Tribunale di Genova, n. 1613 del 2015, conf. da Corte Appello Genova, sez. II, 28 giugno 2022, n. 763 – Pres. Bruno, est. Morello
IL CASO
La controversia origina da un’azione intentata da un Condominio “B” sito in Genova, e da alcuni condòmini dello stesso, quali comproprietari di un’area, che ai fini della presente nota si indica come mapp. 1 - antistante il caseggiato condominiale e costituente parte della strada di accesso alla locale via “A”, accessibile attraverso un cancello - nei confronti dei convenuti “C”, proprietari di alcune unità immobiliari (negozi) antistanti e comproprietari di un’area denominata, sempre ai fini della presente nota, mapp. 2, confinante con il predetto mapp. 1.
Gli attori in prime cure hanno dedotto che tra i due mappali citati sono posate piastrelle bianche ad indicare il confine, lamentando che gli utenti dei negozi frontistanti il mapp. 2, di proprietà dei convenuti, transitavano sull’area di proprietà condominiale (il predetto mapp. 1) e uno dei convenuti aveva trasformato il proprio capannone in posti auto e box, senza che, d’altronde, i terzi acquirenti potessero vantare alcun diritto di passaggio sull’area condominiale medesima.
Parte attrice, quindi, ha chiesto accertarsi l’inesistenza di diritti dei convenuti su tale area, nonché l’accertamento dei confini tra le porzioni immobiliari in contestazione e la cessazione delle molestie e turbative in fatto e in diritto poste in essere dai convenuti, oltre al risarcimento dei danni subiti; in via subordinata, per il caso di riconosciuta sussistenza della servitù, hanno chiesto accertarsi l’indebito aggravamento della stessa per effetto delle sopra delineate condotte riferibili ai convenuti.
Questi ultimi si sono costituiti in giudizio eccependo l’intervenuta usucapione del diritto di servitù di passaggio; inoltre, hanno chiesto, in subordine, che fosse condannato il notaio rogante (costituitosi in giudizio a seguito di chiamata di parte) per avere questi attestato il loro diritto di comproprietà sull’intera area in questione.
LA SOLUZIONE
Il Tribunale di Genova ha:
- accertato e dichiarato l'inesistenza di diritti reali dei convenuti e la non intervenuta usucapione sul mapp. 1 di proprietà di parte attrice;
- conseguentemente, ordinato ai convenuti la cessazione di ogni turbativa al pacifico godimento esclusivo della proprietà del Condominio e, conseguentemente, di provvedere alla cancellazione dagli atti di compravendita inerenti i box della seguente clausola: <<La Parte Compratrice conferisce inoltre espressamente mandato irrevocabile alla Società Venditrice affinché possa convenire con gli altri caseggiati aventi diritto le norme di uso e godimento, nonché le relative tabelle di ripartizione delle spese, della porzione di area scoperta antistante al fabbricato ed in comproprietà con i civici … omissis..., meglio individuata in colore azzurro nella rappresentazione grafica allegata sotto la lettera “C” al regolamento di condominio come sopra allegato sotto la lettera”A”>>;
- accertato che il confine tra l’area di proprietà degli attori e il mapp. 1 è quello individuato e materializzato dalle piastrelle bianche presenti nel sedime, individuando il mapp. 2 come un’area di larghezza ml 3,50 a partire dai fabbricati di proprietà dei convenuti, che si estende in lunghezza dalla Via “A” allo spigolo dell’ultimo fabbricato di uno dei convenuti, mentre la restante parte del piazzale costituisce il mapp. 1;
- respinto la domanda di risarcimento danni svolta dai convenuti nei confronti del notaio;
- respinto la domanda di usucapione.
Avverso la sentenza i convenuti hanno proposto appello lamentando, nel complesso e per quanto in questa sede di specifico interesse: l’erroneità della sentenza laddove escludeva il requisito dell’apparenza della servitù e, quindi, il rigetto della domanda di usucapione; il vizio di ultrapetizione della sentenza, laddove consentiva l’apposizione di termini sul confine tra i fondi; l’errata qualificazione della domanda principale degli attori quale negatoria servitutis invece che azione di rivendica; la mancata integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i condòmini; l’erronea statuizione in ordine all’assolvimento dell’onere probatorio in capo a parte attrice, l’erronea valutazione dell’opponibilità del regolamento contrattuale condominiale; la violazione del diritto di difesa, l’inammissibilità dell’azione di regolamento dei confini, l’omessa motivazione in ordine alla carenza di responsabilità del notaio; il difetto di legittimazione attiva del Condominio.
La Corte d’appello di Genova ha respinto l’impugnazione della sentenza di prime cure con un’articolata motivazione.
1. Circa la doglianza relativa all’errata qualificazione della domanda attorea di primo grado come negatoria servitutis, la Corte d’Appello ha ricordato come, anche recentemente, la Suprema Corte abbia avuto modo di affermare che l'azione "negatoria servitutis" e quella di rivendica si differenziano in quanto l'attore, con la prima, si propone quale proprietario e possessore del fondo, chiedendone il riconoscimento della libertà contro qualsiasi pretesa di terzi; con la seconda, si afferma proprietario della cosa di cui non ha il possesso, agendo contro chi la detiene per ottenerne, previo riconoscimento del suo diritto, la restituzione. Sotto il profilo probatorio, nel primo caso egli deve dimostrare, con ogni mezzo ed anche in via presuntiva, di possedere il fondo in forza di un titolo valido; allorché, invece, agisca in rivendica, deve fornire la piena prova della proprietà, dimostrando il suo titolo di acquisto e quello dei suoi danti causa fino ad un acquisto a titolo originario [1].
Nel caso di specie, in considerazione degli specifici petitum e causa petendi della domanda attorea in primo grado, secondo la Corte risulta essere stato chiesto l’accertamento dell’inesistenza del diritto di transito altrui sul mapp. 1 di proprietà condominiale: si tratta, quindi, di una “negatoria servitutis”.
2. Circa la competenza del Tribunale a pronunciarsi sulla domanda di apposizione di termini e regolamento di confini, la Corte ha fatto applicazione dell’art 31 cpc e del principio di “attrazione” della domanda accessoria a quella principale per l’individuazione della competenza territoriale.
Per quanto concerne, poi, la questione della precisa individuazione dei confini, la Corte ha ritenuto, da un lato, che parte dei convenuti aveva riconosciuto l’esistenza dei segni identificativi del confine tra i mappali 1 e 2 nelle piastrelle bianche presenti nel sedime; dall’altro lato, che dagli atti e documenti di causa emergeva la prova precisa dell’ubicazione delle piastrelle, la quale rendeva corretta l’individuazione del confine come delimitato dalle stesse, tenuto conto del fatto che la genericità della doglianze di uno dei convenuti appellanti non offriva concreti spunti per rendere necessari ulteriori accertamenti; infine, l’avere, l’appellante in via incidentale improntato il gravame al fine di ottenere il riconoscimento dell’usucapione del diritto di passo sul mapp. 1, dimostrerebbe, secondo la Corte, implicitamente il riconoscimento della proprietà in capo a controparte proprio del sedime individuato dal confine dato dalle piastrelle bianche.
3. Con riferimento, poi, alla doglianza relativa al raggiungimento della prova della proprietà del mapp. 1 da parte del Condominio, la Corte ha ribadito che su chi agisce in negatoria servitutis grava l’onere probatorio di possedere il fondo in forza di un titolo valido, onere che può essere assolto con ogni mezzo anche mediante presunzioni.
Nel caso di specie la Corte ha ritenuto assolto l’onere in questione da parte degli attori in negatoria servitutis e appellati.
In particolare, il Giudice del gravame ha confermato la valutazione del Tribunale di Genova che aveva valorizzato la previsione contenuta nell’art 3 del regolamento condominiale, avente natura contrattuale e trascritto, predisposto dall’originario costruttore e richiamato in tutti gli atti d’acquisto.
La disposizione regolamentare in questione testualmente reca come parti comuni del condominio stesso, tra le altre “...le porzioni di distacco sistemate a passaggio pedonale e carraio come da planimetria allegata sotto la lettera B) al presente regolamento di condominio individuate con colorazione gialla...”.
Per contro, la contestazione degli appellanti, secondo la quale non si tratterebbe del mapp. 1, così come individuato dal Tribunale, sarebbe priva di riscontri probatori idonei a superare le individuazioni planimetriche; peraltro, anche in tal caso la Corte ha sottolineato come la presenza di domande di usucapione della servitù di passo, da parte degli appellanti, non possa che interpretarsi come riconoscimento della proprietà del mapp. 1 in capo al Condominio.
4. La Corte d’appello, poi, ha ritenuto corretta la valutazione del giudice di prime cure in ordine alla mancanza del requisito della c.d. “apparenza” – cioè la sussistenza di opere visibili e permanenti poste al servizio della pretesa servitù - relativamente alla domanda di accertamento dell’intervenuta usucapione del diritto di servitù.
La Corte ha ricordato che l’apparenza si configura come presenza di segni visibili di opere permanenti obiettivamente destinate al suo esercizio e rivelanti, in modo non equivoco, l'esistenza del peso gravante sul fondo servente, così da rendere manifesto che non si tratta di attività compiuta in via precaria, bensì di un preciso onere a carattere stabile; pertanto, ai fini dell'acquisto, per usucapione o destinazione del padre di famiglia, di una servitù di passaggio, non basta l'esistenza di una strada o di un percorso all'uopo idonei, essendo, viceversa, essenziale che essi mostrino di essere stati realizzati al preciso scopo di dare accesso al fondo preteso dominante attraverso quello preteso servente e occorrendo, pertanto, un “quid pluris” che dimostri la loro specifica destinazione all'esercizio della servitù. [2]
Il giudice d’appello ha sottolineato come nel caso di specie fosse pacifico che alla fine di entrambi i mappali 1 e 2, laddove questi conducono alla via pubblica, sia stato apposto un cancello, opera non univocamente destinata al passaggio sul mapp. 1 dal mapp. 2 e dalle proprietà esclusive, perché apposto dal Condominio con assenso che proprietari limitrofi, quali comproprietari del mapp. 2, venendo, quindi, a chiudere rispetto alla via pubblica sia il mapp. 1 sia il mapp, 2.
Il cancello quindi, non dimostra la inequivoca destinazione al servizio del passaggio da parte dei comproprietari del mapp. 1 sul mapp. 2.
Al contrario la sua realizzazione da parte del Condominio pare finalizzata all’interesse dei condòmini per tutelare il proprio diritto dominicale.
Pertanto, la Corte ha concluso nel senso che, in assenza del requisito dell’apparenza, il mero passaggio confermato dall’istruttoria orale svolta in appello non consente l’accoglimento della domanda di usucapione.
5. Per quanto concerne, infine, la domanda, formulata da alcuni degli appellanti, originari convenuti, di condanna al risarcimento dei danni formulata nei confronti del notaio rogante e respinta dal Tribunale di Genova, la Corte di Appello, nel confermare anche in tal caso la sentenza impugnata, ha rammentato come, in primo luogo, la sentenza del Tribunale aveva individuato nominativamente tra gli appellanti coloro che non avevano intrattenuto rapporti professionali con il notaio, come tali privi di legittimazione attiva, e su tale statuizione non era stata espressa alcuna doglianza.
In secondo luogo, in relazione alla statuizione, in prime cure, della intervenuta prescrizione dell’azione extracontrattuale, la Corte ha ricordato, anzitutto, che il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno da responsabilità professionale inizia a decorrere non dal momento in cui la condotta del professionista determina l'evento dannoso, bensì da quello in cui la produzione del danno si manifesta all'esterno, divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile da parte del danneggiato [3].
Quindi, il giudice d’appello è “entrato” nel merito, sottolineando che, in ordine alla responsabilità del notaio, quest’ultimo, incaricato dalla redazione e autenticazione di un contratto per la compravendita di un immobile, non può limitarsi a procedere al mero accertamento della volontà delle parti e a sovraintendere alla compilazione dell'atto, occorrendo che egli si interessi dell'attività, preparatoria e successiva, necessaria ad assicurare la serietà e la certezza degli effetti tipici dell'atto medesimo e del risultato pratico perseguito ed esplicitato dalle parti stesse, rientrando tra i suoi doveri anche quello di consiglio ovvero di dissuasione consistente nell'avvertire le parti degli effetti dell'esistenza di una trascrizione o iscrizione pregiudizievole sul bene oggetto di trasferimento [4].
Nel caso di specie, la clausola del contratto contestata in quanto asseritamente fonte di responsabilità era la seguente: <<la parte compratrice conferisce inoltre espressamente mandato irrevocabile alla Società venditrice affinchè possa convenire con gli altri caseggiati aventi diritto le norme di uso e godimento nonché le relative tabelle di ripartizione delle spese, della porzione di area scoperta antistante al fabbricato ed in comproprietà con i civici …omissis.... meglio individuata in colore azzurro nella rappresentazione grafica allegata sotto la lettera C al Regolamento di condominio sopra citato>>.
Secondo la Corte la clausola che precede non riguarda l’oggetto del contratto e quindi l’immobile trasferito; inoltre, quand’anche si voglia ritenere che il professionista non abbia sufficientemente indagato con riferimento all’area e conseguentemente consigliato i clienti in proposito, difetta la prova delle conseguenze dannose causalmente ricollegabili a tale condotta e, ancor prima, la stessa allegazione di parte appellante risulterebbe destituita di fondamento, dal momento che la presenza di un cancello non integra affatto i presupposti per ritenere l’interclusione del fondo.
CONSIDERAZIONI IN DIRITTO
La decisione della Corte d’appello di Genova si apprezza in quanto affronta diverse tematiche giuridiche di indubbio interesse.
1. La differenza tra azione di rivendica (art. 948 c.c.) e actio negatoria servitutis (art. 949 c.c.) sia in punto di qualificazione della domanda che con riguardo all’onere della prova.
a. Ai sensi dell’art. 948, comma 1, c.c., il proprietario può rivendicare la cosa da chiunque la possiede o la detiene senza titolo.
Quindi, come messo in luce dalla sentenza in esame, il presupposto e anche la ragione fondante l’interesse ad agire attraverso l’azione di rivendica è la mancanza di “disponibilità” materiale del bene in proprietà, in quanto posseduto o detenuto da altri.
Di qui la natura chiaramente recuperatoria e, quindi, di condanna, dell’azione ex art. 948 c.c., perché l’accertamento della proprietà è finalizzato ad ottenere la consegna o rilascio della cosa da parte del convenuto e si pone, quindi, come un necessario presupposto per ottenere la restituzione della cosa, sì che una volta definito il giudizio con la sentenza che accerta la proprietà in capo all’attore, la sussistenza di tale diritto non più essere messa in discussione tra le stesse parti in un successivo diverso giudizio.
Poiché il diritto di proprietà è un diritto “imprescrittibile” (salvi gli effetti dell’usucapione) e il suo contenuto tipico consiste, ex art. 832 c.c., nel diritto di godere e disporre della cosa in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l'osservanza degli obblighi stabiliti dall'ordinamento giuridico, la “disponibilità” materiale della cosa da parte del proprietario è un presupposto consustanziale all’esercizio del diritto stesso, sì che l’azione di rivendica - essendo la stessa, come detto, finalizzata a “riportare” il bene “nelle mani” del proprietario -, è anch’essa imprescrittibile.
Proprio perché la situazione del proprietario che rivendica è caratterizzata dal fatto di non avere a disposizione la cosa, che si trova nel possesso o nella detenzione di altri, l’onere della prova a carico del primo è “aggravato”, il convenuto potendo limitarsi a far valere la propria condizione di fatto cui si correla il principio “possideo quia possideo” [5].
Viene richiesto, quindi, all’attore in rivendica di dimostrare in modo sostanzialmente certo di essere effettivamente il proprietario della cosa.
Ciò in quanto, come detto, nell’azione di rivendica l’accertamento della proprietà non rileva limitatamente alla sussistenza della legittimazione attiva ad agire in giudizio, ma concerne proprio l’oggetto della controversia, e fonda il diritto dell’attore a recuperare il bene.
Mentre nel caso di acquisto a titolo originario il problema dell’assolvimento dell’onere probatorio è sostanzialmente limitato alla dimostrazione dei presupposti applicativi previsti dalle norme che disciplinano le specifiche fattispecie legislativamente previste (occupazione, accessione, invenzione, usucapione, ecc..), il problema è decisamente più complesso con riguardo agli acquisti della proprietà a titolo derivativo, in quanto non basta la produzione in giudizio da parte dell’attore del relativo titolo di acquisto [6], atteso che il suo dante causa potrebbe non essere stato il proprietario del bene, legittimato, quindi, a trasferirne la titolarità all’acquirente [7].
L’attore deve, perciò, dare prova, oltre che del suo titolo di acquisto, anche del titolo di acquisto di tutti i precedenti aventi causa, procedendo a ritroso fino ad arrivare ad un acquisto a titolo originario: si tratta, chiaramente di una prova difficile, se non impossibile (c.d. probatio diabolica), complicata dalla natura “soggettiva” e non costitutiva del sistema di trascrizione degli atti di compravendita dei beni immobili (con l’eccezione del sistema tavolare, dall’applicazione limitata, però, a ristretti ambiti territoriali) [8] e della mancanza di forme di pubblicità degli acquisti dei beni mobili non registrati.
Soccorrono allora gli istituti del c.d. possesso vale titolo per i beni mobili e dell’usucapione per i beni immobili e i beni mobili per i quali non possa operare il possesso vale titolo.
Quest’ultimo istituto, disciplinato dall’art. 1153 c.c., consente all’attore in rivendica di dimostrare di aver acquistato la cosa mobile – sia pure da soggetto che non era il legittimo proprietario della stessa (acquisto a non domino) – fornendo la prova di averne conseguito il possesso, in buona fede e in base ad un titolo idoneo (cioè, ad es., una compravendita valida) al trasferimento di proprietà.
L’usucapione (art. 1158 e ss. c.c.), invece, consente l’acquisto a non domino della proprietà per effetto del possesso continuato sul bene per il tempo necessario al maturarsi dell’usucapione medesima (e che a seconda delle fattispecie può essere di 3, 10, 15 o 20 anni).
D’altronde, sotto il profilo processuale, è principio condiviso in giurisprudenza quello secondo il quale in caso di azione di rivendica, la intensità e la estensione della prova a carico dell'attore devono stabilirsi in relazione alle peculiarità di ogni singola controversia, cosicché il criterio di massima secondo cui l'attore deve fornire la prova rigorosa della proprietà sua e dei suoi danti causa fino a coprire il periodo necessario per la usucapione, può subire opportuni temperamenti secondo la linea difensiva adottata dal convenuto [9].
Si pensi al caso in cui il convenuto non contesti la dedotta appartenenza del bene all’attore ovvero ad un dante causa comune [10], come nel caso in cui venga eccepita dal convenuto l’esistenza di un diverso titolo derivativo di proprietà fondato sull’appartenenza del bene al medesimo dante causa dell’attore. In tale ultimo caso, infatti, l’attore potrà limitarsi a dover dimostrare la prevalenza del proprio titolo di acquisto.
La Corte di Cassazione ha precisato, anche di recente, con riguardo all’eccezione o domanda riconvenzionale di usucapione, che <<essendo l'usucapione un titolo d'acquisto a carattere originario, la sua invocazione, in termini di domanda o di eccezione, da parte del convenuto con l'azione di rivendicazione, non suppone, di per sé, alcun riconoscimento idoneo ad attenuare il rigore dell'onere probatorio a carico del rivendicante, il quale, anche in caso di mancato raggiungimento della prova dell'usucapione, non è esonerato dal dover provare il proprio diritto, risalendo, se del caso, attraverso i propri danti causa fino ad un acquisto a titolo originario o dimostrando che egli stesso o alcuno dei suoi danti causa abbia posseduto il bene per il tempo necessario ad usucapirlo. Il rigore probatorio rimane, tuttavia, attenuato quando il convenuto, nell'opporre l'usucapione, abbia riconosciuto, seppure implicitamente, o comunque non abbia specificamente contestato, l'appartenenza del bene al rivendicante o ad uno dei suoi danti causa all'epoca in cui assume di avere iniziato a possedere. Per contro, la mera deduzione, da parte del convenuto, di un acquisto per usucapione il cui dies a quo sia successivo al titolo del rivendicante o di uno dei suoi danti causa, disgiunta dal riconoscimento o dalla mancata contestazione della precedente appartenenza, non comporta alcuna attenuazione del rigore probatorio a carico dell'attore, che a maggior ragione rimane invariato qualora il convenuto si dichiari proprietario per usucapione in forza di un possesso remoto rispetto ai titoli vantati dall'attore (Cass. 28865/2021)>> [11].
b. Con l’actio negatoria servitutis, invece, il proprietario, ai sensi dell’art. 949 c.c., può agire per far dichiarare l'inesistenza di diritti affermati da altri sulla cosa, quando ha motivo di temerne pregiudizio. Se sussistono anche turbative o molestie, il proprietario può chiedere che se ne ordini la cessazione, oltre la condanna al risarcimento del danno.
Si tratta di un’azione che presuppone che il proprietario abbia la disponibilità anche materiale della cosa (o comunque che non vi sia un terzo che ne disponga invito domino e dal quale doverla recuperare), e lamenti delle “ingerenze” o “interferenze”, in fatto e/o diritto, da parte di terzi non aventi titolo legittimante e che incidono sul pacifico godimento del diritto di proprietà.
L’azione negatoria, quindi, non ha una finalità recuperatoria, né mira ad ottenere una condanna alla “riconsegna”.
Al contrario, è finalizzata esclusivamente ad accertare l’insussistenza di diritti dei terzi sul bene in proprietà e godimento (azione di accertamento) e, correlativamente, all’eventuale condanna a carico degli stessi a cessare comportamenti illegittimi (azione inibitoria), nonché, eventualmente, sussistendone i presupposti, alla condanna al risarcimento dei danni subiti (azione risarcitoria-riparatoria).
Trattandosi di azione diretta all’accertamento non della proprietà di chi agisce, ma della libertà del bene da pretese o diritti di terzi, l’onere della prova incombente sull’attore è meno rigoroso, concernendo il solo aspetto della legittimazione ad agire ed essendo, quindi, limitato alla dimostrazione di un valido titolo di acquisto [12], non dovendo l’attore nemmeno dare la prova negativa dell’inesistenza del diritto altrui, al contrario gravando sul convenuto l’onere di eccepire e dimostrare l’esistenza del proprio diritto vantato sulla cosa (nel caso di specie la servitù di passaggio), ex art. 2967, comma 2, c.c.
In particolare, la Corte di Cassazione [13] ha recentemente ricordato che <<una volta che sia stata esercitata l'azione negatoria per far dichiarare l'inesistenza di un diritto di servitù su una cosa di proprietà dell'attore ed il convenuto eccepisca di essere il proprietario del bene che si assume gravato, oggetto del giudizio resta, infatti, l'accertamento della libertà del bene dagli altrui diritti mentre l'accertamento della proprietà del medesimo ha valore soltanto strumentale, per cui, non essendo la domanda volta al recupero del bene, l'onere della prova che grava sull'attore nel possesso del bene è (come inequivocamente ritenuto dalla corte d'appello) meno rigoroso che nell'azione di rivendica e la prova, in caso di insufficienza dei titoli di provenienza, può essere data con ogni mezzo ed anche con presunzioni (Cass. n. 2982 del 1999; Cass. n. 12166 del 2002). Nell'azione negatoria, in effetti, la titolarità del bene (che, pertanto, il giudice, specie se contestata, come nella specie, deve sempre accertare, sia pur in via incidentale, anche se la relativa domanda non sia stata espressamente proposta) si pone come requisito di legittimazione attiva e non come oggetto della controversia sicché la parte che agisce in giudizio non ha l'onere di fornire, come nell'azione di rivendica, la prova rigorosa della proprietà, neppure quando abbia chiesto la cessazione della situazione antigiuridica posta in essere dall'altra parte, essendo sufficiente la dimostrazione, con ogni mezzo ed anche in via presuntiva, di possedere il fondo in forza di un titolo valido e ciò sul presupposto che l'azione non mira necessariamente all'accertamento dell'esistenza della titolarità della proprietà ma all'ottenimento della cessazione dell'attività lesiva, spettando, per contro, al convenuto l'onere di provare l'esistenza del diritto a lui spettante, in virtù di un rapporto di natura obbligatoria o reale, di compiere l'attività lamentata come lesiva dall'attore (Cass. n. 10149 del 2004, la quale ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva rigettato l'azione negatoria ritenendo la prova della proprietà non desumibile dalla scrittura privata con cui era stato permutato parte del terreno, né dal comportamento processuale del convenuto; conf., Cass. n. 4803 del 1992; Cass. n. 2838 del 1999; più di recente, Cass. n. 24028 del 2004; Cass. n. 1409 del 2007; Cass. n. 21851 del 2014, la quale ha ribadito il principio per cui, in tema di azione negatoria, poiché la titolarità del bene si pone come requisito di legittimazione attiva e non come oggetto della controversia, la parte che agisce in giudizio non ha l'onere di fornire la prova rigorosa della proprietà, come accade nell'azione di rivendica, essendo sufficiente la dimostrazione con ogni mezzo, anche in via presuntiva, del possesso del fondo in forza di un titolo valido, mentre incombe sul convenuto l'onere di provare l'esistenza del diritto di compiere l'attività lamentata come lesiva dall'attore: la Corte, in forza di tale principio, ha ritenuto che la sentenza impugnata, uniformandosi agli enunciati principi, aveva legittimamente ritenuto fornita dall'attore la prova del diritto di proprietà sullo scantinato per cui è causa in base alla scrittura privata con la quale il ricorrente aveva acquistato dietro corrispettivo tale immobile dal costruttore-proprietario). Solo se (ma, come visto, non è questo il caso) l'azione negatoria sia stata proposta da chi non abbia il possesso del bene, l'accertamento della proprietà, ove contestata dalla controparte che se ne assuma a sua volta titolare, soggiace allo stesso onere probatorio della rei vindicatio, di cui ha analogo effetto recuperatorio (Cass. n. 12091 del 2003). L'actio negatoria servitutis, d'altra parte, è ravvisabile non solo in caso di domanda diretta al mero accertamento dell'inesistenza della pretesa servitù ma anche se la domanda è volta, come quella proposta dall'attore, all'eliminazione della situazione antigiuridica posta in essere dal terzo mediante la rimozione delle opere lesive del diritto di proprietà realizzate dal medesimo, così da ottenere l'effettiva libertà del bene ed impedire che il potere di fatto del terzo, corrispondente all'esercizio di un diritto, protraendosi per il tempo prescritto dalla legge, possa comportare l'acquisto per usucapione di un diritto reale su cosa altrui (Cass. n. 27405 del 2014; Cass. n. 27564 del 2014, per la quale l'actio negatoria servitutis può essere diretta sia all'accertamento dell'inesistenza di diritti vantati da terzi sia alla cessazione di turbative o molestie e, in tale ultima ipotesi, ove la turbativa o la molestia sia attuata mediante la realizzazione di un'opera, può anche determinare la condanna alla trasformazione o demolizione dell'opera stessa, ma non l'ordine di esecuzione di opere eccedenti la finalità dell'azione, che è quella di rimuovere una situazione comportante una menomazione del godimento del fondo oggetto del pregiudizio)>>.
Anche l’azione negatoria è imprescrittibile.
2. La competenza del Tribunale a decidere sulla domanda di regolamento dei confini / apposizione termini, e la prova del posizionamento del confine.
L’azione di regolamento dei confini, ex art. 950 c.c., presuppone, a fondamento dell’interesse ad agire, la mera incertezza del confine tra due fondi [14], nel senso che non viene in contestazione la titolarità in capo alle parti attrice e convenuta delle rispettive proprietà essendo incerta solo “l’estensione” delle stesse, cioè dove si colloca la linea di confine, sì che la contestazione riguarda i “fondi” e non i titoli” [15]: alla domanda di accertamento dell’effettiva collocazione del confine può accedere anche la richiesta di condanna alla restituzione della striscia di terreno che, in conseguenza della fissazione della linea di confine, dovesse risultare posseduta dal non proprietario [16].
Non venendo in alcun modo in contestazione i “titoli”, ma concernendo l’azione ex art. 950 c.c. una questio facti, ovvero la collocazione del confine, la relativa prova può essere fornita con ogni mezzo [17] e, in mancanza di altri elementi – cioè in via residuale - il giudice si attiene al confine delineato dalle mappe catastali.
La Corte di Cassazione ha sottolineato che <<chi si limiti a dedurre un'incertezza, anche soggettiva, del confine apparente e chieda di determinare il confine effettivo, con gli eventuali provvedimenti consequenziali, esercita un'actio finium regundorum; ma chi deduce la certezza del confine, si propone quale proprietario del fondo e chiede di riconoscerne la libertà contro le pretese di terzi, libertà pregiudicata dallo sconfinamento di un'opera dall'esecuzione di una costruzione sul fondo limitrofo a distanza inferiore a quella prescritta, computata dal confine affermato in domanda, esercita un'actio negatoria servitutis (cfr. Cass. Sez. 2, 12/11/1966, n. 2753)>> [18].
L’art. 951 c.c., invece, disciplina l’azione per apposizione di termini, avente un ambito applicativo ancora più ristretto di quella precedente, perché presuppone addirittura la certezza della localizzazione del confine ed è solo finalizzata a far apporre o ristabilire i segni o “termini” idonei a indicare il confine medesimo, perché mancanti o divenuti irriconoscibili [19].
La Corte di Cassazione ha avuto modo di precisare che <<l'azione per l'apposizione di termini, di natura personale e presupponente che il confine tra i due fondi sia certo e pacifico, resta modificata in quella reale di regolamento dei confini, per implicito contenuta nella richiesta di apposizione di termini, ove, in relazione alle eccezioni sollevate dal convenuto, insorga tra le parti contrasto sulla linea di confine lungo la quale i termini debbano essere apposti (Cass. 5-12-1985 n. 6107; Cass. 5-10-1983 n. 5797; Cass. 24-3-1975 n. 1115)>> [20]; <<mentre l'azione di apposizione di termini contiene implicitamente quella di regolamento, in cui si converte in caso di contestazione del confine (cfr. Cass. nn. 5797/83 e 1115/75), non altrettanto avviene nell'ipotesi inversa, poiché nell'azione reale di regolamento dei confini può ritenersi implicitamente inserita anche quella personale di apposizione dei termini, quale pretesa accessoria e consequenziale, solo allorché manchi un confine certo e determinato e difettino anche i segni esteriori di esso (cfr. Cass. nn. 16970/05 e 6573/84)>> [21].
Si tratta di domande che possono fondare autonomamente un giudizio ovvero, come nel caso di specie, possono essere inserite nell’ambito di una più complessa controversia instaurata ai sensi dell’art. 948 o 949 c.c.
Ai sensi dell’art. 7 c.p.c., la sola azione “per apposizione di termini” è devoluta alla competenza per materia del Giudice di pace, la competenza delle altre azioni c.d. petitorie, compresa l’actio finium regundorum essendo devoluta, in base al criterio del valore, al Tribunale o al Giudice di Pace: per quanto riguarda i beni immobili, in particolare, va ricordato l’art. 15 c.p.c., ai sensi del quale <<Il valore delle cause relative a beni immobili è determinato moltiplicando il reddito dominicale del terreno e la rendita catastale del fabbricato alla data della proposizione della domanda: per duecento per le cause relative alla proprietà [832 c.c.]; per cento per le cause relative all'usufrutto, all'uso, all'abitazione, alla nuda proprietà e al diritto dell'enfiteuta; per cinquanta con riferimento al fondo servente per le cause relative alla servitù. Il valore delle cause per il regolamento di confini si desume dal valore della parte di proprietà controversa, se questa è determinata; altrimenti il giudice lo determina a norma del comma seguente. Se per l'immobile all'atto della proposizione della domanda non risulta il reddito dominicale o la rendita catastale, il giudice determina il valore della causa secondo quanto emerge dagli atti; e se questi non offrono elementi per la stima, ritiene la causa di valore indeterminabile>>.
Nel caso di specie, d’altronde, come accennato, poiché la questione relativa all’accertamento del confine e all’apposizione dei termini è risultata sostanzialmente accessoria rispetto alla domanda di negatoria servitutis svolta dagli attori e di usucapione da parte dei convenuti, la Corte di Appello ha fatto applicazione dell’art. 31 c.p.c. ai sensi del quale <<la domanda accessoria può essere proposta al giudice territorialmente competente per la domanda principale affinchè sia decisa nello stesso processo, osservata, quanto alla competenza per valore, la disposizione dell’art. 10>>.
3. Usucapione del diritto di servitù di passaggio e requisito dell’apparenza.
L’usucapione, ai sensi degli artt. 958 e ss. c.c., è un modo di acquisto a titolo originario, non solo del diritto di proprietà, ma anche degli <<altri diritti reali di godimento>>, in forza, come accennato, del possesso su beni immobili o beni mobili continuato per venti anni (o 10 o 15 o 3 a seconda delle fattispecie particolari di cui agli artt. 1159 e ss).
Il possesso, a sua volta, è ai sensi dell’art. 1140 c.c., il potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale.
Nel caso del diritto di servitù, d’altronde, l’art. 1061 c.c. detta una disposizione speciale ai fini dell’operatività di tale modo di acquisto a titolo originario (così come per l’acquisto per destinazione del padre di famiglia), escludendola nel caso di c.d. servitù non apparenti.
Il comma 2 dell’art. 1061 c.c. definisce non apparenti le servitù quando non si hanno opere visibili e permanenti destinate al loro esercizio.
Le “opere” in questione non necessariamente devono essere artificiali o realizzate volutamente dall’uomo, potendo essersi formate naturalmente o comunque involontariamente (ad es., un sentiero sul terreno conseguente al mero calpestio [22]).
Devono però essere “visibili” (non clandestine, per rendere manifesta la soggezione del fondo servente alla servitù) e “permanenti” (quindi non meramente precarie o provvisorie), e, a prescindere da dove collocate (sul fondo servente, quello dominante o anche su fondo di terzi) devono palesare in modo non equivoco, per la loro struttura e funzione l’esistenza di un peso gravante sul fondo servente [23].
La Corte di Cassazione, in tal senso, con riguardo alla servitù di passaggio, ha, anche recentemente, sottolineato che il requisito dell'apparenza della servitù, necessario ai fini del relativo acquisto per usucapione o per destinazione del padre di famiglia, si configura <<come presenza di segni visibili di opere permanenti obiettivamente destinate al suo esercizio rivelanti, in modo non equivoco, l'esistenza del peso gravante sul fondo servente, così da rendere manifesto che non si tratta di attività compiuta in via precaria, bensì di un preciso onere a carattere stabile. Ne consegue che, per l'acquisto in base a dette modalità di una servitù di passaggio, non basta l'esistenza di una strada o di un percorso all'uopo idonei, essendo, viceversa, essenziale che essi mostrino di essere stati realizzati al preciso scopo di dare accesso al fondo preteso dominante attraverso quello preteso servente ed occorrendo, pertanto, un "quid pluris" che dimostri la loro specifica destinazione all'esercizio della servitù (così Cass. n. 11834 del 2021, Cass. n. 7004 del 2017 e Cass. n. 13238 del 2010). Il requisito dell'apparenza, dunque, (senza il quale, ai sensi dell'art. 1061 c.c., la servitù non può essere usucapita né acquistata per destinazione del padre di famiglia) deve essere legato ad una situazione oggettiva di fatto di per sé rivelatrice dell'assoggettamento di un fondo ad un altro in ragione della presenza di opere inequivocamente destinate all'esercizio della servitù, dovendo conseguentemente dipendere dalle oggettive caratteristiche dell'opera, e non già dal modo in cui questa viene utilizzata (così Cass. n. 2994 del 2004)>> [24].
4. La responsabilità professionale del notaio.
Infine, la sentenza della Corte di appello ha affrontato la tematica della responsabilità del notaio nell’ambito della sua attività professionale, nel caso di specie avente ad oggetto il rogito di contratti di compravendita immobiliare.
Come ricordato dalla Corte di Cassazione [25], l’art. 47 della Legge Notarile, nel prescrivere che il notaio "indaga la volontà delle parti e sotto la propria direzione e responsabilità cura la compilazione integrale dell'atto", impone allo stesso il cosiddetto dovere di adeguamento, dovere che si sostanzia nel compimento di tutte le attività necessarie per il conseguimento del risultato voluto dalle parti, in vista del quale il notaio deve porre in essere, in modo effettivo e sostanziale, tutti i comportamenti necessari per l'indagine sulla volontà delle parti (da svolgere, in maniera approfondita e completa, mediante proposizione di domande e scambio di informazioni intese a ricercare anche i motivi e le possibili modificazioni della determinazione volitiva come prospettatagli) e per la direzione della compilazione dell'atto nel modo più congruente alla accertata volontà delle parti.
Attività di indagine della volontà delle parti che deve portare al conseguimento di un atto idoneo che garantisca la parte e, al tempo stesso, assicuri la serietà e la certezza degli atti giuridici.
In modo ancora più puntuale è stato precisato [26] che <<il notaio incaricato della redazione e autenticazione di un contratto di compravendita immobiliare non è un destinatario passivo delle dichiarazioni delle parti e non può quindi, limitarsi ad accertare la volontà delle stesse e sovrintendere alla compilazione dell'atto ma ha l'obbligo di compiere l'attività, preparatoria e successiva, necessaria ad assicurare tanto la serietà e la certezza dell'atto giuridico da rogarsi, quanto l'attitudine dello stesso ad assicurare il conseguimento del suo scopo tipico e del risultato pratico voluto dalle parti della relativa stipulazione (Cass. n. 24733 del 2007; Cass. n. 26020 del 2011; Cass. n. 11246 del 2020), vale a dire l'interesse che l'operazione contrattuale è volta a soddisfare (Cass. n. 7283 del 2021; Cass. n. 11296 del 2020; Cass. n. 12482 del 2017; Cass. SU n. 13617 del 2012), a partire, evidentemente, dal compimento delle attività che concernono la sussistenza delle condizioni di validità e di efficacia dell'atto medesimo (cfr. Cass. n. 5946 del 1999, in motiv.). L'inosservanza dei suddetti obblighi accessori da parte del notaio dà conseguentemente luogo, a suo carico, a responsabilità contrattuale per inadempimento dell'obbligazione di prestazione d'opera intellettuale, a nulla rilevando che la legge professionale non contenga alcun esplicito riferimento a tale peculiare forma di responsabilità, dovendosi peraltro escludere alla luce di tale obbligo la configurabilità del concorso colposo del danneggiato ai sensi dell'art. 1227 c.c. (Cass. n. 24733 del 2007; Cass. n. 11296 del 2020). Il notaio, dovendo compiere l'attività necessaria ad assicurare la serietà e la certezza degli effetti tipici e il risultato pratico perseguito ed esplicitato dalle parti, ha, in particolare, l'obbligo nei confronti delle stesse di informazione e di consiglio (Cass. n. 7283 del 2021). Tale obbligo, che sussiste nei confronti di tutte le parti dell'atto (cfr. Cass. n. 26855 del 2020) e trova fondamento nella clausola generale di buona fede oggettiva quale criterio determinativo ed integrativo della prestazione contrattuale, che impone il compimento di quanto utile e necessario alla salvaguardia degli interessi della controparte (cfr. Cass. n. 16990 del 2015), si concretizza, tra l'altro, nel dovere di dissuasione dei clienti dalla stipula dell'atto, salvo espressa dispensa delle parti (Cass. n. 20297 del 2019, in motiv.), che consiste nell'avvertire le parti degli effetti derivanti dai vincoli giuridici eventualmente gravanti sull'immobile, come quelli derivanti dall'esistenza di una trascrizione o iscrizione pregiudizievole sul bene oggetto di trasferimento (Cass. n. 7283 del 2021, in motiv.), e, più in generale, delle problematiche, che una persona non dotata di competenza specifica non sarebbe in grado di percepire, collegate al possibile rischio, ad es., che una vendita immobiliare possa risultare inefficace a causa della condizione giuridica dell'immobile (Cass. n. 7707 del 2007), sicché, ad esempio, il notaio che abbia la conoscenza o anche il solo sospetto di un'iscrizione pregiudizievole gravante sull'immobile oggetto della compravendita, deve informarne le parti, quand'anche sia stato esonerato dalle visure, essendo tenuto comunque all'esecuzione del contratto di prestazione d'opera professionale secondo i canoni della diligenza qualificata di cui all'art. 1176 c.c., comma 2, e della buona fede (Cass. n. 15726 del 2010). Solo nel caso in cui il notaio sia stato espressamente esonerato, per concorde volontà delle parti, dallo svolgimento delle attività accessorie e successive, necessarie per il conseguimento del risultato voluto dalle parti e, in particolare, dal compimento delle cosiddette "visure catastali" e ipotecarie allo scopo di individuare esattamente il bene e verificarne la libertà da pregiudizi, deve escludersi la sussistenza della responsabilità professionale del notaio stesso in quanto detta clausola non può essere considerata meramente di stile essendo stata parte integrante del negozio, a condizione, peraltro, che la stessa appaia giustificata da esigenze concrete delle parti, come nel caso della sussistenza di ragioni di urgenza di stipula dell'atto addotte dalle parti medesime (Cass. n. 25270 del 2009; Cass. n. 5868 del 2006). Deve, per contro, ritenersi estraneo all'obbligo di diligenza relativo all'attività esercitata dal notaio solo quello di fornire informazioni oppure consigli non basati sullo stato degli atti a disposizione del professionista e sulle circostanze di fatto specificamente esistenti, note o comunque prevedibili, dovendosi valutare la diligenza del notaio ex ante e non ex post e, dunque, giammai sulla base di circostanze future e meramente ipotetiche (cfr. Cass. n. 20297 del 2019). Non rientrano, pertanto, tra gli obblighi di informativa e di consulenza, cui è tenuto il notaio al momento del rogito, tutti gli ipotetici ed eventuali scenari di rischio correlati a una trascrizione o iscrizione pregiudizievole (Cass. n. 20297 del 2019)>>.
[1] Cass. n. 21648/2021.
[2] Cass. civ., sez. II, 20 gennaio 2022, n. 1794.
[3] Cass. civ., sez. III, 22 settembre 2016, n.18606; Cass. civ., sez. III, 22 settembre 2016, n. 18606;
[4] Cass. civ., sez. III, 16 marzo 2021, n. 7283.
[5] Cass. civ., 18 settembre 2014, n. 19653.
[6] Ad es., il rogito notarile, Torrente – Schlesinger, Manuale di diritto privato, Giuffrè, 2017, 302.
[7] Cass. civ., 9 settembre 2013, n. 20641.
[8] La produzione dei certificati catastali non essendo utile ai fini della prova della proprietà in sede di rivendica.
[9] Cass. civ., sez. VI, 19 gennaio 2022, n.1569.
[10] Cass., 14 dicembre 2016, n. 25793.
[11] Cass. civ., sez. II, 25 febbraio 2022, n. 6324.
[12] Ad es., il rogito notariale di acquisto.
[13] Cass. civ., sez. II, 08 settembre 2021, n. 24183.
[14] Cass. civ., sez. II, 21 luglio 2021, n. 20912: l'azione di revindica presuppone un conflitto di titoli, determinato dal convenuto che nega la proprietà dell'attore contrapponendo al titolo da lui vantato il suo possesso della cosa (possideo quia possideo) ovvero un proprio diverso ed incompatibile titolo d'acquisto, nell'azione di regolamento di confini i titoli di proprietà non sono controversi e la contestazione attiene alla delimitazione dei rispettivi fondi (conflitto tra fondi) per la incertezza dei confini, oggettiva (derivante dalla promiscuità del possesso della zona confinaria) o soggettiva (provocata dall'assunto attoreo di non corrispondenza del confine apparente a quello reale)
[15] Torrente – Schlesinger, cit., 304; Cass. civ., sez. II, 21 luglio 2021, n. 20912.
[16] Cass. civ., 11 luglio 2016, n. 14131.
[17] Ivi comprese la prova testimoniale e per presunzioni, Cass. civ., sez. II, 17 novembre 2021, n. 34825.
[18] Cass. civ., sez. II, 12 gennaio 2022, n. 803.
[19] Cass. civ., 8 aprile 2011, n. 8100.
[20] Cass. civ., sez. II, 30 aprile 2014, n. 9512.
[21] Cass. civ., sez. II, 08 novembre 2013, n. 25244
[22] Cass. civ., 27 maggio 2009, n. 12362.
[23] Cass. civ., 17 marzo 2017, n. 7004.
[24] Cass. civ., sez. II, 20 gennaio 2022, n. 1794.
[25] Cassazione civile sez. II, 03 maggio 2022, n. 13857: la Corte ha rammentato la giurisprudenza di legittimità in tema di obbligo del notaio di procedere, previamente alla stesura di un atto pubblico di trasferimento immobiliare, alle cosiddette visure catastali e ipotecarie, ove si è appunto sottolineato che tale obbligo "rientra nei suoi doveri professionali ed è teso ad assicurare la serietà e la certezza degli atti giuridici", così Cass. n. 7127/1987.
[26] Cass. civ., sez. II, 31 marzo 2022, n. 10474.