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Spigolature 21. Legge e ingiustizia: le formule di Radbruch

Sergio Conti • 6 marzo 2024

Sulle formule di Radbruch – importante giurista tedesco di cui si è già trattato in Spigolature n. 2 – segnalo due interessanti saggi che analizzano il significato e la portata delle stesse da due angolazioni contrapposte.

Le formule sono state così riassunte (v. D. Di Rocco in https://www.iusinitinere.it/leredita-della-formula-di-radbruch-tra-certezza-e-mutevolezza-del-diritto-42284 ):

La prima Formula, detta “Unertraglichkeitsformel” o “formula dell’intollerabilità”, si basava sull’assioma “dell’intollerabilità dell’ingiustizia” del diritto posto, superato il quale il diritto cogente perde il carattere di vincolatività e, quindi, la Certezza deve cedere il passo alla Giustizia. Tale formula lasciava, comunque sia, insoddisfatto l’interrogativo riguardante la soglia di tollerabilità dell’ingiustizia del diritto, il suo limite di valicabilità.

La seconda formula, conosciuta come “Verleugnungsformel” o “formula della negazione deliberata”,[vi] si contrapponeva alla prima perché si fondava sulla valutazione aprioristica della legge, ritenendo che, laddove mancasse la benché minima parvenza di aspirazione alla giustizia, la legge posta, priva di uno dei suoi valori fondamentali, non avrebbe mai potuto fare ingresso nel campo del diritto e sarebbe dovuta essere – sillogisticamente – considerata inesistente, tamquam non esset. Ne discendeva un disconoscimento ontologico, ex tunc, della disposizione di legge: “là la legge non è solamente un diritto ingiusto, ma sfugge completamente alla natura del diritto”


Nello scritto di Bernd Schunemann -professore dalla Ludwing Maximilian Universitat di Monaco di Baviera - intitolato “PER UNA CRITICA DELLA COSIDDETTA FORMULA DI RADBRUCH NOTE SU UN CONCETTO DI DIRITTO CULTURALMENTE E COMUNICATIVAMENTE ORIENTATO” (pubblicato su i-lex. Scienze Giuridiche, Scienze Cognitive e Intelligenza artificiale Rivista quadrimestrale on-line: www.i-lex.it Dicembre 2011, numero 13-14 , reperibile all'indirizzo: http://www.i-lex.it/articles/volume6/issue13-14/schuenemann.pdf ) - si pongono in luce criticità delle tesi svolte da Radbruch.

Per contro, nell'articolo di Gaetano Carlizzi – giudice militare e docente universitario - recante il titolo <<I fondamenti giusfilosofici della “Duplice formula di Radbruch” >> (pubblicato negli Annali dell'Università degli Studi Suor Orsola Benincasa 2018, rinvenibile all'indirizzo https://universitypress.unisob.na.it/ojs/index.php/annali/article/viewFile/1203/435 ) viene evidenziata la rilevanza delle formule e ne viene contestata la contraddittorietà.


Vengono riportati di seguito - a puro titolo di stimolo di riflessione - alcuni passaggi dei due saggi.


Bernd Schunemann


Gustav Radbruch, il filosofo tedesco del diritto del ventesimo secolo più noto nel panorama internazionale, in quindici anni, ha risposto in maniera assolutamente differente al problema cardine della filosofia del diritto, ovvero al problema del rapporto tra validità giuridica e giustizia. La spiegazione biografica, a tal riguardo, è evidente. Infatti, la prima risposta si rinviene nella sua Rechtsphilosophie del 1932, pubblicata immediatamente prima della presa di potere da parte del nazionalsocialismo, la seconda risposta, dopo quattordici anni circa e successivamente alla fine della dittatura nazionalsocialista. Per un filosofo del diritto ciò è sorprendente: la veridicità di asserzioni filosofiche sul diritto, a differenza di quelle sociologico-giuridiche, non dipende da una verifica empirica e, pertanto, nemmeno può essere falsificata da eventi storici, come il dominio del nazionalsocialismo. Il cambiamento compiuto da Radbruch della sua teoria della validità giuridica, come reazione agli illeciti del regime nazionalsocialista, nemmeno può essere giustificato in base alla circostanza che la nuova teoria era considerata necessaria per rendere possibile la punizione degli atti di violenza del nazionalsocialismo. Il che rappresenterebbe una chiara fallacia naturalistica. Perciò, devono essere verificate, criticamente, le variazioni nel concetto di validità del diritto in Radbruch. Nella terza edizione della sua Rechtsphilosophie, apparsa nel 1932, Radbruch riconosce proprio alla coscienza del singolo il diritto di rifiutare obbedienza alle “leggi vergognose”, Schandgesetzen. Il giudice invece, nella sua attività di interpretazione, è sottoposto all’ordinamento giuridico positivo e non deve conoscere altro che la teoria giuridica della validità, che considera in egual modo l’esigenza di validità della legge rispetto alla validità effettiva; il giudice non deve mai chiedersi se il comando giuridico autoritativo sia anche giusto ma, molto più, deve considerare vigente tutto il diritto legale . Diversamente, nel suo saggio del 1946, Gesetzliches Unrecht und übergesetzliches Recht, il diritto positivo ha certamente priorità se, in riferimento al contenuto, è non giusto e non conforme allo scopo, ma tale priorità verrebbe meno qualora il contrasto della legge positiva con la giustizia raggiungesse una misura così intollerabile da far sì che la legge, come “diritto ingiusto”, debba cedere alla giustizia. Il che significa, in via diretta e conseguentemente, che, laddove nemmeno la giustizia fosse raggiunta e nella posizione del diritto positivo venisse negato consapevolmente il principio di uguaglianza — che rappresenta il cuore della giustizia — allora la legge in questione non solo sarebbe “diritto ingiusto”, ma sarebbe addirittura priva della natura di diritto. Queste osservazioni di Radbruch spesso sono presentate come una ‘teoria a tre livelli’. Il primo livello comprende le leggi semplicemente ingiuste, che possiedono, tuttavia, validità giuridica; il secondo livello è occupato dalla perdita di validità giuridica a causa di una “ingiustizia non tollerabile”; infine, al terzo livello, le leggi non rientrerebbero proprio più nel concetto di diritto qualora, attraverso di esse, il legislatore non avesse perseguito neppure la giustizia e, suo presupposto, l’uguaglianza . Certamente, si può dubitare si tratti effettivamente di due distinti piani, ovvero il piano della “intollerabile ingiustizia” e quello della “mancata aspirazione alla giustizia”. Anzi, viene introdotta, una volta, con la formula della intollerabilità, una misura oggettiva, ed un’altra, attraverso la formula del mancato impegno per la giustizia, una misura soggettiva, misure che potrebbero distinguersi appena nell’esito finale. Infatti, nella formula soggettiva, non è da trascurare che il concetto stesso di giustizia può essere considerato in maniera assolutamente differente, allo stesso modo in cui il criterio dell’uguaglianza dipende dal riferimento a ciò che si considera come uguale e come disuguale. Così, oggigiorno, l’uguaglianza formale di tutti gli individui rappresenta il quadro di riferimento decisivo, mentre, nel pensiero giuridico marxistaleninista, lo sfavore del nemico di classe era considerato giustificato, così come, nell’ideologia nazionalsocialista, la differenza fondata sull’elemento dell’appartenenza alla razza o, nel pensiero antico, la mancanza di diritti in capo agli schiavi. Pertanto, la “intollerabile ingiustizia”, come limite alla validità del diritto positivo, ovvero al diritto legale secondo le norme della Costituzione statuale concreta, non potrebbe mai divenire reale entro una ed un’identica cultura giuridica. E ancora: che Radbruch, attraverso la sua formula creata nel 1946, abbia alquanto limitato il positivismo legalista — quel positivismo radicale che aveva sostenuto nel 1932 —, considerato il moderno sviluppo degli Stati costituzionali, sembra avere un effetto meno importante, quasi irrilevante. Infatti, le concezioni sulla giustizia di un gruppo sociale sono contenute nella Costituzione ed una legge può essere invalidata già da una Corte Costituzionale, se essa contravviene, in particolare, alla Costituzione e non solo quando la violazione della Costituzione è intollerabile. Perciò, la formula di Radbruch ha senso, sin da principio, solamente nel caso speciale in cui ci si trovi di fronte ad un capovolgimento dell’intero sistema politico e che, di conseguenza, si ponga il problema di un giudizio retroattivo su fatti precedentemente commessi. La questione ha una particolare rilevanza nel diritto penale in virtù della sua natura, laddove il principio di legalità, riconosciuto nell’articolo 25 della Costituzione Italiana come nell’articolo 103 secondo comma della Costituzione Tedesca, esclude di fatto ogni applicazione retroattiva del nuovo diritto a fatti e circostanze precedenti. Se si considera questo, diviene anche chiara la specifica funzione della formula radbruchiana: non riconoscere validità alle norme dell’ordinamento giuridico antecedente, — al fine di fondare l’azione penale unicamente sulla parte dell’ordinamento precedente qualificata come valida — e, per questa via, eludere il divieto di retroattività.



Ab) In verità anche la formula soggettiva non porta lontano. Infatti la questione va decisa chiedendosi se il precedente legislatore “non abbia neppure perseguito la giustizia”, a partire non dalla sua prospettiva e secondo le sue convinzioni, bensì dalla prospettiva esterna del giudice attuale, rispetto a ciò che è giusto e ciò che è intollerabilmente ingiusto. Poiché è negata la prospettiva della giustizia interna ai gruppi che legiferano e che dominano la società, la ‘élite politica’, il criterio soggettivo si rivela un criterio di apparenza che rinvia ulteriormente all’attuale giudizio esterno e ancora alla discrepanza oggettiva tra la precedente disciplina e le attuali idee sulla giustizia. ...A tal proposito, come starebbero le cose rispetto al diritto delle società antiche, con la schiavitù ad esempio, oppure con quelle attuali che non riconoscono parità di diritti per le donne; e come starebbero le cose rispetto al diritto degli odierni ‘Stati confessionali’ o delle società che ammettono mutilazioni femminili e circoncisioni? In base alla formula di Radbruch il carattere di diritto non dovrebbe riconoscersi a gran parte degli ordinamenti giuridici di queste società. È chiaro, pertanto, che la formula conduce ad una sorta di imperialismo giuridico che interpreta le attuali visioni giuridiche del mondo occidentale come misura di tutte le cose.

...




Gaetano Carlizzi


(...) Il primo dato rimarchevole della teoria divenuta famosa come “Formula di Radbruch”, è l’inesattezza di questa stessa etichetta. La tesi che essa sta designare non ha, infatti, quella semplicità evocata dal termine singolare “formula”, bensì una indubbia complessità. In breve: dietro di essa si nasconde non una sola, bensì due tesi, le quali, sebbene dotate – come si vedrà – del medesimo fondamento, vanno distinte in linea di principio. Sarebbe, pertanto preferibile usare locuzioni come “Duplice formula di Radbruch” o “Formule di Radbruch”. La fonte comune delle due tesi è il breve eppure celeberrimo articolo Gesetzliches Unrecht und übergesetzliches Recht6 , pubblicato nella Süddeutsche Juristenzeitung all’indomani della fine della Seconda guerra mondiale (1946). Esso prende le mosse dal problema giusfilosofico centrale della validità (Geltung) del diritto: in ragione di cosa la legge costituisce un dover essere, è vincolante per i consociati? Sotto la spinta dell’esperienza nazista, il problema è affrontato nell’ottica particolare del trattamento penale applicabile a chi commette fatti gravemente lesivi dei diritti umani, ma non punibili al momento della loro realizzazione. A quale dei due “metri postbellici” giudicare questi fatti? Quello della neonata sensibilità per la tutela assoluta dei diritti umani oppure quello della restaurata riverenza verso il divieto di retroattività delle nuove incriminazioni? Fornendo un saggio di quella capacità tipicamente tedesca di combinare sensibilità giusfilosofica e competenza tecnicogiuridica, Radbruch usa come banco di prova tre vicende realmente accadute nella Germania hitleriana, in zone ricadenti ora sotto il controllo sovietico. Si tratta dei casi di: delatori per libera scelta, che, con le loro denunce, avevano condotto all’applicazione di norme contemplanti la pena di morte per fatti irrisori; giudici che avevano fatto applicazione di queste stesse norme; boia che, pur potendo dimettersi, avevano preferito continuare a dare esecuzione a tali pronunce. Il punto è che tutti questi soggetti hanno commesso fatti disumani ma leciti in base a(d alcune de)lle leggi dell’epoca. Donde la riemersione dell’interrogativo indicato: escludere ex post questa base legale giustificativa e punire i suddetti soggetti, oppure tenerla ferma e mandarli assolti? La risposta di Radbruch, che si colloca a metà strada, ha una trama assai articolata e conseguenze dirompenti, che vanno ben oltre le descritte vicende del passato. Come spesso fa nei suoi scritti, egli dissemina la propria riflessione di spunti in apparenza incidentali, ed è anche facendo attenzione ai relativi dettagli, talvolta costituiti da semplici coincidenze o divergenze letterali, che il lettore riesce a scoprire la sconfinata ricchezza del suo pensiero. Ai nostri fini conviene prendere le mosse dalla distinzione tra fatti commessi sotto il regime nazista e fatti commissibili in futuro, appena accennata nello scritto in esame . In effetti, se, da un lato, la “Duplice formula di Radbruch” è elaborata con immediato riguardo ai fatti del secondo tipo, dall’altro, non solo essa risulta rilevante anche per i fatti del primo, ma il discorso svolto per questi contiene precisazioni che retroagiscono sulla portata della stessa formula.



3.1. Una volta chiarito il contenuto complesso della formula in esame, si tratta di comprendere il fondamento delle due tesi che la costituiscono. Sostenere che la legge intollerabilmente ingiusta non è vincolante, mentre quella volutamente ingiusta è addirittura inesistente, è troppo in contrasto con la mentalità giuridica novecentesca per poter essere giustificato solo con l’ineccepibile disprezzo dell’abominio nazista. Radbruch è perfettamente consapevole di ciò, tanto è vero che, sempre nell’articolo del 1946, si preoccupa di specificare le ragioni della sua proposta. In sintesi: la validità della legge non può basarsi semplicemente sulla forza detenuta da chi la emana, giacché la legge costituisce una doverosità lato sensu (Sollen), mentre la forza è un dato di fatto che può fondare tutt’al più una necessità (Müssen). Piuttosto, nella prospettiva neokantiana, mai abbandonata da Radbruch, un Sollen può essere costituito soltanto da un valore (Wert). Ed è proprio qui che sorgono i problemi più spinosi. Nella sfera del diritto, infatti, non vi è un unico valore fondamentale, bensì molteplici, che possono entrare, e sono di fatto costantemente, in tensione tra loro: l’utilità (Zweckmäßigkeit), la giustizia (Gerechtigkeit) e la certezza giuridica (Rechtssicherheit). In questo senso, la possibilità di fondare la validità della legge positiva sulla certezza del diritto, che pure potrebbe ammettersi in astratto, giacché la legge positiva assicura la uniformità, stabilità e prevedibilità della vita giuridica, incontra in concreto degli ostacoli. Ciò non tanto da parte dell’utilità, che tende ad occupare l’ultimo posto della triade, dato che il suo soddisfacimento richiede regole certe e giuste, bensì da parte della giustizia, che in qualche modo include la stessa certezza, poiché dipende anche dalla stabilità della disciplina giuridica. Ma se è così, ecco che gli equilibri di questo campo di forze emergono quasi da soli, dando luogo alla tripartizione illustrata nel precedente paragrafo. Infatti: A) la legge relativamente ingiusta è valida perché, da un lato, assicura di per sé, nella sua mera positività, la certezza giuridica, dall’altro, non incide in misura significativa sulla giustizia, così risultando congruente anche con l’utilità; B) la legge intollerabilmente ingiusta non è valida, perché, pur assicurando la certezza giuridica per le ragioni appena viste, nondimeno vanifica del tutto la giustizia (e con essa l’utilità, che non si accontenta della certezza), così finendo per rivelare quel senso di mero atto di forza che, come visto poco sopra, non è in grado di fondarne la generale vincolatività; C) la legge volutamente ingiusta è solo in apparenza legge, mentre è in realtà priva di natura giuridica, in quanto, essendo il diritto «un ordinamento e una statuizione che è orientata a servire alla giustizia», essa manca interamente di quella tensione costitutiva della stessa giuridicità. Come anticipato, secondo l’opinione nettamente maggioritaria in letteratura, questo quadro è il frutto di una svolta, di un passaggio dal “primo” al “secondo” Radbruch. Così, a seguito dell’esperienza nazista, egli avrebbe abiurato al rigido giuspositivismo della giovinezza e della maturità, la cui espressione più compiuta sarebbe l’ultima edizione della Rechtsphilosophie da lui curata, quella del 1932, e avrebbe abbracciato una mentalità tipicamente giusnaturalista. Insisto sul fatto che questa lettura, quanto meno nelle versioni più radicali, non solo è fondamentalmente sbagliata, ma pure irrispettosa dell’acume del nostro Autore. Sotto il secondo profilo, non bisogna dimenticare che Radbruch era animato, oltre che da una potenza teoretica superiore, anche da una notevole onestà intellettuale (oltre che morale): pertanto, egli non avrebbe avuto alcun problema ad ammettere che la concezione giusfilosofica coltivata fino al 1932, anno che fatalmente precede l’avvento al potere del nazismo, meritava un così radicale rovesciamento alla luce di quest’ultima esperienza. Eppure, se si legge con attenzione l’articolo del 1946, non solo non si trova neppure un accenno in tal senso, ma addirittura si nota una chiara presa di posizione contro un certo tipo di giuspositivismo (“la legge è legge”), che con Bobbio potremmo chiamare “ideologico” e che impone di svolgere una ricostruzione più problematica di quella tradizionale.



Non solo l’idea di giustizia occupa un ruolo centrale in tutto l’arco del pensiero di Radbruch, ma immutato resta anche l’inquadramento che egli riserva alla vanificazione di tale idea per via legislativa. Sia che si tratti di ingiustizia intollerabile, sia che si tratti di ingiustizia voluta, in entrambi i casi si ha “negazione legale del diritto”, dato che “il diritto è la realtà che tende a servire alla giustizia”. E il fatto che nel primo caso l’atto del legislatore sia privo di validità, cioè non vincolante, mentre nel secondo manchi addirittura di natura giuridica, non deve far perdere di vista il fondamento comune delle due conseguenze. Alla luce di ciò è finalmente possibile giustificare apertamente la scelta, compiuta per la prima volta in questa sede, di tradurre “gesetzliches Unrecht” con “negazione legale del diritto”, anziché con “torto legale”, “illecito legale” o “ingiustizia legale”. In effetti, mi pare che nessuna di queste tre traduzioni sia in grado di riflettere adeguatamente l’ispirazione di fondo del pensiero di Radbruch. Ciò vale, innanzitutto, per “torto legale”, che, da un lato, ha risonanze eticheggianti, dall’altro, smorza la gravità dei casi da lui considerati; in secondo luogo, per “illecito legale”, che, nell’accezione corrente del termine “illecito”, richiama un fenomeno, la violazione del diritto vigente, ben diverso da quello esaminato da Radbruch; infine, per “ingiustizia legale”, la quale trascura che, per il nostro Autore, vi sono forme di ingiustizia legale (leggi relativamente ingiuste) che esulano dal quadro radicalmente patologico finora tratteggiato. A tutti questi limiti sembra sfuggire il sintagma “negazione legale del diritto”, il quale, da un lato, mette in piena luce quella radicale contraddizione con l’idea di giustizia che sola può giustificare le gravi conseguenze ricollegate da Radbruch alle due relative forme; dall’altro, oltre ad aderire al contenuto di senso dei morfemi “Un” (prefisso negativo), “gesetzlich” (“legale”) e “Recht” (“diritto”), pone in diretto ma contraddittorio contatto ciò che il giuspositivismo tradizionale identifica senz’altro, la legge e il diritto, così svelando quella paradossalità che vale a perpetuare la “Duplice formula di Radbruch”. D’altro canto, il tentativo di restituire l’intima organicità e continuità del pensiero del nostro Autore non toglie che esso, come ogni altra vera filosofia del diritto, resti essenzialmente problematico, resistendo alla tentazione di acquietarsi nell’immagine razionale che pure riesce a prospettare del diritto. Radbruch, infatti, è ben consapevole che quell’immagine riflette un equilibrio precario, soggetto ai rapporti di forza delle varie epoche, dunque è destinato a ricostituirsi sempre di nuovo, attraverso la prevalenza, che non può mai essere totale, dell’una sulle altre componenti dell’idea del diritto.

Questa consapevolezza si esprime soprattutto in un passo magnifico della Rechtsphilosophie, che pongo a sigillo delle mie modeste riflessioni: Abbiamo mostrato alcune contraddizioni senza riuscire a risolverle. In ciò non scorgiamo alcuna mancanza di sistema. La filosofia non deve prendere decisioni, deve condurre proprio davanti a esse. Né deve rendere la vita più semplice, ma per l’appunto problematica. […] Quanto sospetta sarebbe una filosofia che non considerasse il mondo una creazione finalistica della ragione, e consentisse di risolverlo in un sistema razionale privo di contraddizioni! E quanto inutile sarebbe un’esistenza se il mondo non fosse in definitiva contraddizione, e la vita decisione!





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