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Autore: a cura di Roberto Lombardi 11 maggio 2025
La Corte di Cassazione ha recentemente ribadito fino a che punto arriva il potere giurisdizionale, di per sé molto esteso, del Consiglio di Stato . In effetti, l'organo di secondo grado della magistratura amministrativa è giudice di merito e di legittimità rispetto alle decisioni dei Tribunali territoriali (i quali, per effetto dell'espansione delle ipotesi di giurisdizione esclusiva, giudicano in alcuni casi anche su diritti soggettivi) e assomma in sé anche la prerogativa di svolgere funzioni consultive al servizio dell'esecutivo. Tra le non sconfinate fila del suo organico, peraltro, si annovera pure un numero importante di capi di gabinetto, vice capi ed esperti che svolgono le loro attività collaterali a quelle giurisdizionali o per la Presidenza del Consiglio o per importanti Ministeri. Posto che il rispetto dei limiti interni di giurisdizione , una volta giunti all'ultimo grado del giudizio amministrativo, non è sindacabile da nessuno - se non con rimedi diversi rispetto alla impugnazione sic et sempliciter della sentenza presso altro e "superiore organo" -, la Corte di Cassazione funge da guardiano del rispetto dei c.d. limiti esterni , sanzionando l’eventuale eccesso di potere giurisdizionale . In particolare, oltre al tradizionale controllo sul presupposto indefettibile che la materia oggetto di pronuncia rientri nell'ambito della giurisdizione amministrativa, il limite che il Consiglio di Stato non può oltrepassare è quello della sfera di azione riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa. Il confine è dunque il rispetto dell'ambito giurisdizionale affidato dalle norme al Giudice amministrativo: all'interno di tale perimetro, la cattiva applicazione delle regole del giudizio o perfino la negazione ingiusta della tutela richiesta non rilevano per la Cassazione; all'esterno di tale perimetro, il Consiglio di Stato entra in una “terra proibita” e subisce l'annullamento della sua sentenza. Il difetto assoluto di giurisdizione è peraltro un'area off limits in cui è lo stesso guardiano (la Corte di Cassazione) a stabilire le regole del gioco e ad applicarle. In linea di massima, come detto, l' eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata alla P.A. si ha quando il Giudice amministrativo compie atti di valutazione della mera opportunità dell'atto impugnato, sostituisce propri criteri di valutazione a quelli demandati normalmente alla discrezionalità dell'amministrazione, oppure adotta decisioni finali che si traducono nella sostanza in decisioni c.d. autoesecutive , ovvero interamente sostitutive delle determinazioni dell'amministrazione. Si ha invece invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore qualora il giudice speciale applichi non la norma esistente, ma una norma da lui creata, esercitando un'attività di produzione normativa che non gli compete. Nello specifico caso che ha dato origine alla recente sentenza n. 7530/2025 delle Sezioni unite civili della Corte di cassazione , il Consiglio di Stato avrebbe esautorato completamente la potestà discrezionale dell'organo di autogoverno della Giustizia tributaria, in quanto non si è limitato ad annullare il provvedimento di diniego di un'istanza di trasferimento, ma ha adottato una regola della fattispecie concreta "chiusa" (cioè non suscettibile di ulteriori interpretazioni) e contrastante con la disciplina interna di cui si era dotato tale organo. La vicenda riguardava la volontà di un Giudice tributario, già Presidente di una Corte di secondo grado, di avvicinarsi per motivi di salute alla propria residenza mediante l’istituto dell’ applicazione temporanea . Ai sensi del combinato disposto della normativa primaria ( d.lgs. n. 545 del 1992 ) e secondaria ( risoluzione interna del Consiglio di Presidenza della Giustizia tributaria ) applicabile, ciò non era possibile, in quanto l'unica possibilità per assecondare i desiderata del richiedente sarebbe stata quella di violare il termine massimo di un anno previsto per la durata dell'applicazione e di derogare alla necessità di conservazione delle medesime funzioni, in quanto era in quel momento indisponibile un posto come Presidente di Corte di secondo grado nel luogo di residenza dell'interessato; d'altra parte, l'interessato non avrebbe potuto partecipare, per ragioni anagrafiche e di imminente collocamento a riposo, all'interpello per il posto oggetto dell'applicazione temporanea. A fronte di questa disciplina espressa, tuttavia, il Consiglio di Stato, a conferma della sentenza emessa in prima istanza, aveva annullato il diniego dell'istanza adottato dal CPGT, stabilendo, quale effetto conformativo non superabile, che, nel caso di specie - in ossequio al rispetto del principio costituzionale di tutela della salute -, l'applicazione del magistrato avrebbe potuto avere durata superiore a un anno e non sarebbe stato necessario lo svolgimento delle stesse funzioni già in essere, con possibilità, dunque, per il richiedente, di “passare” da Presidente di Corte di secondo grado a Presidente di Corte di primo grado. In altri termini, il Giudice amministrativo aveva riscritto la disciplina giuridica interna di un Organo di autogoverno per farne derivare, nella sua ottica decisoria, un profilo di compatibilità con l'architrave costituzionale. Si potrebbe quasi dire che nella pronuncia cassata del Consiglio di Stato è rinvenibile, in questo caso, un eccesso di diritto , inteso come spazio giuridico arbitrariamente invaso. Tanto, in senso opposto rispetto a un'altra precedente sentenza del Giudice amministrativo, anch’essa annullata per eccesso di potere, allorché invece il Consiglio di Stato fu tacciato non di avere applicato una regola di sua creazione ma di avere al contrario negato in astratto la tutela giurisdizionale (c.d. arretramento ), per avere precluso in radice la legittimazione a intervenire nel processo ad alcuni enti ricorrenti, così negando anche la giustiziabilità degli interessi collettivi da essi rappresentati ( Cass. civ, Sez. Unite, n. 32559/2023 ). In quel caso, secondo gli Ermellini, era mancata una verifica negativa in concreto delle condizioni di ammissibilità degli interventi in giudizio di alcune associazioni, con la conseguenza "di un aprioristico diniego di giustiziabilità" della posizione soggettiva di cui erano portatrici tali associazioni. Si potrebbe tradurre l'ipotesi in discorso alla stregua di una indebita trasformazione dell'interesse giuridico sottostante all'iniziativa processuale in un interesse di mero fatto . Gli approdi della Corte di Cassazione sul tema sono dunque vari e interessanti, e svelano come è facile riempire di nuovi contenuti quel controllo sui Giudici speciali che la Corte costituzionale aveva cercato di contenere con la sentenza n. 6 del 2018 , negando la possibilità di allargamento del concetto di giurisdizione al fine di garantire effettività della tutela e diritto al giusto processo. Ci sono peraltro degli ambiti di protezione dei diritti in cui forse si impone l'intervento dell'unico organo giurisdizionale davvero in grado di riportare ad unità il sistema, sotto il profilo del limite oltre il quale i singoli Giudici (speciali e ordinari) non possono andare, posto che la Corte costituzionale è "costretta" nelle strettoie del solo dato normativo di rango primario, del più che incisivo controllo sulla rilevanza delle questioni sollevate, e del necessario bilanciamento dei valori costituzionali da contemperare. Uno di questi ambiti è senz'altro quello afferente alle questioni di status dei magistrati, laddove è forse sfuggito al legislatore che gli unici che decidono sul loro “destino istituzionale”, al di fuori e a volte in senso contrario rispetto all'ambito peculiare dell'autogoverno, sono proprio i Giudici amministrativi. Si tratta di un profilo molto delicato, che si affianca in modo critico all’altra particolare questione, già sfiorata, delle c.d. carriere parallele di questi Giudici speciali, coinvolti in numero certamente superiore rispetto a quello dei magistrati ordinari nella collaborazione continuativa con le stesse amministrazioni sulla legittimità dei cui atti la Giustizia amministrativa si esprime, ma soprattutto presenti presso tutti i Ministeri più rilevanti, e anche presso gli uffici apicali della Presidenza del Consiglio dei Ministri. D’altra parte, con riferimento alle questioni di status , l’ordinamento della giustizia amministrativa è ricco di anomalie e criticità sue proprie, come evidenziato con arguzia da un ex magistrato amministrativo in un contributo apparso su questo sito [1] , e produce non poche preoccupazioni sulla sua tenuta futura, posto che le eventuali decisioni del Consiglio di Presidenza, in un senso o nell’altro – all’interno di una disciplina caotica e a strati, che spesso deve essere previamente interpretata –, sono poi impugnabili proprio dinanzi a TAR e Consiglio di Stato, nel contesto di una chiara anomalia di sistema che sfiora la dimensione della “ giurisdizione domestica ”. E non è del tutto peregrina l’ipotesi che il Consiglio di Stato, così come, con la sentenza del 7 aprile 2023, n. 3624 , ha deciso di fatto anche per il futuro (in assenza di uno specifico interesse attuale delle parti del giudizio) sulla legittimità di una delibera del Consiglio di Presidenza afferente ai criteri di nomina dei Presidenti di Sezione dello stesso Consiglio di Stato, possa un giorno pronunciarsi anche sulla perdurante separazione di fatto dei ruoli di Tar e Consiglio di Stato , posto che la tendenziale irreversibilità della scelta di transitare dal primo al secondo grado della Giustizia amministrativa è causa di malesseri interni al plesso e di una carenza ormai strutturale di provvista di giudici di appello. La formale estensione al giudice amministrativo delle garanzie di indipendenza e terzietà stabilite per il giudice civile con particolare riguardo alle cause di astensione obbligatoria ( art. 51 c.p.c. , come richiamato dagli articoli 17 e 18 c.p.a. ) rende applicabile anche al giudice amministrativo il principio secondo cui i semplici rapporti di “colleganza” e o di conoscenza tra una o più parti e il giudice, ivi compresi quelli derivanti dalla comune appartenenza a uno stesso ordinamento o istituto ovvero a una medesima associazione o categoria, non sono suscettibili di costituire causa di astensione. Tuttavia, come anticipato, tale principio, nella sostanza, sembra collidere con il fatto che il giudice amministrativo può trovarsi a giudicare su cause che vedono come parti soggetti appartenenti al suo stesso ordine giudiziario in relazione non solo a qualsiasi vicenda amministrativa ma anche in casi in cui l’oggetto del contendere, coinvolgendo l’interpretazione e l’applicazione di norme relative all’ordinamento della giustizia amministrativa, rischia potenzialmente di incidere sullo status e sulle prospettive di carriera dello stesso giudicante. L’aspetto sostanziale dell’indipendenza della magistratura – come interpretato dalla giurisprudenza sovranazionale sulla scia dell’ articolo 6 CEDU (“ Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale… ”) – pretende infatti che il giudice sia neutrale non soltanto rispetto alle parti in contenzioso, ma anche rispetto all’oggetto della lite stessa, nel senso della sua totale indifferenza rispetto agli interessi contrapposti e nei confronti dell’esito della controversia. Nel caso della c.d. giurisdizione domestica su diritti e status dei magistrati amministrativi, così come disciplinata oggi, sussistono garanzie idonee a rendere i giudici liberi da qualsiasi indebita influenza proveniente sia dall’esterno che dall’interno della magistratura? Esclusa una rilevanza di incostituzionalità delle norme vigenti, ha spazio la Corte di Cassazione per intervenire sulle sentenze del Consiglio di Stato che dovessero riscrivere o scrivere ex novo pezzi di “disciplina interna” allo stato carenti o del tutto mancanti? Staremo a vedere. Intanto può sicuramente affermarsi che, fortunatamente, le anomalie che caratterizzano l’assetto ordinamentale della giurisdizione amministrativa non sono state fino ad oggi idonee a pregiudicare la capacità dei Giudici dell’Amministrazione di assicurare un’efficace ed efficiente risposta alle istanze di giustizia dei singoli, attraverso l’imparziale applicazione delle regole processuali. Ancora più fortunatamente, sta emergendo - da ultimo - che l’incidenza del cattivo diritto sulla diminuzione del prodotto interno lordo origina da luoghi estranei a quelli in cui abita la giustizia amministrativa. È stata infatti recentemente diffusa la stima di alcuni economisti di valore, secondo cui se le leggi degli ultimi trent'anni fossero state chiare, il prodotto interno lordo italiano sarebbe ora più alto di almeno il 10 per cento [2] . Invero, tramite la misurazione di alcuni oggettivi indicatori di complessità delle norme, la ricerca ha dimostrato una correlazione importante tra ambiguità e incertezza delle leggi e diminuzione della crescita economica. E ancora più grave, poi, seguendo la lucida analisi svolta al riguardo da Sabino Cassese, è che l'oscurità del dato legislativo, ormai prepotentemente in mano ai Governi tramite l'uso "diffuso" dei decreti-legge – che sono scritti prevalentemente dagli staff dei ministeri e dalle strutture serventi della Presidenza del Consiglio dei ministri -, potrebbe essere addirittura premeditata , avendo carattere sistematico. Bisognerebbe allora capire da dove proviene e con quali criteri viene scelto il ristretto numero di «scrittori di leggi» che, ancora oggi, al di là delle competenze effettive e dei vincoli burocratici e politici, creano innanzitutto disagio applicativo ai Giudici (speciali e non), e infine veri e propri danni alla collettività. [1] Per un approfondimento delle ancora attuali questioni afferenti all'accesso e alle carriere dei Giudici amministrativi si rinvia al seguente link, dove è possibile l'integrale lettura del contributo a firma della Presidente in quiescenza Gabriella De Michele: https://www.primogrado.com/come-eravamo-e-come-siamo-rimasti-unicita-di-accesso-e-di-carriere-lo-strano-caso-dei-giudici-amministrativi [2] La notizia è stata riportata in un articolo a firma dell'ex Giudice della Corte costituzionale Sabino Cassese dal titolo "L'oscurità delle leggi ci fa male", rinvenibile al seguente link: https://www.corriere.it/opinioni/25_maggio_03/l-oscurita-delle-leggi-ci-fa-male-5c4a5f3a-ff33-44c6-81ef-d1944b925xlk.shtml
Autore: a cura di Paolo Nasini 3 maggio 2025
Trib. Ascoli Piceno, 14 ottobre 2024, n. 627, est. Sirianni IL CASO E LA DECISIONE La decisione del Tribunale marchigiano consegue all’atto di citazione con il quale la società qualificatasi come cessionaria dei crediti vantati nei confronti del Comune di Acquasanta Terme da altre due società a titolo di corrispettivo di prestazioni di servizi e di forniture erogate in favore dell’Ente territoriale medesimo, ha chiesto la condanna di quest’ultimo al pagamento di Euro 5.107,44 per sorte capitale, interessi moratori ai sensi degli artt. 2 e 5 del D.Lgs. n. 231/02 maturati e maturandi sulla predetta sorte capitale, interessi anatocistici ex art. 128 3 c.c. prodotti dagli interessi moratori, nonché Euro 720,00 ai sensi dell' art. 6, comma 2, del D.Lgs. n. 231/02 (Euro 40,00 per ciascuna delle fatture insolute). Il Comune, costituendosi in giudizio, ha sollevato una serie di eccezioni in via preliminare: a) improcedibilità della domanda per mancato esperimento della procedura di negoziazione assistita ex art. 3 D.L. n.132/14 ; b) incompetenza per valore del Tribunale adito, tenuto conto che il pagamento della sorte capitale era avvenuto prima della notifica dell'atto di citazione; 3) carenza di legittimazione attiva della società cessionaria dei crediti per non aver provato e documentato con l'atto di cessione originario la titolarità dei crediti; Nel merito, ha eccepito l'intervenuto pagamento della sorte capitale in data precedente alla citazione e l'inammissibilità della richiesta di pagamento degli interessi moratori, maturati e maturandi, sulla sorte capitale, nonché degli interessi anatocistici sui predetti interessi moratori ed il riconoscimento dell'importo di Euro 720,00, essendo il pagamento delle fatture intervenuto in epoca antecedente al maturare dei predetti interessi. All’esito del giudizio il Tribunale, in parziale accoglimento della domanda, ha condannato il Comune al pagamento, in favore della società ricorrente, degli interessi moratori sulla sorte capitale di Euro 5.107,44, nella misura di cui agli artt. 2 e 5, d.lgs. n. 231 del 2002, con decorrenza dal giorno successivo alla data di scadenza di ciascuna fattura al saldo; degli ulteriori interessi anatocistici prodotti dagli interessi moratori maturati sulle sole fatture emesse da una delle società cedenti nella misura di cui agli artt. 2 e 5 del D.Lgs. n. 231/2002 con decorrenza dalla data di notifica dell'atto di citazione fino al saldo; del rimborso forfettario di Euro 720,00 ai sensi dell'art. 6, comma 2, del D.Lgs. 231/02 (pari a 40 Euro per ogni fattura azionata); Superata la questione di improcedibilità per mancato esperimento della negoziazione assistita, tale procedura essendo stata poi celebrata nel corso del giudizio, il Tribunale ha respinto l’ eccezione di incompetenza , in quanto, venendo in rilievo una controversia avente ad oggetto il pagamento di una somma di denaro, da un lato, non è applicabile l’art. 14 c.p.c. [1] , sì che non è fondata la correlata contestazione del valore [2] , dall’altro lato, la competenza per valore deve ritenersi validamente radicata in base al valore specificamente dichiarato in citazione. Sull' eccezione di difetto di legittimazione attiva , poi, il Tribunale correttamente rammenta la distinzione concettuale tra legittimazione attiva e titolarità attiva del rapporto giuridico dedotto in giudizio: il Comune, infatti, ha eccepito che parte attrice, depositando semplicemente il "contratto quadro", non già il contratto di cessione con le società cedenti, non avrebbe dimostrato di essere legittimata a riscuotere i crediti oggetto di causa. Al riguardo, come ricordato in giurisprudenza, l'istituto della legittimazione ad agire si iscrive nella cornice del diritto all'azione, ovvero il diritto di agire in giudizio . Oggetto di analisi, ai fini di valutare la sussistenza della legittimazione ad agire, è la domanda, nella quale l'attore deve affermare di essere titolare del diritto dedotto in giudizio. Ciò che rileva è la prospettazione (discorso analogo vale per la simmetrica legittimazione a contraddire, che attiene alla titolarità passiva dell'azione e che, anch'essa, dipende dalla prospettazione nella domanda di un soggetto come titolare dell'obbligo o della diversa situazione soggettiva passiva dedotta in giudizio). Nel caso in cui l'atto introduttivo del giudizio non indichi, quanto meno implicitamente, l'attore come titolare del diritto di cui si chiede l'affermazione e il convenuto come titolare della relativa posizione passiva, l'azione sarà inammissibile. Naturalmente ben potrà accadere che poi, all'esito del processo, si accerti che la parte non era titolare del diritto che aveva prospettato come suo (o che la controparte non era titolare del relativo obbligo), ma ciò attiene al merito della causa, non esclude la legittimazione a promuovere un processo. L'attore perderà la causa, con le relative conseguenze, ma aveva diritto di intentarla [3 ] . Nel caso specifico, il Tribunale ha accertato la titolarità, in capo alla società attrice, del diritto azionato, alla luce dei contratti di cessione dei crediti presenti e futuri da parte delle due società creditrici "dirette" del Comune. Nel merito, il Tribunale pur avendo accertato che la somma capitale richiesta da parte ricorrente era già stata corrisposta dal Comune, ha verificato che, in ogni caso, le fatture di entrambe le società cedenti erano state pagate oltre la rispettiva scadenza, sì che secondo il Giudice parte convenuta era tenuta al pagamento degli interessi di mora, maturati e maturandi sulla sorte capitale, determinati nella misura degli interessi legali di mora ex artt. 2 e 5 del D.Lgs. n. 231/02 , come novellato dal D.Lgs. n. 192/12 . Secondo il Tribunale, infatti, si versa in materia di crediti derivanti da transazioni commerciali : l' art. 2 del D.Lgs. 231/2002 definisce le "transazioni commerciali" come "i contratti comunque denominati, tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni che comportano in via esclusiva o prevalente la consegna di merci o la prestazione di servizi contro il pagamento di un prezzo". Ai sensi dell'art. 4 del medesimo d.lgs., la decorrenza parte dal giorno successivo a quello di scadenza dei termini di pagamento delle fatture costituenti la predetta sorte capitale. Secondo il Tribunale, poi, sussistono i presupposti per l'accoglimento della domanda di condanna al pagamento degli interessi anatocistici prodotti dagli interessi moratori maturati sulla predetta sorte capitale che, alla data di notifica della citazione, siano scaduti da oltre sei mesi, ai sensi del l' art. 1283 c.c. . Ai sensi degli artt. 2 e 5 del D.Lgs. n. 231/02 , in virtù del richiamo operato a tale normativa dall' art. 1284, comma 4, c.c. , riconosciuto il diritto agli interessi di mora, secondo il Tribunale, va di conseguenza riconosciuto il diritto agli interessi sugli interessi scaduti da oltre sei mesi al momento dell'introduzione del giudizio , nella misura degli interessi legali di mora con decorrenza dalla data di notifica della citazione. Infine, il Tribunale ha accolto la domanda relativa al risarcimento forfettario del danno per costi di recupero dei crediti azionati da parte attrice in virtù del disposto dell' art. 6, comma 2, D.Lgs. 231/2002 . Tale disposizione (recante "risarcimento delle spese di recupero"), stabilisce che " al creditore spetta, senza che sia necessaria la costituzione in mora, un importo forfettario di 40 Euro a titolo di risarcimento del danno. È fatta salva la prova del maggior danno, che può comprendere i costi di assistenza per il recupero del credito ". Come rilevato dal Tribunale, la ratio della previsione in questione può cogliersi, da un lato, nell'intento punitivo-dissuasivo rispetto al ritardo dei pagamenti nelle transazioni commerciali che ispira tutta la disciplina recata dal D.Lgs. citato (attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa proprio alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali) e, dall'altro, nell'esigenza di garantire, anche in assenza di specifica prova, un indennizzo per i costi ordinariamente sostenuti dal creditore. Trattasi, invero, di costi "interni" o "amministrativi" diversi da quelli eventualmente sostenuti in ragione del conferimento di incarichi di recupero crediti a soggetti esterni. Tale importo forfettario spetta all'odierno attore a fronte del tardivo pagamento di tutte le fatture oggetto del giudizio [4] . [1] Ai sensi del quale ‹‹ nelle cause relative a somme di danaro o a beni mobili il valore si determina in base alla somma indicata o al valore dichiarato dall'attore; in mancanza di indicazione o dichiarazione, la causa si presume di competenza del giudice adito. Il convenuto può contestare, ma soltanto nella prima difesa, il valore come sopra dichiarato o presunto; in tal caso il giudice decide, ai soli fini della competenza, in base a quello che risulta dagli atti e senza apposita istruzione ››. [2] Per pacifica giurisprudenza, tale contestazione del valore ai fini della competenza è ammissibile solo in relazione a cause aventi ad oggetto cose mobili diverse dal denaro, mentre nessuna contestazione utile è ammessa relativamente alle cause aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro: si vedano, ex plurimis , Cass. civ., sez. III, 16 giugno 2003, n. 9658; id., 04 novembre 2002, n.15442; id., 13 novembre 2009, n. 24030. [3] Cass. civ., sez. un., 16 febbraio 2016, n. 2951. [4] CGCE, sez 3, del 20 ottobre 2022.
Autore: a cura di Oscar Marongiu 3 maggio 2025
Tar Lombardia, sez. III, sentenza n. 745/2025, pubblicata il 5 marzo 2025 IL CASO E LA DECISIONE Un cittadino straniero, dopo essere entrato sul territorio nazionale in condizioni di clandestinità, essere stato allontanato da un centro di accoglienza e avere contratto matrimonio con una cittadina italiana (dalla quale peraltro si era successivamente separato, con strascichi penali a suo carico), prova ad accedere alla “sanatoria” di cui al d.l. n. 34 del 2020 . Il beneficio gli viene peraltro negato in relazione all’insussistenza delle condizioni stabilite dalla norma in questione. In particolare, l’amministrazione compulsata aveva rilevato che l’interessato era stato condannato nel giugno del 2022 a quattro mesi di reclusione per una condotta di atti persecutori nei confronti della coniuge separata, condotta da lui tenuta tra il 2018 e il 2019. La pena finale applicata dal Giudice era stata peraltro lieve, in quanto commisurata alla contenuta offensività dei fatti, all’incensuratezza dell’imputato e alla concessione in suo favore delle circostanze attenuanti generiche, ma in ogni caso la condanna, rientrando tra le fattispecie elencate alla lett. c) del comma 10 dell’art. 103 del d.l. n. 34 del 2020 , era da considerarsi automaticamente preclusiva dell’esito positivo dell’istanza di emersione dal lavoro irregolare. Presentato ricorso avanti al Giudice amministrativo di primo grado, la difesa del cittadino straniero, consapevole dell’esistenza di una causa ostativa prevista direttamente dalla legge, rispetto alla quale l’amministrazione era vincolata e si è dunque mantenuta nei binari di un compito meramente esecutivo, ha chiesto di sollevare questione di costituzionalità per arrivare a una dichiarazione di illegittimità della norma dichiaratamente ostativa rispetto al beneficio richiesto. Il TAR Milano ha tuttavia respinto il ricorso, ritenendo manifestamente infondata la questione di costituzionalità dedotta dalla parte. In particolare, il Giudice meneghino, nell’evidenziare le differenze tra la fattispecie oggetto del suo esame e quella scrutinata dalla Corte costituzionale nel procedimento a seguito del quale è stata emessa la sentenza di accoglimento n. 43 del 2024 , ha affermato che le questioni non erano sovrapponibili per due diversi motivi. Innanzitutto, il reato ostativo preso in considerazione dalla Corte costituzionale era quello di detenzione illecita o spaccio di lieve entità ( art. 73, comma 5 del d.P.R. n. 309 del 1990 ), da considerarsi fattispecie autonoma rispetto al reato di detenzione e spaccio di stupefacenti di cui all’art. 73, comma 1 del d.P.R. n. 309 del 1990: da ciò consegue che il giudizio non è andato a sindacare la pena in concreto emessa in sede penale o la tipologia di condotta effettivamente tenuta all’interno di una fattispecie unitaria. In secondo luogo, il delitto di atti persecutori, a differenza di quello autonomo previsto e punito dal comma 5 dell’art. 73 del testo unico in materia di stupefacenti, comporta sempre l’ obbligatorietà dell’arresto in flagranza di reato . Conseguentemente, trattandosi di due differenti fattispecie penali – così come unitariamente considerate dalla lett. c) del comma 10 dell’art. 103 del d.l. n. 34 del 2020 – mentre è da considerarsi irragionevole la scelta del legislatore di escludere automaticamente la sanabilità della posizione di irregolarità nel Paese di un soggetto che è stato condannato per il reato di “spaccio lieve”, è al contrario da considerarsi razionale e proporzionata la scelta di far derivare conseguenze ostative automatiche alla condanna per il reato di stalking , anche perché tale delitto “ è di per sé suscettibile, se portato alle estreme conseguenze, di ledere irrimediabilmente beni costituzionalmente protetti al massimo livello... ”. Sotto altro aspetto, il TAR Milano ha respinto anche la censura di violazione dell’art. 19, comma 1.1., terzo e quarto periodo del d.lgs. n. 286 del 1998 , nella disciplina vigente ratione temporis , in quanto “ l’intrusione nella vita privata dell’interessato conseguente automaticamente alla fattispecie normativa in questione risulta giustificata sulla base delle circostanze di diritto e di fatto esistenti nel caso di specie ”. PROFILI DI CRITICITA’ DELLA NORMATIVA SUI REATI OSTATIVI IN MATERIA DI IMMIGRAZIONE La normativa in materia di procedimenti inerenti all ’immigrazione contempla due particolari discipline sulle condotte penali (e non) “interferenti” in senso negativo con la possibilità di accedere ai benefici di legge previsti in vista del soggiorno legale sul territorio italiano. Viene in primo luogo in considerazione il combinato disposto di cui all’ art. 5, comma 5, e 4, comma 4, del d.lgs. n. 286 del 1998 . Invero, “ il permesso di soggiorno o il suo rinnovo sono rifiutati e, se il permesso di soggiorno è stato rilasciato, esso è revocato quando mancano o vengono a mancare i requisiti richiesti per l'ingresso e il soggiorno nel territorio dello Stato ”; tra i requisiti richiesti c’è anche il fatto di non essere considerati “una minaccia per l'ordine pubblico o la sicurezza dello Stato o di uno dei Paesi con i quali l'Italia abbia sottoscritto accordi per la soppressone dei controlli alle frontiere interne e la libera circolazione delle persone”, o comunque di non risultare “ condannato, anche con sentenza non definitiva, compresa quella adottata a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per reati previsti dall'articolo 380, commi 1 e 2, del codice di procedura penale, per i reati di cui all'articolo 582, nel caso di cui al secondo comma, secondo periodo, e agli articoli 583-bis e 583-quinquies del codice penale, ovvero per reati inerenti gli stupefacenti, la libertà sessuale, il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina verso l'Italia e dell'emigrazione clandestina dall'Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite ”. Impedisce l'ingresso dello straniero in Italia anche la condanna con sentenza irrevocabile per uno dei reati previsti dalle disposizioni del titolo III, capo III, sezione II, della legge 22 aprile 1941, n. 633, relativi alla tutela del diritto di autore, e degli articoli 473 e 474 del codice penale, nonché dall'articolo 1 del decreto legislativo 22 gennaio 1948, n. 66, e dall'articolo 24 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773. Se per lo straniero in questione è stato richiesto il ricongiungimento familiare , poi, lo stesso non è ammesso in Italia “ quando rappresenti una minaccia concreta e attuale per l'ordine pubblico o la sicurezza dello Stato o di uno dei Paesi con i quali l'Italia abbia sottoscritto accordi per la soppressione dei controlli alle frontiere interne e la libera circolazione delle persone ”. Sotto altro fronte, ai sensi del comma 10 dell’art. 103 del d.l. n. 34, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 77 del 2020 , non sono ammessi alle procedure di emersione di rapporti di lavoro irregolari svolti con riferimento ad alcune specifiche attività – rispetto ai quali cioè lo straniero non aveva conseguito permesso di soggiorno per lavoro subordinato – coloro “ che risultino condannati, anche con sentenza non definitiva, compresa quella adottata a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per uno dei reati previsti dall'articolo 380 del codice di procedura penale o per i delitti contro la libertà personale ovvero per i reati inerenti agli stupefacenti, il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina verso l'Italia e dell'emigrazione clandestina dall'Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite ”. Stessa preclusione per coloro che siano comunque considerati una minaccia per l'ordine pubblico o la sicurezza dello Stato o di uno dei Paesi con i quali l'Italia abbia sottoscritto accordi per la soppressione dei controlli alle frontiere interne e la libera circolazione delle persone. Le due discipline normative sopra citate sono state oggetto di incisivi interventi della Corte costituzionale, la quale ha dovuto affrontare, nella sostanza, il tema dell’ automatismo introdotto dal legislatore tra l'applicazione di determinate condanne penali e il diniego del titolo di soggiorno. Con una prima pronuncia di carattere generale, la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 5, comma 5, del testo unico sull’immigrazione (d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286), nella parte in cui prevedeva che la valutazione discrezionale in esso stabilita (tenere conto, nella decisione finale sulla posizione del richiedente, anche della natura e della effettività dei vincoli familiari dell'interessato e dell'esistenza di legami familiari e sociali con il suo Paese d'origine, nonché, per lo straniero già presente sul territorio nazionale, della durata del suo soggiorno nel medesimo territorio) si applicasse solo allo straniero che «ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare» o al «familiare ricongiunto», e non anche allo straniero «che abbia legami familiari nel territorio dello Stato » ( sentenza 3 - 18 luglio 2013, n. 202 ). Successivamente, la Corte costituzionale ha dichiarato, più nello specifico, l'illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 4, comma 3, e 5, comma 5, del decreto legislativo sopra citato, nella parte in cui ricomprendeva, tra le ipotesi di condanna automaticamente ostative al rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro, anche quelle, pur non definitive, per il reato di cui all'art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 e quelle definitive per il reato di cui all'art. 474, secondo comma, del codice penale , senza prevedere che l'autorità competente verificasse in concreto la pericolosità sociale del richiedente ( sentenza 9 marzo - 8 maggio 2023, n. 88 ). Quanto poi al d.l. n. 34 del 2020, la Corte costituzionale ha dichiarato, con la recente sentenza n. 43 del 2024 , l'illegittimità costituzionale dell'art. 103, comma 10, lettera c) di tale decreto nella parte in cui, nel prevedere i «reati inerenti agli stupefacenti» come ostativi al buon esito della procedura di regolarizzazione, non escludeva il reato di cui all'art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 ( fatto di lieve entità di cessione o detenzione illecita di sostanze stupefacenti o psicotrope ). In sostanza, con le due ultime pronunce, il Giudice delle leggi ha denunciato l’irragionevolezza e la mancanza di proporzionalità di una scelta legislativa che faccia conseguire alla mera condanna per un delitto di modesta entità – a cui non segue neppure un’ipotesi di arresto obbligatorio in flagranza di reato – la preclusione automatica ai benefici di legge in materia di titoli di soggiorno sul territorio nazionale. Sulla scia di tali sentenze, si è posto allora il problema se altri automatismi connessi alla commissione di fattispecie penali lievi ma considerate ostative non debbano seguire la stessa sorte del reato di spaccio di lieve entità. L’attenzione si è in particolare appuntata sulla modalità concreta della condotta tenuta dal soggetto condannato, posto che ci sono alcuni reati (tra cui i maltrattamenti e lo stalking) in cui le situazioni possono essere tra di loro diversissime e conseguentemente portare a pene molto differenti. Nel caso affrontato dal TAR Milano e che qui si commenta, la difesa dello straniero ha messo in discussione la scelta del legislatore di sancire il diniego all’istanza di emersione del lavoro irregolare sulla sola base di una condanna per un fatto lieve di stalking . Il Giudice adito ha però respinto questa impostazione – che avrebbe dovuto condurre, in teoria, ad un nuovo giudizio dinanzi alla Corte costituzionale –, in quanto il reato normativamente considerato, nel caso di specie, come automaticamente ostativo ad un esito favorevole della procedura di “sanatoria” (reato di cui all’art. 612-bis c.p.) è stato oggetto, nell’ordinamento penale, di valutazione astratta unitaria , anche se in concreto può portare, in relazione alla oggettiva gravità della condotta, all’applicazione di pene finali tra di loro molto differenti. D’altra parte, non è stata ritenuta di per sé irragionevole la scelta del legislatore di escludere automaticamente la sanabilità della posizione di irregolarità nel Paese di un soggetto che è stato condannato per un reato suscettibile, se portato alle estreme conseguenze, di ledere irrimediabilmente beni costituzionalmente protetti al massimo livello, quali la libertà e l’incolumità personale. Inoltre, afferma sempre il Giudice meneghino, “ il delitto di atti persecutori, a differenza della “spaccio lieve”, comporta sempre l’obbligatorietà dell’arresto in flagranza di reato ”. Si tratta, in altri termini, di una fattispecie e di una soluzione legislativa diversa da quella già scrutinata e “bocciata” in due distinte occasioni dalla Corte costituzionale. Resta peraltro sullo sfondo, in quanto non specificamente affrontata dal TAR (che pure ha tenuto implicitamente distinte, quanto ad effetti concreti, le fattispecie di rinnovo di permesso di soggiorno da quello di domanda in sanatoria), l’ulteriore questione dell’eventuale contrasto della norma nazionale primaria con il parametro dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU , sotto il profilo della “protezione della vita privata”. D’altra parte, l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale e convenzionale in tema di proporzionalità si è sviluppata proprio e in particolare con riguardo all’art. 8 CEDU, e la Corte costituzionale, nel superare la precedente pronuncia del 2008, con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 5, comma 5 del d.lgs. n. 286 del 1998, in connessione con la preclusione derivante dal reato di spaccio di lieve entità, ha evidenziato che “ l’interesse dello Stato alla sicurezza e all’ordine pubblico non subisce alcun pregiudizio dalla sola circostanza che l’autorità amministrativa operi, in presenza di una condanna per il reato di cui si tratta, un apprezzamento concreto della situazione personale dell’interessato, a sua volta soggetto all’eventuale sindacato di legittimità operato dal giudice ”.
Autore: dalla Redazione ("pillole" di diritto europeo) 30 aprile 2025
Corte giust. Ue 3^, 25.1.24, causa C-474-22/ Corte giust. Ue 9^, 16.5.24, causa C-405/23/ Corte giust. Ue 8^, 16.1.25, causa C-516/23/ Corte giust. Ue 7^, 6.3.25, causa C-20/24 Il regolamento (CE) n. 261/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'11 febbraio 2004 , istituisce regole comuni in materia di compensazione ed assistenza ai passeggeri in caso di negato imbarco, di cancellazione del volo o di ritardo prolungato. Alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia che equipara la situazione dei passeggeri di voli che hanno subito un ritardo prolungato , vale a dire un ritardo di tre ore o più all'arrivo alla loro destinazione finale, a quella dei passeggeri di voli cancellati, il Giudice tedesco di appello competente ha interpretato l'articolo 3, paragrafo 2, lettera a), di tale regolamento, nel senso che un passeggero che sia stato informato di un ritardo di tre ore o più prima della sua partenza può beneficiare della compensazione pecuniaria prevista agli articoli 5 e 7 del regolamento, anche se non si è presentato in aeroporto. Nel caso di specie, in effetti, un passeggero disponeva di una prenotazione confermata presso un vettore aereo per un volo da Düsseldorf a Palma di Maiorca, ma, ritenendo che il ritardo annunciato di tale volo gli avrebbe fatto perdere un appuntamento di lavoro, decideva di non imbarcarsi. Il volo era poi effettivamente giunto a destinazione con 3 ore e 32 minuti di ritardo. Investita della questione, la Corte federale di Giustizia tedesca ha chiesto in via pregiudiziale al Giudice eurounitario se, per ottenere il diritto a compensazione pecuniaria per un ritardo del volo superiore a tre ore rispetto all'orario di arrivo previsto, il passeggero debba presentarsi all'accettazione, conformemente all'articolo 3, paragrafo 2, lettera a), del regolamento sopra citato, all'ora indicata dal vettore aereo, operatore turistico o agente di viaggio autorizzato, e al più tardi quarantacinque minuti prima dell'ora di partenza pubblicata, oppure se, nel caso di un ritardo prolungato – così come nel caso della cancellazione del volo -, tale requisito venga meno. La Corte di Giustizia ha chiarito che l'elemento cruciale che l’ha indotta ad assimilare il ritardo prolungato di un volo all'arrivo alla cancellazione di un volo, attiene al fatto che i passeggeri di un volo con ritardo prolungato subiscono, al pari dei passeggeri di un volo cancellato, un danno che si concretizza in una perdita di tempo irreversibile , pari o superiore a tre ore, che può essere risarcito unicamente con una compensazione pecuniaria. Pertanto, in caso di cancellazione di un volo o di ritardo prolungato di un volo all'arrivo alla sua destinazione finale, il diritto alla compensazione pecuniaria previsto all'articolo 7, paragrafo 1, del regolamento n. 261/2004 è intrinsecamente connesso all'esistenza di tale perdita di tempo pari o superiore a tre ore. Orbene, un passeggero che non si è recato all'aeroporto, in quanto disponeva di elementi sufficienti per concludere che il volo sarebbe arrivato alla sua destinazione finale solo con un ritardo prolungato, non ha, con tutta probabilità, subito una siffatta perdita di tempo. La perdita di tempo non è infatti un danno generato da un ritardo, ma costituisce un disagio , al pari di altri disagi inerenti alle situazioni di negato imbarco, di cancellazione del volo e di ritardo prolungato e che accompagnano tali situazioni, come la mancanza di comfort , la temporanea privazione di mezzi di comunicazione normalmente disponibili o il fatto di non poter condurre in modo continuativo i propri affari personali, familiari, sociali o professionali. Ne deriva che l’ art. 3, par. 2, lett. a), del regolamento 261/2004 va interpretato nel senso che, per beneficiare della compensazione pecuniaria di cui all’art. 5, par. 1, e all’art. 7, par. 1, di tale regolamento, in caso di ritardo prolungato del volo, ossia un ritardo di tre ore o più rispetto all’orario di arrivo originariamente previsto dal vettore aereo, un passeggero del trasporto aereo deve essersi presentato in tempo utile all’accettazione o, se si è già registrato online , deve essersi presentato in tempo utile all’aeroporto presso un rappresentante del vettore aereo operativo. Il danno individuale può essere peraltro compensato con il “ risarcimento supplementare ” disciplinato dall’art. 12 del regolamento n. 261/2004, il quale presuppone che la domanda sia fondata sul diritto nazionale o sul diritto internazionale. Un volo in partenza dall'aeroporto di Colonia-Bonn, e con destinazione Kos, subiva un ritardo di 3 ore e 49 minuti all'arrivo, a causa principalmente del fatto che, da un lato, il volo precedente aveva già subito un ritardo di 1 ora e 17 minuti per via di una carenza del personale addetto alla registrazione dei passeggeri, e, dall’altro, il carico dei bagagli nell'aereo era stato rallentato in quanto anche il personale del gestore del secondo aeroporto, responsabile del servizio, era in numero insufficiente. Secondo la società ricorrente, che aveva acquisito i diritti di alcuni passeggeri ad ottenere la compensazione pecuniaria, il ritardo del volo in questione non avrebbe potuto essere giustificato alla luce di circostanze eccezionali , ai sensi dell'articolo 5, paragrafo 3, del regolamento n. 261/2004. D’altra parte, per il Giudice del Land tedesco investito della questione, risultava risolutivo della causa proprio lo stabilire se la carenza di personale del gestore dell'aeroporto di Colonia-Bonn, addotta dal vettore aereo come causa del ritardo prolungato del volo, configurasse o meno una «circostanza eccezionale» ai sensi dell'articolo 5, paragrafo 3, del regolamento n. 261/2004. Infatti, in caso di risposta affermativa a tale questione, il vettore aereo medesimo non avrebbe dovuto essere tenuto a offrire alcuna compensazione pecuniaria alla ricorrente, in quanto la parte del ritardo del volo di cui trattasi che le sarebbe stata imputabile non avrebbe raggiunto le 3 ore. Investita della relativa questione pregiudiziale, la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha innanzitutto premesso che, in forza dell' articolo 5, paragrafo 1, lettera c), del regolamento n. 261/2004 , i passeggeri interessati da un volo che abbia subito un ritardo di almeno 3 ore all'arrivo alla sua destinazione finale non hanno diritto a una compensazione pecuniaria se il vettore aereo operativo è in grado di dimostrare che il ritardo prolungato è dovuto a circostanze eccezionali che non si sarebbero comunque potute evitare anche se fossero state adottate tutte le misure del caso ai sensi dell'articolo 5, paragrafo 3, del regolamento n. 261/2004. Sotto questo profilo, la nozione di «circostanze eccezionali», ai sensi dell'articolo sopra richiamato, designa eventi che, per la loro natura o per la loro origine, non sono inerenti al normale esercizio dell'attività del vettore aereo interessato e sfuggono all'effettivo controllo di quest'ultimo, condizioni che sono cumulative e il cui rispetto deve essere oggetto di una valutazione caso per caso. D’altra parte, dice la Corte, “ occorre ricordare che gli eventi la cui origine è «interna» devono essere distinti da quelli la cui origine è «esterna» a tale vettore aereo. Rientrano così in tale nozione, nell'ambito del verificarsi degli eventi cosiddetti «esterni», quelli che derivano dall'attività del vettore aereo e da circostanze esterne, più o meno frequenti nella pratica, ma che un vettore aereo non controlla in quanto trovano origine in un fatto naturale o in quello di un terzo, come un altro vettore aereo o un soggetto pubblico o privato che interferisca nell'attività aerea o aeroportuale ”. In conclusione, sono queste le coordinate in base alle quali il giudice del rinvio deve decidere se il ritardo prolungato del volo di cui trattasi fosse effettivamente dovuto a circostanze eccezionali, posta la necessità ulteriore di valutare, alla luce degli elementi di prova forniti dal vettore aereo interessato, se quest'ultimo abbia dimostrato che tali circostanze non avrebbero potuto essere evitate anche se fossero state adottate tutte le misure del caso e che esso ha adottato le misure adeguate alla situazione in grado di ovviare alle conseguenze di quest'ultima, “ salvo acconsentire a sacrifici insopportabili per le capacità della sua impresa nel momento pertinente ”. Alcuni soggetti avevano effettuato una prenotazione presso un vettore aereo per voli andata e ritorno da Francoforte sul Meno a Denpasar (Indonesia), con scalo a Doha, nell’ambito di una campagna promozionale di detto vettore aereo operativo, volta a consentire ai professionisti del settore sanitario di effettuare prenotazioni di voli, pagando soltanto le tasse e i diritti relativi a tali prenotazioni. I voli oggetto della prenotazione venivano peraltro cancellati e il vettore aereo interessato non garantiva il riavvio successivo dei passeggeri alle stesse condizioni e per la stessa destinazione. Gli interessati chiedevano pertanto al Giudice nazionale competente un risarcimento per la violazione, da parte di tale vettore aereo operativo, del suo obbligo di assistenza risultante dall’ articolo 8, paragrafo 1, lettera c), del regolamento n. 261/2004 . Nell’ambito di tale causa, il giudice del rinvio si è interrogato, in primo luogo, sull’applicabilità, nel caso di specie, del predetto regolamento, qualora si debba ritenere che un passeggero viaggia gratuitamente, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 3, del regolamento n. 261/2004, quando deve pagare unicamente le tasse sul trasporto aereo e i diritti aeroportuali. La Corte di Giustizia dell’Unione europea ha risposto al quesito pregiudiziale affermando che l' art. 3, par. 3, del regolamento n. 261/2004 va interpretato nel senso che un passeggero non viaggia gratuitamente quando, per effettuare la propria prenotazione, abbia dovuto pagare esclusivamente tasse sul trasporto aereo e diritti. Inoltre, secondo i Giudici eurounitari, l'art. 8, par. 1, lett. c), va interpretato nel senso che esso non richiede, ai fini della sua applicazione, l'esistenza di un nesso temporale tra il volo cancellato e il volo di riavviamento desiderato da un passeggero, potendo tale riavviamento verso la destinazione finale essere richiesto in condizioni di trasporto comparabili a una data successiva, a seconda delle disponibilità di posti. Un vettore aereo che propone voli charter aveva concluso con un operatore turistico un contratto, nell'ambito del quale il vettore aereo ha fornito all'operatore voli specifici in date particolari, per i quali l'operatore stesso ha poi venduto biglietti ai passeggeri interessati, dopo averne pagato preventivamente i prezzi Alcuni di questi passeggeri hanno partecipato a un viaggio «tutto compreso», che includeva un volo in partenza da Tenerife, con destinazione Varsavia; il contratto relativo al viaggio «tutto compreso» era stato concluso tra altra società, a nome di tali passeggeri, e l'operatore turistico che aveva acquistato preventivamente i biglietti. Tale volo aveva accusato un ritardo all'arrivo di più di 22 ore. Per dimostrare la propria legittimazione ad agire per ottenere un risarcimento dei danni connessi al ritardo del volo in questione, i passeggeri in questione avevano presentato copie delle carte d'imbarco per tale volo. Tuttavia, il vettore aereo aveva negato la compensazione pecuniaria a tali passeggeri, in quanti gli stessi non avrebbero dimostrato di essere in possesso di una prenotazione confermata e pagata per il volo suddetto. Infatti, secondo il vettore de quo , il viaggio «tutto compreso» di detti passeggeri sarebbe stato pagato dall'operatore turistico a condizioni preferenziali , cosicché i medesimi passeggeri avrebbero viaggiato gratuitamente o a tariffa ridotta, ai sensi dell'articolo 3, paragrafo 3, del regolamento n. 261/2004, il che escluderebbe il diritto a una compensazione a norma di tale regolamento. Investita della questione pregiudiziale, la Corte di Giustizia dell'Unione europea ha stabilito che l’art. 2, lett. g), e l’art. 3, par.2, lett. a), del regolamento n. 261/2004 vanno interpretati nel senso che la carta d’imbarco può costituire un titolo che attesta che la prenotazione è stata accettata e registrata dal vettore aereo o dall’operatore turistico, cosicché si può ritenere che il passeggero in possesso di tale carta possieda una “prenotazione confermata” per il volo di cui trattasi, in una situazione in cui non venga dimostrata alcuna particolare circostanza anomala. In particolare, l’art. 3, par. 3, del regolamento va interpretato nel senso che non si può ritenere che il passeggero viaggi gratuitamente o a una tariffa ridotta non accessibile, direttamente o indirettamente, al pubblico, ai sensi di tale disposizione, quando, da una parte, l’operatore turistico paga il prezzo del volo al vettore aereo operativo conformemente alle condizioni di mercato e, dall’altra, il prezzo del viaggio “tutto compreso” è pagato a tale operatore non da detto passeggero, ma da un terzo. Spetta a tale vettore aereo dimostrare, secondo le modalità previste dal diritto nazionale, che detto passeggero ha viaggiato gratuitamente o ad una tariffa ridotta.
Autore: Alma chiettini 24 aprile 2025
Corte costituzionale, sent. n. 36 del 2025 e sent. n. 34 del 2025 A fine marzo di quest'anno, la Corte costituzionale ha adottato due pronunce di interesse per il diritto tributario. Quanto alla sentenza n. 36 del 2025 , occorre premettere che i l d.lgs. n. 220 del 2025, di modifica del d.lgs. n. 546 del 1992 , aveva introdotto due novità nel giudizio d’appello: - all’ art. 58, comma 1 , il divieto di “nuovi mezzi di prova”, divieto che letto in combinato disposto con l’art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 220 comportava che la nuova regola si applicasse anche giudizi instaurati in secondo grado a far data dal giorno successivo all’entrata in vigore della nuova disposizione (ossia il 4 gennaio 2024); - all’ art. 58, comma 3 , il divieto di “deposito delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti, delle notifiche dell’atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità che possono essere prodotti in primo grado anche ai sensi dell’articolo, 14 comma 6-bis”. Ebbene, con la sentenza n. 36, depositata il 27 marzo 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato: - l’illegittimità costituzionale per irragionevolezza della disciplina di cui al comma 1 dell’art. 58, in quanto la novella, sebbene formalmente prevista solo per il futuro, nella sostanza incideva sugli effetti giuridici di situazioni processuali instauratesi quando era in vigore la normativa precedente. Trattandosi di una disposizione intertemporale, vige “ il principio generale il quale esige che il passaggio da un previgente ad un nuovo regime processuale non sia regolato da norme manifestamente irragionevoli e lesive dell’affidamento nella tutela delle posizioni legittimamente acquisite ”. Per cui la Corte ha giudicato fondate le censure ex artt. 3 e 111 Cost. con cui si prospettava, da un lato, la “ palese ed ingiustificata violazione del principio del giusto processo sotto il profilo della prevedibilità delle regole processuali dell’intero percorso di tutela e, dall’altro, il pregiudizio recato alla scelta difensiva delle parti dei processi già instaurati in primo grado al momento dell’entrata in vigore della novella processuale ”; - l’illegittimità costituzionale della seconda disposizione censurata dell’art. 58 limitatamente alle parole “delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti”. Nella sentenza si legge che “l a novella del 2023 ha optato per un modello di gravame ad istruttoria chiusa, temperato, però, dal riconoscimento della facoltà per le parti di introdurre in secondo grado prove nuove indispensabili ai fini della decisione o incolpevolmente non dedotte in primo grado. Rispetto a tale regola generale, il divieto assoluto di produzione delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere non trova appiglio nelle caratteristiche oggettive dei suddetti documenti, non essendo rinvenibile in essi un elemento differenziale sul quale il legislatore possa costruire una disciplina diversificata ”. Inoltre - ha rilevato ancora la Corte - la nuova disciplina, dove inibisce il deposito delle deleghe, delle procure e degli atti di conferimento di potere, pur quando ne sia stata incolpevolmente impossibile la produzione in primo grado, comprime ingiustificabilmente il diritto alla prova , posto che in tali ipotesi il processo di appello costituisce la prima e unica occasione per dedurre i mezzi istruttori che non siano stati introdotti in primo grado per causa non imputabile alla parte. Per quanto concerne, invece, il divieto di produzione in appello delle notifiche dell’atto impugnato , ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità, la Corte ne ha escluso sia la irragionevolezza sia la contrarietà ai parametri costituzionali dedotti, perché il legislatore ha inteso evitare che l’appello venga promosso al solo fine di effettuare un deposito documentale che, pur essendo da solo sufficiente per la definizione del giudizio, sia stato omesso in prime cure. La sentenza n. 34, depositata il 21 marzo 2025 , si segnala invece non tanto per il tema trattato (l’assoggettamento anche delle società di gestione del risparmio - c.d. SGR - all’imposta sui redditi delle società con un’addizionale dell’8,5 per cento), ma per i principi generali dettati (meglio: ricordati), in materia di imposizione tributaria : - la Costituzione non impone una tassazione fiscale uniforme, con criteri assolutamente identici e proporzionali per tutte le tipologie di imposizione tributaria; essa esige piuttosto un indefettibile raccordo con la capacità contributiva , in un quadro di sistema informato a criteri di progressività, come svolgimento ulteriore, nello specifico campo tributario, del principio di eguaglianza, collegato al compito di rimozione degli ostacoli economico-sociali esistenti di fatto alla libertà ed eguaglianza dei cittadini-persone umane, in spirito di solidarietà politica, economica e sociale; - per “capacità contributiva”, ai sensi dell’ art. 53 Cost. , si intende l’idoneità del soggetto all’obbligazione d’imposta, desumibile dal presupposto economico cui l’imposizione è collegata, presupposto che consiste in qualsiasi indice rivelatore di ricchezza, secondo valutazioni riservate al legislatore, salvo il controllo di legittimità costituzionale sotto il profilo della loro arbitrarietà o irrazionalità; - in un contesto complesso come quello contemporaneo, dove si sviluppano nuove e multiformi creazioni di valore, il concetto di capacità contributiva non necessariamente deve rimanere legato solo a indici tradizionali come il patrimonio e il reddito, potendo rilevare anche altre e più evolute forme di capacità, che ben possono denotare una forza o una potenzialità economica; - viste le peculiari caratteristiche del mercato finanziario, non è irragionevole individuare uno specifico e autonomo indice di capacità contributiva, idoneo a giustificare una regola differenziata di determinazione della base imponibile, nella “ appartenenza dei soggetti passivi al mercato finanziario, quale indice di capacità contributiva ”; - per cui l’ appartenenza al mercato finanziario , del quale le SGR fanno parte, può rappresentare, in ipotesi circoscritte temporalmente e dettate da una crisi economica generale, un non irragionevole e non arbitrario indice di capacità contributiva, anche alla luce dei principi di uguaglianza tributaria e di solidarietà.