IL CASO
Un soggetto, all’epoca magistrato amministrativo, ma successivamente destituito dall’Ufficio giudiziario di appartenenza, ha citato in giudizio, dinanzi al Tribunale civile di Bari, due dei tre componenti della commissione incaricata dal Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa di svolgere attività istruttoria in funzione disciplinare.
In particolare, secondo l’attore, i due convenuti, occupandosi del suo caso in qualità di componenti della citata commissione istruttoria, avrebbero agito in base a "un disegno persecutorio", che sarebbe stato provato, tra l’altro, dalla scelta di negare all’incolpato "il contraddittorio nella fase degli accertamenti preliminari", dall’essere stati pregiudizialmente faziosi nel condurre l’audizione dei testimoni e dall’avere utilizzato prove acquisite illecitamente.
L’ex magistrato amministrativo ha dunque chiesto la condanna dei due convenuti al risarcimento dei danni (a titolo di responsabilità civile, ex art. 2043 c.c.) che gli sarebbero derivati dall’illecito plurioffensivo (in quanto lesivo del "diritto all'equo processo", del "diritto all'autodeterminazione", della "libertà di ricerca e insegnamento" e del "diritto alla salute") cagionato dall'iniziativa disciplinare e dalle modalità con cui la stessa sarebbe stata condotta.
La Corte di Cassazione, adita in sede di regolamento preventivo di giurisdizione, ha dovuto stabilire se la causa introdotta in sede civile dall’attore appartenga alla giurisdizione del giudice ordinario o a quella del giudice amministrativo.
LE DUE TESI
Secondo l’impostazione dei convenuti, l'azione intentata dall’ex magistrato amministrativo sarebbe orientata a censurare atti o provvedimenti di un organo interno collegiale del CPGA, al quale la legge affida direttamente lo svolgimento di funzioni nell'ambito del procedimento disciplinare.
Si tratterebbe, dunque, di un giudizio volto a tutelare non già diritti soggettivi asseritamente lesi da condotte integranti l'illecito aquiliano, bensì l’interesse legittimo alla regolarità del procedimento disciplinare e alla legittimità del relativo provvedimento conclusivo, non diversamente da quanto dallo stesso attore evidenziato nel parallelo giudizio proposto dinanzi al T.A.R. Lazio e finalizzato all’annullamento del provvedimento disciplinare finale (destituzione), sulla base della dedotta illegittimità degli atti istruttori e della proposta formulata dalla commissione a ciò deputata.
In altri termini, l’attore avrebbe contestato gli stessi atti sia dinanzi al giudice ordinario che dinanzi al giudice amministrativo, facendoli inammissibilmente esaminare, in relazione al diverso soggetto convenuto/resistente (in un caso, i due componenti fisici della commissione istruttoria, nell’altro caso, il Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa e la Presidenza del Consiglio dei Ministri), da due diversi Giudici, e dunque generando una duplicità di ambiti giurisdizionali per uno stesso fatto, nonostante le due persone fisiche citate dinanzi al Tribunale di Bari non avessero assunto decisioni individuali ma svolto sempre e soltanto attività in forma collegiale, secondo le prescrizioni di legge.
L’azione introdotta in sede civile involgerebbe dunque atti e/o comportamenti tenuti nel contesto di attività istruttoria tipica (endoprocedimentale) di un procedimento amministrativo e disciplinare, atti che, costituendo condotte di esercizio del potere autoritativo e discrezionale dalla legge attribuito a ciascun funzionario amministrativo in quanto membro della commissione istruttoria, farebbero rientrare la controversia tra quelle devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo ai sensi dell'art. 7 c.p.a..
Sotto un altro profilo, la giurisdizione del giudice amministrativo sarebbe sussistita, nella specie, in base all'art. 133, comma 1, lett. i), c.p.a., in quanto controversia relativa a rapporto di lavoro del "personale in regime di diritto pubblico", nel quale rientrano, ai sensi del d.lgs. n. 165 del 2001, art. 3, i magistrati amministrativi, ed avendo il procedimento disciplinare "ontologicamente natura di controversia di lavoro" relativa al rapporto, che si conclude con un provvedimento amministrativo adottato dal CPGA, impugnabile, ex art. 135 c.p.a., dinanzi al T.A.R. del Lazio, munito, al riguardo, di competenza territoriale inderogabile.
Un ultimo profilo di connessione con la giurisdizione amministrativa, peraltro collegato più che altro ad un presunto abuso del processo, residuerebbe nel fatto che l’attore aveva introdotto, dinanzi al Tribunale di Bari, profili di illegittimità di atti e provvedimenti adottati in seno al procedimento disciplinare, prima che questo si concludesse, interferendo con l'esercizio stesso del potere disciplinare, e tentando inammissibilmente – in contrasto con l'art. 25 Cost. -, di scegliere il giudice in base alla sua strategia processuale, strumentalizzando così la causa civile per rendere incompatibili i convenuti rispetto alla decisione che sarebbe stata infine assunta dal CPGA, e convenendo in giudizio dinanzi al giudice ordinario soltanto due componenti su tre della commissione istruttoria, al fine di radicare la giurisdizione di quel giudice ordinario nonostante la sostanza della domanda, che sarebbe stata in ogni caso diretta, seppure di fatto, nei confronti di un organo della pubblica amministrazione per motivi di cattivo esercizio del potere (con giurisdizione affidata al giudice amministrativo dall’art. 103 della Costituzione).
Secondo la diversa impostazione dell’attore, invece, muovendo dall’esame della intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio (petitum sostanziale, che è da individuarsi in base ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale detti fatti costituiscono manifestazione, e che costituisce il criterio orientativo della delibazione che le Sezioni Unite della Cassazione sono tenute a compiere in punto di riparto di giurisdizione), l'azione risarcitoria da lui promossa si fonderebbe sull'allegazione di un illecito aquiliano che trova concretezza in una fattispecie materiale che si incentra, essenzialmente, sull'attività di carattere procedimentale svolta dalla commissione di cui all’art. 33 della L. n. 186 del 1982, quale organo collegiale emanazione del CPGA, attività che avrebbe assunto i caratteri dell'abuso del potere disciplinare e che gli avrebbe arrecato un danno ingiusto nei termini di lesione di una pluralità di diritti della persona costituzionalmente protetti.
In questa prospettiva, peraltro, l'azione aquiliana non è rivolta contro il soggetto pubblico, titolare del potere disciplinare, bensì contro due soli componenti della citata commissione (presidente e membro della stessa), sebbene proprio nella veste di funzionari pubblici legati ad essa da rapporto organico e per gli atti e i comportamenti tenuti nell'esercizio di dette funzioni, atti e comportamenti che avrebbero, in tesi, orientato l'attività dell'intero collegio e, quindi, della commissione stessa, così da realizzare il dedotto "abuso di potere disciplinare".
In altri termini, l'azione risarcitoria, secondo l'attore, sarebbe stata proposta non contro la pubblica amministrazione, non avendo "direttamente ad oggetto la legittimità degli atti amministrativi", bensì contro "le persone fisiche che hanno avuto la gestione del procedimento", per le modalità asseritamente persecutorie o dolosamente imperniate sull'abuso di potere, o comunque per l'esercizio illegale del potere disciplinare.
LA SOLUZIONE
La Corte di Cassazione ha accolto l’impostazione dell’attore, e dunque stabilito la giurisdizione del giudice ordinario sulla controversia – con conseguente prosecuzione del giudizio dinanzi al Tribunale di Bari -, per le ragioni di seguito riportate.
Preliminarmente, la Corte ha precisato che la soluzione della questione di giurisdizione prospettata non trova più ostacolo pregiudiziale nell’art. 28 della Costituzione, la cui espressione "atti compiuti in violazione dei diritti" (e, di riflesso, l'analoga espressione "violazione dei diritti dei terzi" - utilizzata dal D.P.R. n. 3 del 1957, art. 23, per definire la nozione di "danno ingiusto" cui si richiama l'art. 22 dello stesso D.P.R.) deve oggi intendersi, in senso estensivo e traslato, come violazione di ogni interesse rilevante per l'ordinamento giuridico e meritevole di tutela, tale, dunque, da fondare la responsabilità del pubblico dipendente (per dolo o colpa grave), anche con riferimento alla lesione di una posizione di interesse legittimo del terzo danneggiato.
In altri termini, secondo la Cassazione, chiamare in giudizio funzionari pubblici per violazione di “diritti” non radica di per sé, ai sensi dell’art. 28 della Costituzione, la giurisdizione del giudice ordinario.
Tuttavia, la domanda risarcitoria formulata dall’ex magistrato amministrativo contro i due componenti della commissione istruttoria spetta in ogni caso alla cognizione del giudice ordinario, in quanto investe unicamente le singole persone fisiche, sebbene nella veste di funzionari pubblici, e non la pubblica amministrazione per la quale hanno agito, e che, come tale, non è stata destinataria (quantomeno nel giudizio dinanzi al giudice ordinario) di alcuna pretesa risarcitoria.
La Corte applica, in particolare, il principio secondo cui l'art. 103 Cost. non consente di ritenere che il giudice amministrativo possa conoscere di controversie di cui non sia parte una P.A., o soggetti ad essa equiparati, sicché la pretesa risarcitoria avanzata nei confronti del funzionario in proprio, cui si imputi l'adozione del provvedimento illegittimo, va proposta dinanzi al giudice ordinario, non ostando a ciò la proposizione di analoga domanda anche nei confronti dell'ente pubblico, sotto il profilo della responsabilità solidale dello stesso.
In questo caso, infatti, non ha rilievo l’eventuale esercizio congiunto delle due azioni (contro i funzionari persone fisiche e contro l’amministrazione da loro organicamente rappresentata per la medesima attività istituzionale svolta), poiché le ragioni di connessione non sono in grado di “spostare” la giurisdizione, che resta inderogabile in ordine alle singole posizioni soggettive coinvolte.
D’altra parte, il dettato costituzionale che radica la giurisdizione del giudice amministrativo "nei confronti della pubblica amministrazione" è confermato dallo stesso codice del processo amministrativo, il cui art. 7, comma 1, riferisce alle "pubbliche amministrazioni" e ai soggetti ad esse "equiparati" l'esercizio del potere suscettibile di incidere sulle posizioni di interesse legittimo e (nelle particolari materie) di diritto soggettivo e, quindi, di attivare la cognizione del giudice amministrativo a tutela di dette situazioni soggettive.
In altri termini, secondo la Cassazione, una controversia, per essere devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo, deve esigere, sotto il profilo soggettivo, che una delle parti sia la pubblica amministrazione e che l'altra sia il soggetto (qualunque esso sia) che faccia valere in giudizio il suo interesse legittimo o (nei casi di giurisdizione esclusiva) il suo diritto.
La decisione è condivisibile, anche se agisce più sotto il profilo strutturale dei soggetti necessariamente coinvolti nel contenzioso dinanzi al giudice amministrativo, che sotto il profilo – normalmente decisivo, ai fini del riparto di giurisdizione – della causa petendi.
Se infatti i funzionari pubblici si fossero limitati semplicemente – diversamente da quanto prospettato dall’attore - ad operare nella cornice di legalità loro consentita dall’ordinamento, e nell’ambito della loro attività istituzionale, sarebbe stato difficile non qualificare la posizione soggettiva del privato leso come di interesse legittimo.
Non vi sarebbe stata infatti alcuna differenza tra la condotta ascritta ai funzionari e la condotta ascritta all’amministrazione da loro organicamente rappresentata, sotto il profilo dell’eventuale responsabilità.
Situazione ancora diversa è invece quella, prospettata dall’attore, di un esercizio abusivo e persecutorio del potere attribuito dalla legge da parte dei funzionari pubblici coinvolti nel procedimento amministrativo, determinato cioè da pregiudizio, mala fede e gestione illecita del procedimento stesso.
In tal caso, viene a generarsi un diverso regime di responsabilità tra condotta formale dell’amministrazione e attività sostanziale dei suoi rappresentanti organici, che in ogni caso può coesistere, ai sensi dell’art. 22 del d.P.R. n. 3 del 1957.
Se infatti il provvedimento amministrativo finale, pure condizionato in modo pesante dall’illiceità della condotta individuale dei funzionari, resta di per sé illegittimo e (normalmente) annullabile dinanzi al giudice amministrativo – a cui è devoluta anche l’eventuale questione risarcitoria -, la lesione dei diritti fondamentali imputata alle persone fisiche che avrebbero abusivamente esercitato il loro potere (e la correlativa domanda di risarcimento dei danni subiti) non può che portare, seguendo il criterio della causa petendi, dinanzi al giudice ordinario.
Restano in ogni caso poco chiari i limiti di intervento di tale ultimo giudice, in entrambe le ipotesi sopra prospettate.
Qualora la causa sia perfettamente sovrapponibile a quella prospettabile dinanzi al giudice amministrativo per il risarcimento di danni conseguenti a provvedimento illegittimo, il giudice ordinario rischia di “invadere” i confini dell’ordinaria giurisdizione del giudice amministrativo (magari mentre questi si occupa contestualmente di analoga controversia, come nel caso di specie), andando ad accertare l’illegittimità del provvedimento stesso, seppure in funzione della verifica di responsabilità dei funzionari che lo hanno adottato, ed entro i limiti di cui all’art. 23, comma 1 del d.P.R. n. 3 del 1957 (“E' danno ingiusto, agli effetti previsti dall'art. 22, quello derivante da ogni violazione dei diritti dei terzi che l'impiegato abbia commesso per dolo o per colpa grave”).
Qualora poi le due cause non siano perfettamente sovrapponibili – e fatte salve le considerazioni già esposte in ordine al regime di responsabilità speciale dei funzionari pubblici -, non è chiaro se vi sia diversità di
quantum esigibile (e ottenibile) dall’interessato a titolo di risarcimento, in conseguenza di un evento lesivo che conserva natura sostanzialmente unitaria.