respinto, a voto segreto, la proposta della Commissioni congiunte di accogliere la richiesta autorizzazione in fuori ruolo. Tuttavia, una volta emesso il preavviso di diniego ed esaminate le osservazioni dell'interessato, lo stesso Consiglio è tornato sui suoi passi, e ha infine concesso il fuori ruolo, nonostante alcuni Consiglieri abbiano fatto notare la contraddittorietà interna della decisione, non essendo emerso alcun elemento di fatto nuovo rispetto a quelli già presi in considerazione nell'esprimere il primo voto sfavorevole. Altro caso di rilievo affrontato dall'organo di autogoverno dei magistrati amministrativi nel presente anno è quello di un magistrato Tar che dopo vari anni in fuori ruolo presso il Garante della Privacy è stato proposto e nominato dal Ministro della difesa in qualità di Segretario generale del suo Ministero. La peculiarità di questa fattispecie sta nella assenza di soluzione di continuità tra le attività prestate al di fuori dei ranghi giurisdizionali da parte del magistrato interessato, con conseguente "costruzione" di una sorta di carriera parallela rispetto a quella di Giudice, carriera che pare implicitamente osteggiata dalle nuove norme, in teoria più restrittive della disciplina anteriormente vigente. Tuttavia, in presenza di una serie di eccezioni continue alla regola - così come contenute nel testo del d.lgs. n. 45 del 2024 - e in assenza di obblighi espliciti di rientro dal precedente incarico, prima di assumerne uno diverso, il Consiglio ha anche in questo caso autorizzato la permanenza di fuori ruolo, con un solo voto contrario.
Autore: a cura di Paolo Nasini 30 luglio 2025
Tribunale Benevento, sez. I, 22 maggio 2025, n. 1090, Pres. M.I. Romano, est. A. De Luca IL CASO E LA DECISIONE P.S. si è unita civilmente (ai sensi della l. n. 76 del 2016 ), con P.A., convivendo altresì con R.C., figlia di quest’ultima madre, avuta nell’ambito di un precedente legame affettivo con il deceduto R.A.. P.S., quindi, ha proposto domanda di adozione di maggiorenne , in favore di R.C., asserendo il forte legame affettivo con quest'ultima. Nel corso del giudizio sono state sentite R.C. e la madre naturale P.A.: la prima ha espresso la volontà di essere adottata da P.S.; la seconda ha manifestato il proprio consenso all'adozione. Il PM ha espresso parere favorevole. Il Tribunale di Benevento, all’esito del giudizio, ha disposto l’adozione di R.C., da parte di P.S. precisando che l'adottata posponesse il cognome dell'adottante al proprio, venendosi per l'effetto a chiamare R.P.C.. Sotto il profilo giuridico, occorre premettere che Il legislatore, con la richiamata l. n. 76 del 2016 ha disciplinato le c.d. unioni civili tra persone dello stesso sesso, introducendo una specifica ipotesi di “formazione sociale”, in conformità ai precetti programmatici di cui agli artt. 2 e 3 Cost. . Secondo il Tribunale, quindi, anche a livello normativo la relazione di coppia omosessuale rientra nella nozione di “vita privata”, nonché di “vita familiare”. D’altronde, il legislatore non disciplina l’adozione del figlio del partner dello stesso sesso (cd. stepchild adoption ), neppure nel caso in cui l'adottando sia maggiorenne, atteso che la l. n. 76 del 2016 non menziona l’ art. 291 c.c. tra le norme applicabili alle unioni civili. Secondo il Tribunale, però, ciò non esclude che tale lacuna possa essere colmata in via interpretativa per garantire il diritto dei figli alla certezza e stabilità del rapporto con coloro che effettivamente esercitano il ruolo genitoriale. L'adozione di maggiorenni, infatti, ha la funzione di riconoscimento giuridico di una relazione sociale, affettiva e identitaria, nonché di una storia personale tra adottante e adottando, diventando così uno strumento volto a consentire la formazione di famiglie tra soggetti che, seppur maggiorenni, sono tra loro legati da saldi vincoli personali, morali e civili. Quindi, il Giudice di prime cure asserisce che non vi sarebbe ragione per escludere tale forma di adozione anche alle unioni civili, in mancanza di espressa preclusione normativa in tal senso: perciò, se tale possibilità è ammessa dalla giurisprudenza più recente nell'ipotesi, diversa e più complessa per la minore età dell'adottando, dell'adozione del minore “in casi particolari”, non vi sarebbe ragione per non ammettere la stepchild adoption nel caso di adozione di maggiorenne, essendo la finalità perseguita sempre quella di consentire la formazione di famiglie tra soggetti legati di fatto da saldi vincoli personali. L'orientamento giurisprudenziale formatosi in tema di stepchild adoption del minore muove dall'affermazione che “il desiderio di avere figli, "naturali" o adottati, rientra nell'ambito del diritto alla vita familiare, nel vivere liberamente la propria condizione di coppia riconosciuto come diritto fondamentale, anzi, ne è una delle espressioni più rappresentative. Pertanto, una volta valutato in concreto il superiore interesse del minore ad essere adottato e l'adeguatezza dell'adottante a prendersene cura, un'interpretazione dell' art. 44 l. n. 184/1983 che escludesse l'adozione per le coppie omosessuali, solo in ragione dell'orientamento sessuale, sarebbe un'interpretazione non conforme al dettato costituzionale, in quanto lesiva del diritto di uguaglianza” [1] . Ed ancora, l'orientamento sessuale e il rapporto di coniugio degli adottanti non rappresentano limiti elevati al rango di principi di ordine pubblico internazionale. Nella genitorialità sociale, dice la corte, «l'imitatio naturae manca ab origine ed è ampiamente compensata dalle ragioni solidaristiche dell'istituto e, con riferimento al minore, dalla realizzazione, da assoggettarsi a verifica giurisdizionale, del processo di sviluppo personale e relazionale più adeguato alla sua crescita» [2] . Secondo tale orientamento giurisprudenziale, la mancata previsione legislativa dell'accesso all'adozione coparentale non deve essere letta come un segnale di arresto o di contrarietà rispetto all'orientamento consolidato in giurisprudenza anche prima dell'entrata in vigore della legge sulle unioni civili a favore di tale adozione. Infatti, con l'entrata in vigore della legge sulle unioni civili “resta fermo” (ex art. 1, comma 20, l. n. 76 del 2016) quanto previsto non solo dalla legge, ma dal c.d. diritto vivente, ossia dall'interpretazione che della disciplina sulle adozioni è stata fornita dalla giurisprudenza, “ che, nel pieno rispetto del diritto del minore, inserito in una famiglia same sex, ha dato tutela ad una bigenitorialità, ancorché realizzata tramite l'adozione in casi particolari, attributiva di uno status filiationis ” [3] . Nel solco di tale orientamento, il Tribunale di Milano, in tema di trascrizione in Italia dell'atto di nascita formato all'estero relativo a bambino con genitori dello stesso sesso, ha ribadito che la scelta del legislatore italiano nell'ambito della l. n. 76 del 2016 di non prevedere la c.d. stepchild adoption non può indurre a ritenere contraria all'ordine pubblico tale tipologia genitoriale, dal momento che non solo all'estero la stessa è pacificamente prevista e tutelata, ma anche in Italia la genitorialità same sex ha ormai trovato riconoscimento sulla base nell'interesse del minore, “ a conferma dell'assenza di superiori, contrari e ineludibili principi di rango primario alla genitorialità da parte di coppie dello stesso sesso; non esistendo del resto dati scientifici che attestino la rilevanza dell'orientamento sessuale dei genitori sul benessere dei figli ” [4] . In definitiva, secondo il Tribunale di Benevento, va data prevalenza e tutela all'interesse al riconoscimento del rapporto genitoriale di fatto instauratosi con l'altra figura genitoriale sociale anche se dello stesso sesso, ciò in assenza di ostacoli di natura normativa o di altra natura in tal senso. In materia è recentissimo l'arresto del Tribunale Minorenni Trento del 11 giugno 2024 che, nel condividere l'elaborazione giurisprudenziale sopra ricordata, ha ribadito che la nuova normativa ha eletto le coppie formate da persone dello stesso sesso, ove sussistenti vincoli affettivi, al rango di “famiglia” (è inequivoco il riferimento, nella normativa, alla “vita familiare”, a tacer d'altro), così offrendo all'adozione in casi particolari un substrato relazionale solido, sicuro, giuridicamente tutelato. La legge di nuovo conio ha evidenziato, con l'articolo 1, co. 20, che: “ al solo fine di assicurare l'effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall'unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell'unione civile tra persone dello stesso sesso ”, mentre l'ultimo periodo del medesimo comma prevede che “ resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti ”. Tal ultima locuzione è stata interpretata come clausola di salvaguardia espressiva , nel momento in cui “consente”, della volontà di dare continuità all'interpretazione giurisprudenziale così come sviluppatasi nel tempo, di modo che pare evidente che dalla legge 76/2016 non emerge affatto una volontà del Legislatore di delimitare più rigidamente i confini interpretativi dell'adozione in casi particolari ma, semmai, emerge la volontà contraria. In definitiva, ove l'adozione risponda all'interesse dell'adottando e vi sia il consenso di tutti i soggetti interessati “ non si comprende come possano essere posti ostacoli alla richiesta di adozione se non per il prevalere di pregiudizi legati ad una concezione dei vincoli familiari non più rispondente alla ricchezza e complessità delle relazioni umane nell'epoca attuale. Del resto, proprio la interpretazione evolutiva della Corte EDU della nozione di vita familiare di cui all'art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, è giunta ad affermare che nell'ambito della vita familiare deve annoverarsi il rapporto fra persone dello stesso sesso, rapporto che non può quindi essere escluso dal diritto di famiglia con la conseguenza che non già le aspirazioni o i desideri degli adulti debbano avere necessariamente pari riconoscimento da parte dell'ordinamento, bensì i diritti dei bambini ” [5] . Sotto altro e concorrente profilo, secondo il Tribunale di Benevento, la differenza di età di circa 16 anni tra la ricorrente e l'adottanda non sarebbe di ostacolo all'accoglimento della domanda. Infatti, si afferma in giurisprudenza che l’art. 291 c.c., nel richiedere la differenza di diciotto anni tra adottante e adottando, introduca una ingiusta limitazione e compressione dell'istituto dell'adozione di maggiorenne nell'accezione e configurazione sociologica assunta negli ultimi decenni, ciò in contrasto con le previsioni di cui all’ art. 30 Cost. , e all' art. 8 CEDU . In tal senso, “ in tema di adozione del maggiorenne, il giudice nell'applicare la regola che impone il divario minimo di età di 18 anni tra l'adottante e l'adottato, deve procedere ad una interpretazione dell'art. 291 c.c. compatibile con l’art. 30 Cost., secondo la lettura data dalla Corte Costituzionale e in relazione all'art. 8 CEDU, che consenta, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, una ragionevole riduzione di tale divario minimo al fine di tutelare situazioni familiari consolidatesi da tempo e fondate su una comprovata affectio familiaris ” [6] . Ed ancora, “ in tema di adozione del maggiorenne, non appare ostativa una differenza di età fra l'adottante e l'adottando pari a 14 anni e sei mesi in luogo dei 18 anni previsti dalla legge a fronte di una convivenza quasi decennale fra i soggetti interessati. Tale convivenza, nel caso di specie, depone inequivocabilmente nel senso della ragionevole riduzione del divario minimo, al fine di tutelare la situazione familiare consolidatasi da tempo e fondata sulla comprovata affectio familiaris. L'ammissibilità dell'adozione, dunque, pur in difetto della differenza di età fissata dall'’art. 291 c.c., risulta possibile dall'interpretazione costituzionalmente orientata, in conformità all'art. 30 cost. e all'art. 8 Cedu, secondo quanto ormai chiarito dalla giurisprudenza di legittimità ” [7] . Il Tribunale di Benevento, quindi, applicando tali principi al caso in esame, ha ritenuto che, seppur l'adottante presenta una differenza di età con l'adottanda di sedici anni, quest'ultima ha attualmente quarant'anni e vive con l'adottante e la madre naturale (unite civilmente) dall'età di tredici anni, costituendo a tutti gli effetti un nucleo familiare consolidato e compatto da quasi trent'anni. Ciò che viene in rilievo è la richiesta di concretizzare la lunga convivenza “di fatto” tra l'adottante e l'adottanda, attraverso un riconoscimento formale che sancisca la consolidata comunione di affetti e di vita vissuta. La sussistenza di un effettivo rapporto genitoriale instauratosi fra il genitore sociale e la figlia della propria partner è emersa anche in sede di audizione personale delle parti coinvolte in detta vicenda. Il Giudice ha valorizzato il fatto che all’udienza del 9 luglio 2024 R.C. ha dichiarato di voler “essere adottata da P.S.”, in quanto è stata il suo “punto di riferimento”, avendola cresciuta dall'età di 5 anni e convivendo con lei dall'età di 13 anni. Dichiarazioni che hanno trovato conferma, oltre che dalla stessa P.S., anche dalla madre naturale dell'adottanda che, nel non opporsi a tale volontà, ha ribadito l'intensità del loro legame affettivo. Pertanto, su tali considerazioni, secondo il Tribunale, impedire questo tipo di adozione “ritenendo insuperabile la differenza minima di età di ben diciotto anni ”, costituirebbe espressione di un'interpretazione puramente letterale della norma che non tiene conto, a parere del collegio, di argomentazioni di carattere sistematico ed evolutivo. La riduzione di tale divario di età appare ragionevole alla luce delle circostanze del caso concreto, essendo volta a tutelare la situazione familiare consolidatasi nel tempo e fondata su una comprovata affectio familiaris . [1] Tribunale Minorenni Roma, 23 dicembre 2015. [2] Cass. Civ., Sez. Un., n. 9006 del 2021. [3] Tribunale Minorenni Bologna, 6 luglio 2017. [4] Tribunale Milano, sez. VIII, sent. 15 novembre 2018. [5] Tribunale Minorenni Trento, 11 giugno 2024. [6] Cass. Civ., sez. I, n. 7667 del 2020. [7] Tribunale Viterbo, 25 novembre 2022.
Autore: a cura di Roberto Lombardi 24 luglio 2025
Quando, nell'ormai lontano 2004, chi vi scrive entrò in magistratura ordinaria, al Governo c'erano Silvio Berlusconi ed una maggioranza politica apertamente critica nei confronti del sistema giudiziario esistente. Era ormai passata l'epopea di Falcone e Borsellino - vittime di stragi mafiose ripugnanti che lo Stato non ha saputo prevenire -, ma ancor di più aveva ormai esaurito la sua spinta la controversa stagione di " Mani pulite ". La magistratura - specie quella penale - non era più considerata intoccabile , in quanto non godeva più dello stesso credito di dieci anni prima nell'opinione pubblica, e infatti fu "toccata" con la cosiddetta riforma Castelli . Pur con alcuni interventi probabilmente positivi su problemi reali (come l'introduzione della temporaneità delle funzioni direttive e la tipizzazione degli illeciti disciplinari), la prima vera riforma della magistratura ordinaria - in parte poi ritoccata dall'intervento della L. n. 111 del 2007 - , disancorando il passaggio agli incarichi di Presidente e Procuratore dalla regola della sola progressione per anzianità di servizio (cui conseguiva una semplice valutazione di "non demerito", ai fini dell'attribuzione delle funzioni) ha aperto le porte a un'estremizzazione del potere delle cosiddette correnti in seno al CSM. Dopo di che, gli accertati abusi correntizi sulle nomine hanno avviato un'ulteriore stretta nei confronti dei magistrati da parte della politica. Si potrebbe dire, con una sintesi estrema e forse un po'superficiale, ma non lontana da vero, che la riforma Castelli ha prodotto il fenomeno "Palamara" , e che il " caso Palamara ", aggravando una patologia già esistente, ha generato la necessità di operare nuovi interventi sul presunto malato grave, ovvero il sistema giudiziario nel suo complesso. Resta a questo punto da capire quanto il malato sia grave e quanto la medicina elaborata dall'attuale governo con il suo progetto di riforma della Costituzione sulla cosiddetta separazione delle carriere sia quella giusta e proporzionata rispetto al male da curare. Di certo, si è detto molto spesso, e non senza un minimo di ragione, che la magistratura abbia mostrato una certa incapacità di intervenire dal suo interno su alcune oggettive disfunzioni del sistema. La più grave incongruenza, a parere del sottoscritto, è stata l'estrema tolleranza nei confronti di un certo modo di fare il magistrato che, prima ancora che dannoso verso il sistema e verso la collettività, è stato percepito in modo critico e a tratti inaccettabile dalla classe forense, che pure spesso è restia, per comprensibili motivi, a denunciare la cosa alle Autorità competenti. L'arroganza, la superficialità di scrittura, la lentezza nelle decisioni e la maleducazione che in alcuni casi caratterizzano l'interpretazione del ruolo di giudice (ma lo stesso vale, mutatis mutandis , per i p.m.) meritavano e meriterebbero una presa di posizione molto severa da parte del CSM e, prima ancora, da parte dei capi degli uffici. E non può trovare facile compensazione nella pure indubbia elevata e generalizzata preparazione tecnica della categoria - scelta a seguito di uno dei concorsi più seri e qualificanti in circolazione -, caratteristica, questa, vieppiù esaltata dall'incomparabilità di spessore culturale specifico che esiste tra la magistratura togata e la magistratura onoraria, cui pure vanno a volte addebitate, per colpa del sistema di selezione di tale importante e rilevante categoria di ausilio giurisdizionale , pronunce che non fanno altro che appesantire il lavoro dei giudici togati di secondo grado e di quelli di legittimità. Correlativamente, un certo modo di fare giustizia di alcuni Procuratori della Repubblica - "condito" da smania di protagonismo e indagini apparentemente "mirate" - ha sempre più creato conflitti anche gravi nel tessuto interno degli Uffici, esponendo gli stessi a una facile critica e richiesta di "ordine" dall'esterno. D'altra parte, anche su questo aspetto la famosa riforma Castelli sembra avere fallito, producendo, con la semi-gerarchizzazione dell'ufficio del p.m., da un lato una eccessiva simbiosi tra Capo dell'ufficio e polizia giudiziaria, dall'altro una mortificazione dell'iniziativa del singolo magistrato. La riforma costituzionale della magistratura approvata appena due giorni fa al Senato senza alcuna modifica rispetto al testo originario presentato dal Governo [1] ha la peculiare caratteristica di non affrontare nessuno dei nodi problematici emersi nel tempo con riferimento all'efficienza ed efficacia del sistema Giustizia - che prima di ogni altra cosa dovrebbe assicurare qualità e velocità di risposta alle istanze dei cittadini, qualunque sia il tenore di tali istanze -, ma di provare a ridefinire il ruolo di giudici e pubblici ministeri, separandone irreversibilmente i percorsi professionali. In aggiunta, il Legislatore mostra notevole sfiducia nel sistema che fino ad oggi ha regolato l' autogoverno dei magistrati ordinari, sottraendo ai due nuovi CSM (quello dei giudici e quello dei p.m.) le decisioni in materia disciplinare - che saranno effettuate da un ulteriore organo appositamente istituito, l' Alta corte - e svuotando di fatto il potere delle correnti con l'introduzione del metodo del sorteggio "secco" per accedere ai Consigli, in luogo del metodo elettivo. Al di là della correttezza o meno dell'intervento di ortopedia istituzionale immaginato dall'attuale Governo in carica - e posto che la riforma è proposta in aperto contrasto con la volontà di molti dei soggetti nei cui confronti agirà, ovvero i magistrati -, il panorama sul cui sfondo si delinea tale riforma è tutt'altro che indicativo di uno scenario idilliaco, per quanto riguarda i rapporti tra politica e magistratura , il che, già di per sé, avrebbe dovuto forse consigliare maggiore prudenza nell'imporre un punto di vista sull'altro senza una vera mediazione sostenibile. Colpiscono in particolare alcune vicende di contrasto palese tra poteri dello Stato che si sono nel frattempo delineate. In primis , la questione della definizione di Paese sicuro e del contenzioso in merito alla titolarità o meno del singolo Governo di individuare in modo definitivo e non sindacabile dai giudici quali siano i Paesi sicuri, nonché la vicenda Open Arms , riaccesa dalla decisione della Procura della Repubblica di impugnare la sentenza di assoluzione emessa in favore di Matteo Salvini. [2] Secondariamente, due potenziali conflitti tra politica e magistratura non decisivi ma fortemente evocativi del clima che si respira, ovvero la vicenda del disegno di legge " Salva Milano " - portato avanti in aperto contrasto con le iniziative giudiziarie della magistratura meneghina, che sono recentemente sfociate anche in richieste di custodia cautelare in carcere - e la questione delle Olimpiadi invernali 2026 , con la denuncia da parte dei pubblici ministeri procedenti, secondo qualificate fonti di stampa, del tentativo di sterilizzazione di una loro indagine in materia di turbativa d'asta tramite la qualificazione, per decreto legge, della Fondazione Milano-Cortina come ente di diritto di privato, sottraendolo ai vincoli e alle conseguenze giuridiche (e penali) che deriverebbero dalla sua qualificazione come organismo di diritto pubblico. [3] Da ultimo, i magistrati hanno espresso al più alto livello netta contrarietà al c.d. decreto sicurezza , tramite la relazione su novità normativa dell' ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di cassazione , sia con riferimento al merito che con riferimento al metodo seguito nell'approvazione della nuova disciplina. Colpisce, in particolare, in quest'ultimo scatto critico sull'operato del Governo in carica, il chiaro riferimento ad una sostanziale sovversione della separazione procedurale stabilita dalla Costituzione tra esercizio ordinario del potere legislativo delle Camere ed esercizio straordinario di tale potere da parte dell'esecutivo, avendo il Governo di fatto esautorato , secondo la relazione, con un decreto legge, il Parlamento nel mentre questo svolgeva il suo compito istituzionale, e procedeva alla discussione in Senato, dopo la prima approvazione della Camera, delle medesime norme confluite poi nel decreto-legge, al fine neanche troppo velato di evitare ulteriori "perdite di tempo" con l'eventuale ritorno (in caso di modifiche) del testo alla Camera. Tutto questo cosa c'entra però con la separazione delle carriere e con l'elezione tramite sorteggio dei rappresentanti di giudici e pubblici ministeri? Si pensa forse che i conflitti con la politica diminuiranno di numero o si attenueranno nell'intensità? O che l'individuazione di una linea di confine netta tra le due categorie di giuristi indebolirà la capacità della magistratura - nella sua rappresentanza istituzionale e associativa - di costituire un argine "tecnico" rispetto agli abusi del potere politico? Perché la verità è che se la tesi di partenza è che l'ufficio del pubblico ministero si propone nel nostro Paese come un "potere irresponsabile", avendoglielo l'attuale assetto costituzionale consentito, allora sarebbe stato forse più coerente sottoporlo direttamente alla direzione funzionale dell'esecutivo, con tutte le conseguenze che ciò comporterebbe, tuttavia, in termini di minori garanzie del cittadino comune . Correlativamente, pare ormai spuntata la tesi secondo cui i giudici sarebbero succubi dei pubblici ministeri, avendo trovato tale tesi clamorosa smentita in un numero veramente importante di vicende giudiziarie note al pubblico, ed essendo al contrario ormai evidente, anche in alcuni risvolti processuali balzati recentemente sugli altari della cronaca, che il magistrato requirente medio non gradisce che il suo giudice venga meno, anche solo in apparenza, al requisito dell'imparzialità e indipendenza dalle parti coinvolte nel procedimento. [4] Piuttosto, dovrebbe forse preoccupare il Legislatore la possibilità che un Ufficio del p.m. sottratto dalla comune cultura della giurisdizione propria dei giudici - fino ad oggi garantita a tutti i magistrati dal concorso unico, dal tirocinio indifferenziato prima dell'assunzione delle funzioni e dalla possibilità di provare almeno una volta entrambe le esperienze professionali - potrebbe, questo sì, diventare graniticamente autoreferenziale e interessato soltanto a produrre numeri in positivo. E i numeri che contano, nel settore penale, non sono altro che arresti, sequestri e condanne. Con la prospettiva che più le decisioni si identificano con richieste e non con veri e propri giudizi e più nell'animo del singolo magistrato rischia di avviarsi un lento ma inesorabile processo di deresponsabilizzazione e impoverimento culturale. D'altra parte, se è vero che inquisire è diverso dal giudicare , è altresì vero che l'attuale maggioranza politica non è arrivata al punto di negare che entrambe le attività devono essere svolte con indipendenza . E allora, si è chiesto Ferruccio de Bortoli a margine di una lectio magistralis di Gustavo Zagrebelsky, " perché separare le carriere "? [5] Nell'occasione, l'ex presidente della Corte costituzionale ci ha ricordato la vera essenza del ruolo di chi svolge funzioni giurisdizionali (qualunque esse siano), ovvero l'interpretazione di tale ruolo con modestia e rigore . E se il motivo della riforma in corso di approvazione in Parlamento sta nel fatto che si crede che la somma delle singole indegnità abbia colpito irreversibilmente la credibilità dell'intero ordine, forse bisognerebbe agire a fondo sulle cause. Ma se non si crede questo, e l'unica necessità è contenere le (relativamente poche) mele marce , possibilmente cacciandole per sempre dalla magistratura, torna in mente la sproporzione tra la punizione e i demeriti denunciata nel film " Gli spietati " dallo sceriffo, mentre il fuorilegge gli punta il fucile sulla testa prima di sparare. [6] [1] Proposta di legge C. 1917 (Meloni, Nordio; S. 1353) "Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare", approvata in prima lettura dalla Camera in data 16 gennaio 2025 e dal Senato in data 22 luglio 2025. [2] Si veda, per un approfondimento di entrambe le questioni, l'articolo pubblicato sul sito al seguente link: https://www.primogrado.com/i-migranti-della-discordia-viaggio-in-uno-scontro-tra-poteri-tipicamente-italico Nelle more, quanto alla definizione di Paese sicuro, è stata discussa la problematica giuridica di fondo dinanzi alla Corte di Giustizia UE (ma non è ancora stata depositata la relativa sentenza), dopo l'acquisizione del parere indipendente dell’Avvocato generale Richard de la Tour, che ha proposto alla Corte, tra l'altro, di pronunciarsi nel senso che non è contraria al diritto eurounitario una prassi in forza della quale uno Stato membro procede alla designazione di un Paese terzo come Paese di origine sicuro mediante atto legislativo, a condizione che il giudice nazionale investito del ricorso avverso una decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale proposta da un richiedente proveniente da un siffatto Paese disponga, in virtù dell’obbligo di un esame completo ed ex nunc imposto da detto articolo 46, paragrafo 3, delle fonti di informazione sulla cui base il legislatore nazionale ha inferito la sicurezza del paese interessato. [3] Per un approfondimento della vicenda delle Olimpiadi 2026 si rimanda al seguente link: https://milano.corriere.it/notizie/cronaca/25_aprile_16/milano-cortina-2026-e-la-fondazione-pubblica-o-privata-i-pm-al-gip-manda-alla-corte-costituzionale-la-legge-meloni-oppure-37e8d020-9589-4b99-814e-f3d67b366xlk.shtml [4] Si veda al riguardo quanto riportato dal Corriere della Sera al seguente link: https://milano.corriere.it/notizie/cronaca/25_giugno_16/caso-alessia-pifferi-il-pm-chiede-l-astensione-del-giudice-l-anm-di-cui-e-dirigente-critico-le-mie-indagini-547f7c66-e9f8-46a5-beab-af8eb701dxlk.shtml [5] L'articolo di de Bortoli è rinvenibile al seguente link: https://www.corriere.it/frammenti-ferruccio-de-bortoli/25_marzo_20/il-giudice-guido-galli-zagrebelsky-e-il-senso-della-giustizia-ac7e00cb-240f-42cb-ab81-3a49e66f5xlk.shtml [6] https://www.mymovies.it/film/1992/glispietati/