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Società tra professionisti e professionisti in società di fatto

di Alma Chiettini • 20 ottobre 2021

Con la legge quadro in materia di lavori pubblici n. 109 del 2004 è stata prevista la possibilità di dar vita a società di professionisti per eseguire prestazioni di progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva, nonché direzione dei lavori (costituite esclusivamente tra professionisti iscritti negli appositi albi previsti dai vigenti ordinamenti professionali nelle forme delle società di persone ovvero nella forma di società cooperativa), nonché a società d’ingegneria per eseguire studi di fattibilità, ricerche, consulenze, progettazioni o direzioni dei lavori, valutazioni di congruità tecnico-economica o studi di impatto ambientale (costituite nella forma delle società di capitali ovvero nella forma di società cooperative).

Con il d.lgs. n. 96 del 2001 (di recepimento della direttiva n. 98/5/CE, che ha permesso l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquisita la qualifica professionale) è stata prevista la possibilità di esercitare la professione di avvocato in forma societaria secondo le norme del codice civile sulla «società in nome collettivo». Il decreto legislativo n. 96 richiede che i soci, tutti in possesso del titolo di avvocato, indichino quale «oggetto sociale esclusivo» proprio «l’esercizio in comune della professione dei propri soci», e prevede che l’incarico professionale conferito alla società tra avvocati può essere eseguito sia da un solo professionista sia da più soci, ma che in questo caso il cliente ha diritto di chiedere che l’esecuzione dell’incarico sia affidata ai soci da lui scelti; in difetto di scelta, la società deve comunicare per iscritto al cliente il nome dei soci incaricati. Una disciplina più specifica sull’esercizio della professione forense in forma societaria (società tra avvocati - STA) è stata introdotta con l’art. 4 bis della l. n. 247 del 2012 il quale, dopo aver ribadito il principio «della personalità della prestazione professionale», consente l’esercizio della professione forense in forma societaria «a società di persone, a società di capitali o a società cooperative iscritte in un’apposita sezione speciale dell’albo tenuto dall’ordine territoriale nella cui circoscrizione ha sede la stessa società».

Ma è stato l’art. 10 della legge n. 183 del 2011 che ha introdotto nell’ordinamento italiano la disciplina generale delle società tra professionisti: con tale intervento il Legislatore ha dunque riconosciuto a tutte le attività professionali ordinistiche la possibilità dell’esercizio in forma societaria, così bilanciando il principio dell’esecuzione personale della prestazione con la possibilità che sia una società la titolare del rapporto d’opera professionale.

Una società tra professionisti è costituita esclusivamente tra professionisti iscritti negli appositi albi previsti dai vigenti ordinamenti professionali e secondo i modelli societari regolati dai titoli V e VI del libro V del codice civile, con l’aggiuntiva precisazione che, in caso di società cooperative, queste devono avere un numero di soci non inferiore a tre. Le società tra professionisti sono pertanto soggette alla disciplina legale del modello societario prescelto, salve le espresse deroghe e integrazioni espressamente previste dalla normativa speciale in relazione al loro particolare oggetto. Una di queste riguarda la denominazione sociale che, in qualunque modo formata, deve contenere l’indicazione di «società tra professionisti (STP)».

Inoltre, l’atto costitutivo deve prevedere:

a) l’esercizio in via esclusiva dell’attività professionale da parte dei soci;

b) l’ammissione in qualità di soci dei soli professionisti iscritti a ordini, albi e collegi (anche in differenti sezioni), di cittadini degli Stati membri dell’Unione europea in possesso del titolo di studio abilitante, ma anche di soggetti non professionisti ma soltanto per prestazioni tecniche o per finalità di investimento; in ogni caso, il numero dei soci professionisti e la partecipazione al capitale sociale dei professionisti deve essere tale da determinare la maggioranza di due terzi nelle deliberazioni o decisioni dei soci; il venir meno di tale condizione costituisce causa di scioglimento della società, e il consiglio dell’ordine o collegio professionale presso il quale è iscritta la società procede alla cancellazione della stessa dall’albo, salvo che la società non abbia provveduto a ristabilire la prevalenza dei soci professionisti nel termine perentorio di sei mesi;

c) criteri e modalità affinché l’esecuzione dell’incarico professionale conferito alla società sia eseguito solo dai soci in possesso dei requisiti per l’esercizio della prestazione professionale richiesta; che la designazione del socio professionista sia compiuta dall’utente e che, in mancanza di tale designazione, il nominativo sia previamente comunicato per iscritto all’interessato;

d) la stipula di una polizza di assicurazione per la copertura dei rischi derivanti dalla responsabilità civile per i danni causati ai clienti dai singoli soci professionisti nell’esercizio dell’attività professionale; 

e) le modalità di esclusione dalla società del socio che sia stato cancellato dal rispettivo albo con provvedimento definitivo.

La società tra professionisti è iscritta in una sezione speciale degli albi o dei registri tenuti presso gli ordini e i collegi professionali di appartenenza dei soci professionisti. Può essere costituita anche per l’esercizio di più attività professionali: in questo caso la società multidisciplinare è iscritta presso l’albo o il registro dell’ordine o collegio professionale relativo all’attività individuata come prevalente nello statuto o nell’atto costitutivo.

Ne consegue che le società tra professionisti svolgono, tramite l’opera prestata dagli aderenti alla compagine sociale, un’attività di natura prettamente ma non esclusivamente professionale.

Con il d.m. 8 febbraio 2013, n. 34, è stato adottato il regolamento per disciplinare il conferimento e l’esecuzione dell’incarico professionale, l’iscrizione all’albo professionale e il regime disciplinare.

Quanto agli obblighi che ricadono su ciascun socio professionista, la partecipazione a una società è incompatibile con la partecipazione ad altra società tra professionisti, e il singolo professionista è tenuto all’osservanza del Codice deontologico del proprio ordine o collegio e può opporre, anche agli altri soci, il segreto concernente le attività professionali a lui affidate. 

La legge non regola testualmente la responsabilità della società per l’esecuzione dell’incarico professionale. Secondo una parte della dottrina ciò sarebbe manifestazione della volontà del Legislatore di escludere l’ente da ogni responsabilità, a beneficio della sua stabilità. Nondimeno, altra parte della dottrina osserva che una società fra professionisti non è una mera società di mezzi che consente di esercitare l’attività professionale e, di conseguenza, privilegia l’interpretazione che ritiene sussistente la responsabilità della società per l’eventuale inadempimento (o inesatto adempimento) dell’incarico ricevuto. 

Dal punto di vista fiscale, le disposizioni del testo unico delle imposte sui redditi (art. 6 per le società di persone - esclusa la società semplice - e art. 81 per le società di capitali) prevedono che il reddito prodotto dalle società, da qualunque fonte provenga e quale che sia l’oggetto sociale, è sempre considerato reddito di impresa ed è determinati secondo le norme relative a tale tipologia di reddito.

Per cui se una STP è una società di capitali, deve assoggettare a Ires il reddito prodotto e a Irap il valore della produzione; i dividendi distribuiti al socio professionista sono gravati da una ritenuta a titolo d’imposta del 26 per cento indipendentemente dalla quota di partecipazione agli utili.

Se la STP è una società di persone, il reddito è imputato direttamente ai soci in proporzione alla quota di partecipazione di ciascuno di essi ed è tassato in capo a ciascuno con l’Irpef in applicazione del principio di trasparenza ai sensi dell’art. 5 del testo unico delle imposte sui redditi.

Tornando alla realtà della professione di avvocato svolta collettivamente, in seguito all’entrata in vigore della legge 12 novembre 2011, n. 183, si è inevitabilmente prospettata l’eventualità di procedere alla “trasformazione” in società tra professionisti degli studi associati attualmente costituiti nella forma di associazioni professionali.

L’associazione professionale è considerata dalla giurisprudenza prevalente un contratto associativo atipico, che dà origine a un centro autonomo di imputazione di rapporti giuridici, pur se privo della personalità giuridica. L’associazione professionale sarebbe dunque simile all’associazione non riconosciuta, pur differenziandosene per la presenza di uno scopo di lucro.

Una parte della giurisprudenza ritiene invece assimilabile l’associazione professionale alla società semplice, poiché svolge un’attività economica ma non commerciale.

Seguendo l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza prevalente, sarebbe dunque possibile la trasformazione dell’associazione professionale in società tra professionisti, secondo le modalità della trasformazione eterogenea atipica, con il consenso di tutti gli associati e con gli effetti di cui all’art. 2498 c.c. (“Con la trasformazione l’ente trasformato conserva i diritti e gli obblighi e prosegue in tutti i rapporti anche processuali dell’ente che ha effettuato la trasformazione.”), rispettando il disposto dell’art. 2500-novies c.c. a tutela dei creditori (efficacia della trasformazione solo dopo sessanta giorni dall’ultimo degli adempimenti pubblicitari previsti).

In alternativa si potrebbe ipotizzare la costituzione della società tra professionisti mediante conferimento, da parte di ciascuno dei professionisti associati, della propria quota del preesistente studio associato.

Nessun problema presenta invece l’ipotesi della “trasformazione” di una società di servizi in società tra professionisti, che si può attuare anche con una semplice modifica dei patti sociali o dello statuto, ove rimanga inalterato il tipo sociale (per esempio, quando una s.n.c. di servizi diventa una società tra professionisti conservando la forma di s.n.c.).

Non è possibile, invece, ipotizzare la trasformazione in società tra professionisti di un’associazione temporanea di professionisti (normalmente contratta per la partecipazioni ad appalti pubblici), che ha la natura giuridica di un contratto di mandato con rappresentanza.

Non bisogna poi confondere le società formali costituite tra professionisti, così come disciplinate nel nostro ordinamento - secondo quanto sopra sinteticamente descritto -, con le società di fatto tra professionisti, ovvero nascenti da un accordo interno non esteriorizzato formalmente ma desumibile dai terzi in base a determinati indici sintomatici.

È noto che un’organizzazione societaria può esistere anche “di fatto”: quando, in assenza di un contratto sociale ma in forza di un accordo verbale o di una manifestazione di volontà implicita, più soggetti svolgono in comune un’attività economica, condividendo strumenti e mezzi economici, allo scopo di dividere gli utili. L’esistenza di una società di fatto non è di immediata percezione, anche in considerazione della difformità delle fattispecie che si riscontrano nella realtà economica.

La giurisprudenza e la dottrina - la prima esaminando e decidendo fattispecie concrete, la seconda cogliendo l’essenziale e le caratteristiche comuni - hanno rilevato che costituisce un indice della presenza di una società di fatto l’affectio societatis dei soggetti coinvolti, ossia il vincolo di collaborazione in vista dell’attività, desumibile da taluni elementi indiziari, elementi apparenti e rivelatori, quali: il perseguimento di un interesse comune, l’identità della sede legale; la condivisione di strutture, di spazi e di tecnologie; la comune forza lavoro; la presenza di un fondo comune e la confusione tra i patrimoni. In definitiva, l’esistenza di un compendio di beni organizzati per perseguire un comune risultato economico.

La definizione di società di fatto viene formulata dalla dottrina e dalla giurisprudenza per mezzo dello studio dei principi in materia di società e, in modo particolare, per mezzo di uno studio differenziale rispetto all’istituto della comunione ereditaria d’azienda (cd. comunione di mero godimento).

Invero, la società di fatto, come ogni altra società, deve avere uno scopo lucrativo, trovare la sua causa nello svolgimento di un’attività economica e caratterizzarsi per la disponibilità di risorse economiche materiali e immateriali apportate dai soci in forza di un contratto di società.

La prima caratteristica della società di fatto, ovvero l’estrinsecazione verso i soggetti terzi dell’esistenza di un vincolo societario tra i soggetti che partecipano in qualità di soci, costituisce un carattere che consente di distinguere la società di fatto (palese) dalla società occulta, vale a dire dalla società che viene individuata dalla giurisprudenza (soprattutto in sede fallimentare) come esistente tra un soggetto che agisce formalmente come imprenditore individuale e altri soggetti, che non appaiono formalmente essere soci.

Per il diritto tributario i criteri per identificare una “società di fatto” - la cui nozione non è esplicitata nel codice civile (l’art. 2298 disciplina solamente le società irregolari, che sono tali fino a quando la società non è iscritta nel registro delle imprese, con la previsione di non opponibilità ai terzi di patti che limitano i poteri di rappresentanza) - sono diversi da quelli che assumono rilevanza nei rapporti contrattuali di diritto privato.

In questi ultimi, l’esigenza primaria è tutelare l’affidamento incolpevole dei terzi causato dal comportamento di persone/soci che, conseguentemente, sono chiamati ad assumersi i relativi rischi. Più di preciso: una società di fatto, ancorché non esistente nei rapporti fra i soci, può apparire esistente di fronte a terzi quando due o più persone operano nel mondo esterno con modalità tali da ingenerare l’opinione che esse agiscano come soci, cosicché i soggetti terzi che trattano con loro sono indotti a ritenere l’esistenza di una società; in tale ipotesi è preminente la tutela della buona fede dei terzi, in base al principio dell’apparenza del diritto, in virtù del quale, nonostante l’inesistenza dell’ente, coloro che si comportano esteriormente come soci assumono in solido obbligazioni come se la società esistesse.

Nel diritto tributario, invece, stante il disposto dell’art. 5, comma 3, lett. b («le società di fatto sono equiparate alle società in nome collettivo o alle società semplici secondo che abbiano o non abbiano per oggetto l’esercizio di attività commerciali»), e dell’art. 6, comma 3 («i redditi delle società in nome collettivo e in accomandita semplice, da qualsiasi fonte provengano e quale che sia l’oggetto sociale, sono considerati redditi di impresa e sono determinati unitariamente secondo le norme relative a tali redditi») del testo unico delle imposte sui redditi, occorre verificare l’esistenza dei presupposti effettivi della società al fine di applicare le pertinenti norme impositive. Di conseguenza, l’accertamento dell’esistenza di un’attività imprenditoriale societaria - pur in assenza di prova scritta del contratto di costituzione della società - richiede l'accertamento del requisito dell’effettiva sussistenza degli elementi costitutivi il vincolo societario. Ne discende che l’indagine va condotta dal giudice di merito con riferimento agli elementi richiesti dall’art. 2247 c.c. per la sussistenza di un’attività societaria, consistenti nell’intenzionale esercizio in comune fra i soci di un’attività commerciale, anche occasionale, a scopo di lucro, e il conferimento a tal fine dei necessari beni e servizi. Elementi che possono essere provati, all’esito di una rigorosa valutazione, anche sulla base di presunzioni semplici purché gravi, precise e concordanti (requisiti previsti dall’art. 2729 c.c.).

È già stato affermato in giurisprudenza che l’esistenza di una società di fatto non può essere desunta soltanto dalle dichiarazioni rese dalle persone coinvolte ma che è necessaria anche la dimostrazione, eventualmente con prove orali o mediante presunzioni, del patto sociale e dei suoi elementi costitutivi quali: il fondo comune, l’esercizio congiunto di un’attività economica, l’alea comune dei guadagni e delle perdite, il vincolo di collaborazione in vista dell’attività. Ciò comporta che per ritenere esistente una società di fatto occorre la presenza di una causa lucrativa e di un accordo, anche solo verbale, nonché la ricognizione dei criteri di cui all’art. 2247 c.c., ossia l’intenzionale esercizio in comune tra i soci di un’attività commerciale a scopo di lucro con il conferimento, a tal fine, dei necessari beni o servizi, “atteso che la disciplina tributaria non richiede, per la tassazione del reddito di una società di fatto, altro requisito se non la ravvisabilità nel suo oggetto dell’esercizio di un’attività commerciale, e che la costituzione di una società è ammessa anche per l’esercizio occasionale di attività economiche” (Cass. civ., sez. V, 11 marzo 2021, n. 6835).

Da ultimo, si segnala una vicenda esaminata dalla Corte di legittimità, ove l’Amministrazione aveva contestato a due professionisti la costituzione di una società di fatto emergente dall’esteriorizzazione del vincolo sociale e dall’attività in comune diretta alla costituzione di varie società di servizi, dall’uso degli stessi locali nonché dall’esistenza di un fondo comune. I contribuenti interessati avevano opposto di aver svolto in maniera indipendente l’uno dall’altro l’attività di commercialisti liberi professionisti, che non vi era prova dell’organizzazione di un’impresa, di uno scopo sociale e dell’attività realizzata in comune, e che quando avevano voluto porre in essere un’attività lucrativa congiunta avevano costituito apposite società di capitali.

Ma le argomentazioni difensive non hanno trovato accoglimento perché - ha osservato la Cassazione - il giudice di merito aveva congruamente valutato che l’esistenza di una società di fatto si era manifestata come tale dinanzi ai terzi, nonché che sussistevano i requisiti specifici della società di fatto di cui all’art. 2247 c.c. (conferimento di beni, fondo comune, divisione degli utili e delle perdite, affectio societatis), desumibili da tre elementi indiziari correttamente giudicati gravi, precisi e concordanti:

- un’attività comune diretta alla costituzione di varie società di servizi; 

- l’esercizio dell’attività professionale negli stessi locali;

- l’esistenza di un fondo comune manifestata dalla contitolarità di tre conti correnti presso altrettanti istituti bancari.

Queste circostanze, essendo state correttamente valorizzate, hanno spinto la Corte ad osservare che la prova della sussistenza della società di fatto tra i due professionisti era stata raggiunta sulla base di idonei indici presuntivi (Cass. civ., sez. V, 15 settembre 2021, n. 24881).

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