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Scalata ostile, inadempimento contrattuale e incompatibilità della disciplina interna con i principi del diritto unionale in materia di concentrazione nel settore delle comunicazioni elettroniche

23 dicembre 2021

Tribunale ordinario di Milano – Sezione XV specializzata in materia di impresa, n. 3228 del 19 aprile 2021/ TAR per il Lazio – Sezione Terza, sentenza n. 13958 del 2020


IL CASO E LE DOMANDE FONDATE SULL’INADEMPIMENTO CONTRATTUALE

Tre note società operanti nel mercato italiano dei media – e aventi tra di loro posizioni “collegate” - hanno chiesto dinanzi al Giudice ordinario l’accertamento dell’illiceità della scalata ostile di una importante società francese nei confronti di una di loro.

In particolare, la società francese convenuta avrebbe acquistato le azioni della società “scalata” fino a detenerne una partecipazione di “blocco”, pari al 28,8 % del capitale sociale, in violazione dell’accordo preliminare di scambio azionario stipulato con la società italiana nell’aprile 2016, per la creazione di un’alleanza strategica nel settore dei media a livello internazionale.

Con il tentativo di scalata, la società francese avrebbe violato, nello specifico, la previsione implicita nel regolamento contrattuale dell’obbligo di mantenere invariata “la situazione di partenza” dell’azionariato nella società italiana fino all’esecuzione dello scambio azionario programmato.

In particolare, nello scopo della complessa operazione negoziale mirante alla creazione tra i due gruppi imprenditoriali di un’alleanza paritetica e nel contenuto complessivo del regolamento contrattuale doveva ritenersi implicita, secondo l’interpretazione ed esecuzione di buona fede del contratto, la previsione di una vera e propria clausola di standstill che vietava alla società francese di acquistare azioni della società italiana prima della conclusione definitiva dell’affare.

Le attrici chiedono in giudizio prima l’adempimento del contratto e poi la risoluzione dello stesso ex art. 1453, comma 2 c.c., con condanna della società convenuta alla dismissione delle azioni della società italiana nel frattempo acquistate e l’inibitoria, nelle more, dell’esercizio dei diritti sociali inerenti la partecipazione illegittimamente acquisita.

Il Tribunale ordinario di Milano, dopo avere opportunamente separato le posizioni di titolarità del diritto, rispetto al vincolo negoziale, delle diverse attrici coinvolte, ha innanzitutto stabilito che l’azione di risoluzione per inadempimento è rimedio contrattuale riservato alle parti contraenti di un vincolo negoziale validamente perfezionato e non è appannaggio di soggetti rimasti estranei alla pattuizione, né può essere invocata dal terzo, a fondamento delle proprie pretese risarcitorie, una clausola di previsione dell’impegno a concludere un futuro patto parasociale con il terzo stesso, mai divenuta efficace in ragione del mancato avveramento di una condizione sospensiva.

Sotto tale profilo, continua il Giudice adito, è inapplicabile il meccanismo della fictio iuris previsto dall’art. 1359 c.c., secondo cui la condizione si considera avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario al suo avveramento, quando sussista il carattere bilaterale della condizione, e la natura dell’evento dedotto in condizione sia costituito dal rilascio di autorizzazioni amministrative, indispensabili a realizzare la finalità economica del contratto, che non possono essere sostituite dalla semplice finzione legale della loro effettiva adozione.

In particolare, secondo il Tribunale, non è mai possibile sostituire con una semplice finzione legale la effettiva emanazione dell'atto amministrativo di autorizzazione, richiesto dalla legge come requisito legale dell'efficacia del negozio e come tale, peraltro, considerato dalle stesse parti private.

Nel caso di specie, era necessario, per l’avveramento della condizione pattuita, il rilascio dell’autorizzazione da parte dell’autorità preposta alla verifica della compatibilità della concentrazione societaria con il mercato comune, con conseguente impossibilità dello scambio azionario, qualora considerato fonte potenziale di una concentrazione di dimensione comunitaria.

In secondo luogo, la presenza nel regolamento negoziale di una pattuizione espressa sulle sorti del vincolo alla scadenza del termine previsto per l’avveramento della condizione ha superato la questione della configurabilità del rimedio della risoluzione giudiziale per inadempimento del contratto sospensivamente condizionato, in quanto tale contratto era già inefficace in ragione del mancato avveramento della condizione in questione, e risolto per effetto della specifica pattuizione stabilita in tal senso dalle parti, ferme restando le obbligazioni risarcitorie derivanti dalle inadempienze già verificatesi.

Il Tribunale ordinario si è ritenuto pertanto impossibilitato ad adottare la richiesta pronuncia costitutiva di risoluzione invocata dalle società attrici, essendo lo scioglimento del vincolo dell’accordo condizionato già avvenuto, per effetto di specifica previsione contrattuale.

Né sussiste, secondo il Giudice meneghino, il contestato inadempimento dell’obbligo della società francese di comportarsi secondo buona fede in pendenza della condizione - astenendosi dalla modificazione dell’assetto azionario della società italiana in attuazione della clausola implicita di standstill – in quanto il fatto storico che, secondo la prospettazione delle società attrici, avrebbe configurato tale inadempimento, si era in realtà verificato quando il mancato avveramento della condizione era divenuto definitivo a seguito della scadenza del termine pattuito, ed ogni effetto del vincolo negoziale condizionato era cessato per espressa previsione contrattuale: non era dunque neanche più ipotizzabile la persistenza di un simile impegno.

Anche il dubbio sull’imputabilità dell’arresto dell’iter contrattuale all’inadempimento della società francese rispetto all’obbligo di compiere tutta l’attività necessaria per favorire l’esito positivo del procedimento di rilascio dell’autorizzazione antitrust è risultato superabile, secondo il Tribunale di Milano, o considerando che tale eventuale comportamento scorretto trova la sua sanzione solo nelle obbligazioni risarcitorie o indennitarie derivanti dall’inadempienza, ovvero tenendo presente che non sarebbe compatibile con i principi fondamentali che regolano il mercato finanziario la persistenza indefinita di un patto di standstill implicito e ad effetto “reale”, nei rapporti tra due società quotate in borsa.


LE QUESTIONI AFFERENTI ALLA VIOLAZIONE DELL’ART. 43 DEL TESTO UNICO DEI SERVIZI DI MEDIA AUDIOVISIVI E RADIOFONICI

L’art. 43 comma 4 del Testo Unico dei Servizi di Media Audiovisivi e Radiofonici (Tusmar), nel disciplinare la concorrenza e vietare la formazione di posizioni dominanti nel sistema integrato delle comunicazioni a tutela del pluralismo dell’informazione, prevede, oltre ai poteri conformativi dell’autorità garante che ne abbia accertato la violazione, la sanzione civilistica della nullità degli atti, stabilendo che “gli atti giuridici, le operazioni di concentrazione e le intese che contrastano con i divieti di cui al presente articolo sono nulli.

L’acquisto della partecipazione di “blocco” nella società italiana da parte della società francese di cui al caso in commento, sulla base dell’accertamento compiuto dall’Agcom nella delibera 178/17/CONS del 18 aprile 2017, avrebbe comportato la violazione dell’art. 43 comma 11 del Tusmar secondo cui “le imprese, anche attraverso società controllate o collegate, i cui ricavi nel settore delle comunicazioni elettroniche, come definito ai sensi dell'articolo 18 del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259, sono superiori al 40 per cento dei ricavi complessivi di quel settore, non possono conseguire nel sistema integrato delle comunicazioni ricavi superiori al 10 per cento del sistema medesimo.

All’esito dell’istruttoria dell’Autorità garante, infatti, era emerso che la società francese, nella sua qualità di controllante di altra importante società italiana attiva nel comparto delle comunicazioni elettroniche, attraverso l’acquisto della partecipazione rilevante in una delle società attrici, anch’essa attiva nel settore integrato delle comunicazioni, aveva superato le soglie stabilite dalla norma richiamata, tanto che l’autorità garante le aveva imposto di rimuovere la posizione integrante la violazione accertata.

Tuttavia, nelle more della decisione in commento del Giudice ordinario, il Tar del Lazio, chiamato a decidere sulla legittimità della delibera Agcom, l’ha annullata, previa disapplicazione della norma invocata.

In particolare, il Giudice amministrativo di primo grado ha preventivamente disposto il rinvio alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 267 del TFUE, di alcune questioni pregiudiziali di interpretazione degli artt. 2, comma 1, lett. s) e 43, commi 5, 11 e 14 del d.lgs. 31 luglio 2005, n. 177 in rapporto alla disciplina prevista dagli artt. 14 e 15 della Direttiva 2002/21/CE ed ai principi di massima concorrenza, proporzionalità, parità di trattamento e non discriminazione, libertà di espressione, tutela del pluralismo, libera circolazione dei capitali e libera prestazione dei servizi.

A sua volta, la Corte di Giustizia dell’Unione europea, con sentenza del 3 settembre 2020, ha statuto che l’articolo 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa di uno Stato membro che abbia l’effetto di impedire ad una società registrata in un altro Stato membro, i cui ricavi realizzati nel settore delle comunicazioni elettroniche, come definito ai fini di tale normativa, siano superiori al 40% dei ricavi complessivi di tale settore, di conseguire nel sistema integrato delle comunicazioni ricavi superiori al 10% di quelli del sistema medesimo.

Il Giudice comunitario ha osservato che, posto che un divieto come quello di cui all’art. 43 comma 11 del Tusmar costituisce una deroga al principio della libertà di stabilimento, le autorità nazionali hanno l’onere di dimostrare che detta disposizione sia conforme al principio di proporzionalità.

Tuttavia, la disposizione sopra citata non è stata ritenuta idoneo a garantire il rispetto di tale principio, in quanto la stessa vieta in maniera assoluta, ai soggetti i cui ricavi realizzati nel settore delle comunicazioni elettroniche, come definito ai fini di tale disposizione, siano superiori al 40% dei ricavi complessivi di tale settore, di conseguire nel SIC ricavi superiori al 10% di quelli del sistema medesimo.

L’inidoneità della norma interna a costituire un proporzionale contemperamento tra la libertà di stabilimento e il principio del pluralismo nel settore dell’informazione dipende dalla mancata considerazione della chiara distinzione tra la produzione dei contenuti, che implica un controllo editoriale, e la trasmissione dei contenuti, che esclude qualsiasi controllo editoriale, cosicché i contenuti e la loro trasmissione sono soggetti a discipline distinte, che perseguono obiettivi propri.

Tuttavia, a dire del Giudice comunitario, la disposizione di cui al procedimento principale non fa riferimento a tali collegamenti tra la produzione dei contenuti e la trasmissione dei contenuti e non è neppure formulata in modo da applicarsi specificamente in relazione a detti collegamenti

La Corte di Giustizia, inoltre, nell’esaminare i possibili motivi di “interesse generale” che potrebbero condurre ad una deroga alla liberà di stabilimento nel diritto interno - fra cui figura, all’art. 11 della Carta dei diritti fondamentali, paragrafo 2, la libertà e il pluralismo dei media -, ha negato nel caso esaminato la sussistenza di tali motivi, in quanto, al fine di determinare se una norma come l’art. 43 comma 11 del Tusmar sia idonea a conseguire tale specifico obiettivo, occorre valutare quale sia il nesso tra, da un lato, le soglie alle quali tale disposizione fa riferimento e, dall’altro, il rischio che corre il pluralismo dei media.

L’AGCOM, secondo la Corte, definisce il settore delle comunicazioni elettroniche in maniera restrittiva, riferendolo ai soli mercati suscettibili di regolamentazione ex ante, e così escludendo dal settore delle comunicazioni elettroniche mercati di importanza crescente per la trasmissione di informazioni, vale a dire i servizi al dettaglio di telefonia mobile e altri servizi di comunicazione elettronica collegati ad Internet nonché i servizi di radiodiffusione satellitare; i quali, però, sono divenuti la principale via di accesso ai media, cosicché non è giustificato escluderli da tale definizione.

In definitiva, per il Giudice comunitario, l’art. 43 comma 11 del Tusmar non può essere considerata norma “idonea a conseguire l’obiettivo da essa perseguito, giacché fissa soglie che, non consentendo di determinare se e in quale misura un’impresa sia effettivamente in grado di influire sul contenuto dei media, non presentano un nesso con il rischio che corre il pluralismo dei media”.

Forte della decisione della Corte di Giustizia, il Tar del Lazio ha deciso di disapplicare la norma “incriminata”, così da privare di base normativa interna l’impugnata delibera n. 178/17/CONS dell’Agcom, con applicazione dell’art. 49 del Trattato che vieta limitazioni al diritto di stabilimento, ritenendo, alla luce della motivazione del Giudice comunitario, di non potere dare una interpretazione conforme all’art. 49 del TFUE del diritto interno implicato nella questione oggetto del suo giudizio.

Il Giudice ordinario si è però dovuto confrontare con la richiesta delle società attrici di accertare ugualmente la nullità degli acquisti azionari in questione, tramite l’esercizio del potere di interpretazione conformativa all’ordinamento dell’UE della norma interna e l’accertamento autonomo, nell’ambito del giudizio civile, della sua violazione.

Anche questa domanda è stata però respinta. Secondo il Tribunale di Milano, la Corte di Giustizia ha concluso per la radicale inidoneità della norma a tutelare il bene giuridico che si propone di salvaguardare e ha adottato una pronuncia che, come già affermato dalla sentenza del Giudice amministrativo, preclude all’interprete ogni diverso approdo esegetico.

In particolare, la Corte di Giustizia, nel fornire le linee interpretative del principio della libertà di stabilimento e descrivere i limiti del potere di deroga delle legislazioni nazionali a tutela di interessi di pari rango, ha specificamente indicato come incompatibili con l’ordinamento UE i criteri derogatori desumibili dall’art. 43 del Tusmar, demolendone le fondamenta e non lasciando alternativa alla disapplicazione della norma da parte del giudice nazionale.

Tale sentenza, dichiarativa del contrasto di un norma nazionale con l’ordinamento dell’Unione Europea, ha efficacia vincolante per l’autorità giudiziaria dello Stato membro, chiarendo la portata della norma come avrebbe dovuto essere intesa o applicata sin dal momento della sua entrata in vigore, con effetto retroattivo analogo a quello di una sentenza di declaratoria di illegittimità costituzionale, salvo il limite dei rapporti esauriti.

Il Giudice ordinario di primo grado ha pertanto statuito che la domanda di accertamento della nullità degli acquisti azionari operati dalla società francese fosse priva ab origine di ogni fondamento giuridico e che, disapplicata la norma che prevede la violazione a cui la sanzione della nullità si riferisce, gli acquisti azionari non potessero che essere ritenuti, sotto il profilo in esame, pienamente validi.


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