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Sport, filosofia e Costituzione

a cura di Vittorio Russo, avvocato e consulente parlamentare • 2 novembre 2023

PREMESSA

Agli albori della nuova legislatura è stato presentato il disegno di Legge costituzionale n. 13, che prevedeva un solo articolo destinato a modificare l’articolo 33 della Costituzione, con l’aggiunta, in coda al testo vigente, di una importante affermazione sul riconoscimento del valore educativo, sociale e di promozione del benessere psicofisico, da parte della Repubblica, dell’attività sportiva in tutte le sue forme.

Con tale disegno è stata confermata la volontà - già espressa nella passata legislatura e non concretizzatasi per la fine anticipata di essa - di affidare esplicitamente allo Stato il compito di promuovere e diffondere lo sport nella sua specificità, quale essenziale strumento formativo e di crescita individuale.

Il 13 ottobre 2022 il disegno di legge è stato presentato alla Presidenza del Senato, il 14 novembre 2022 è stato assegnato alla Commissione Affari Costituzionali e il 12 dicembre successivo l'esame è stato concluso con il passaggio del testo all'Aula per la votazione.

Il 13 dicembre 2022 l'Aula del Senato ha approvato in prima lettura con 145 favorevoli, 0 contrari e 4 astenuti il testo di modifica dell'art. 33 della Costituzione. 

Arriviamo dunque al 20 settembre 2023, data storica per lo Sport italiano.

Con la seconda e ultima deliberazione da parte della Camera dei Deputati, è terminato l’iter legislativo per l’approvazione del disegno di legge costituzionale che inserisce lo sport in Costituzione.

La Camera ha approvato all’unanimità la modifica all’art. 33 della Costituzione, introducendo il seguente nuovo comma: «La Repubblica riconosce il valore educativo, sociale e di promozione del benessere psicofisico dell’attività sportiva in tutte le sue forme».

Si tratta di un percorso normativo e istituzionale che parte da lontano e di cui si darà conto più avanti.

Certamente, si può considerare il tentativo di mettere al centro dei nostri pilastri ordinamentali lo sport nella sua accezione più ampia, riconoscendolo come importante strumento formativo d’integrazione sociale e di diffusione di valori universali positivi, oltre che veicolo di inclusione, partecipazione e aggregazione sociale. [1]

Non è un caso che il precetto vada ad inserirsi tra norme costituzionali in materia di salute e in materia di istruzione, accanto a cultura e arte, a dimostrazione della stretta correlazione dello sport con la concezione più moderna di  benessere psicofisico integrale della persona.

Occorrerà adesso vedere quali e quante conseguenze avrà nell'immediato e nel lungo termine questa riforma - che resta comunque una modifica costituzionale "di contorno" -; da mera dichiarazione di principio la norma programmatica dovrà necessariamente trasformarsi in un forte stimolo per il Legislatore di promuovere attivamente l'attività sportiva (ad esempio valorizzando lo sport nelle scuole e rendendolo accessibile ad alti livelli anche alle categorie sociali più povere), anche per evitare che aumenti il contenzioso nei Tribunali per questioni di legittimità costituzionale su leggi in ambito sportivo, nell'ipotesi in cui il principio dello sport come pratica educativa appaia non rispettato.


STORIA E FILOSOFIA DELLO SPORT

Ma la prima domanda che occorre porsi è questa: cosa significa l’espressione “attività sportiva”? Cos’è essenzialmente lo sport?

Molti studiosi si sono messi alla prova negli ultimi decenni per cercare di comprendere sostanzialmente come è possibile pervenire ad una definizione unitaria o quanto meno oggettiva del termine sport, le sue funzioni sociali ed il suo impatto emotivo-formativo sul progresso generale. Mettersi alla prova significa esplorare spazi mai percorsi, ambiti di speculazione mai oltrepassati, terreni di riflessione poco battuti. Quindi, fino a poco tempo fa si discuteva di una materia che tutti (o quasi) conoscono, che tanti praticano, ma sfuggente dal punto di vista dell'origine ontologica e dunque pure della sua classificazione o caratterizzazione giuridica. 

In soccorso di chi si è posto "la questione irrisolta dell'esegesi (anche normativa) dello sport" sono giunti, per vie accidentali, innumerevoli trattati di psicologia cognitiva, pedagogia e di biologia evoluzionistica che hanno aiutato enormemente a capirlo e a delineare un quadro concettuale più o meno solido su che cosa intendiamo nella universalità dei casi, quando parliamo dello sport e dei suoi presupposti sociologici.

Ma se ci poniamo degli interrogativi sulla base esplicativa dei principi sociali, non possiamo fare a meno di porci delle domande di diritto e delle sue fonti “abiogenetiche”. 

L'identificazione dello sport come attività che coinvolga le abilità umane basilari fisiche e mentali - esercitandole con costanza per migliorare ed usarle in maniera più proficua - permette di tracciarne un collegamento storico con lo sviluppo dell'intelligenza umana. Già per le civiltà primordiali, l'attività fisica, sia pur priva dei connotati agonistici che l'avrebbero caratterizzata in seguito, era un modo pratico ed utile per approfondire la conoscenza della natura ed applicare una maggiore padronanza su di essa.

Il secolare avanzamento civile ha permesso via via la razionalizzazione e dunque la "normalizzazione" di tali manifestazioni fisiologiche istintuali umane. Infine, la contestuale regolamentazione ne ha concluso il processo naturale d'utilizzo, tanto da farne un meccanismo pubblico adattabile a diversi scopi od obiettivi. 

Si pensi ad esempio alle potenzialità correlate al fatto che la diffusione della pratica sportiva nella maggioranza delle società contemporanee sia indice dell'importanza che la stessa assume in senso educazionale-sociale, ma anche economico-politico, fino al punto da contribuire a cementare la cultura "imperante" di un popolo intero, legandosi indissolubilmente ai "cardini storici collettivi" che la contraddistinguono; forgiare una disciplina che concorra ad affermare la forza identitaria, "interna ed esterna" di uno Stato, serve a definire i confini, con volontà didattiche e talvolta anche con finalità legislative, politiche ed etiche, del c.d. "sport nazionale", appunto. Emblematico il caso dei gloriosi Springboks del rugby per il Sudafrica.

Esaminiamone le basi gnoseologiche attraverso l'analisi di una materia che solo da poco suscita la curiosità intellettuale dei ricercatori: la filosofia e la storia dello sport.

Una disciplina che indaga il complesso e variegato universo sportivo, cercando di analizzare le implicazioni metafisiche, etico-morali, antropologico-filosofiche, pedagogico-educative e socio-politiche dello sport, inteso come attività antropologica positivistica.

Anche se la filosofia dello sport è un settore di studio giovane e ancora in fase di evoluzione, il legame tra sport e filosofia è molto antico e profondo ed è sancito dal comune luogo di origine. L’antica Grecia, infatti, otre ad essere stata il teatro del passaggio decisivo dal mythos al logos, è stata protagonista anche dell’istituzionalizzazione dello sport agonistico, ospitando i Giochi Olimpici antichi fin dal 776 a.C..

Il rapporto tra sport e filosofia non si riduce, però, semplicisticamente alla condivisione del contesto storico di origine, ma affonda le radici nei principi cardine della civiltà greca: l’uguaglianza e la libertà. Proprio per questo possiamo azzardare che la filosofia classica è nata con lo sport; vale a dire con quella cultura “agonale” del dialogo e del confronto equo tra pari che ispirava le antiche competizioni greche.

Proprio tra gli antichi filosofi greci possiamo trovare le prime considerazioni di carattere filosofico intorno all’attività fisica, lodata principalmente per il suo grande potenziale educativo e per la sua capacità di favorire uno sviluppo armonico della persona, come conferma questo passo della Repubblica di Platone: «Dopo la musica i giovani vanno formati con la ginnastica […] Bisogna dunque che anche con questa siano accuratamente allevati per tutta la vita, cominciando fin da bambini».

Il barone Pierre De Coubertin era un pedagogista ed uno storico francese, che recepì il mito di Olimpia, integrandolo nel suo progetto educativo universalistico. «Riformatore sociale, mosso da aspirazioni pedagogiche, De Coubertin ha affidato le sue speranze allo sport. Esso gli è parso la scuola delle nazioni moderne». Il pensatore francese propose di ristrutturare la società e promuovere l’interazione tra paesi e culture diverse attraverso lo sport, elemento innovativo e contemporaneamente antico, trovando ispirazione nel modello greco.

De Coubertin, consapevole della vocazione universale, multiculturale ed educativa dello sport, aveva l’obiettivo di allontanarlo da una concezione particolaristica, locale, strumentale, e renderlo occasione di incontro e confronto tra realtà eterogenee e lontane. Il nucleo concettuale dell’Olimpismo è riassunto nella Carta Olimpica, documento ufficiale pubblicato per la prima volta nel 1908 dal Comitato Olimpico Internazionale (CIO), che era stato fondato da De Coubertin nel 1894. La Carta Olimpica, oltre a contenere il regolamento per l’organizzazione dei Giochi Olimpici e l’ordinamento del governo del CIO, presenta i principi fondamentali del movimento, che riassumono l’insieme di teorie e riflessioni che prendono il nome di “filosofia dell’Olimpismo”.

Il Movimento Olimpico proponeva di «mettere ovunque lo sport a servizio dello sviluppo armonico dell’uomo, per favorire l’avvento di una società pacifica», dove regnino la pace, la collaborazione, il rispetto reciproco e l’accoglienza delle diversità.

Nella Carta Olimpica è esplicitamente affermato che la «pratica dello sport è un diritto dell’uomo» e, dunque, la partecipazione alle competizioni, spazi privilegiati di incontro e di dialogo, ma anche occasioni di festa e di condivisione, deve essere garantita a tutti.

L’Olimpismo ha unito i valori dello sport a quelli della solidarietà, del dialogo, della pace e dell’integrazione, ponendo lo sport stesso come strumento privilegiato per la formazione fisica, morale e sociale. Le riflessioni elaborate in seno al Movimento Olimpico, in particolare quelle relative al ruolo dello sport nella vita individuale e sociale, al dilettantismo, all’atteggiamento agonistico, ai valori che devono animare le competizioni, rappresentano un presupposto irrinunciabile per un qualsiasi tentativo di ricerca in ambito filosofico-sportivo. L’Olimpismo, infatti, non presenta una struttura teorica coerente e sistematica, e proprio per la sua propensione ad inglobare elementi diversi è stato definito eclettico. Lo sforzo di conciliare molteplici sistemi, alcuni apparentemente contraddittori, può generare critiche, ma, forse, proprio la flessibilità filosofica dell’Olimpismo può spiegare il duraturo successo dei Giochi Olimpici su scala planetaria.

Dunque, i Giochi Olimpici moderni hanno favorito e accelerato il processo di diffusione e affermazione dello sport, anche a livello popolare, e proprio il passaggio da attività elitaria a fenomeno di massa è stato l’evento che ha fornito l’occasione alla critica per una sfida intellettuale.

L’evoluzione dello sport e la sua eccezionale diffusione a livello mondiale, avvenuta tra XIX e XX secolo, hanno stimolato l’interesse degli intellettuali nei confronti della pratica sportiva, sia nella sua dimensione ludico-ricreativa e pedagogico-formativa, sia nella sua declinazione agonistica (dilettantistica, amatoriale e professionistica).

Le prime riflessioni intorno allo sport sono arrivate da pensatori appartenenti a diversi settori disciplinari, come quello pedagogico, sociologico e storico, e, in particolare, si sono sviluppate nel contesto della tradizione analitica anglosassone di matrice nordeuropea e nordamericana e nell’ambito della riflessione ermeneutico fenomenologica tedesca. [2]

In questo clima culturale, si creano i presupposti per l’elaborazione della filosofia dello sport, la cui nascita si fa coincidere con la pubblicazione, nel 1969, dell’opera di Paul Weiss, Sport: A philosophic Inquiry.

Weiss, professore di Filosofia all’università di Yale, è stato uno dei primi pensatori contemporanei a sottolineare la necessità di una riflessione filosofica intorno allo sport e a contribuire alla diffusione di questa “nuova” disciplina. Weiss, infatti, è stato anche il primo presidente della International Association for the Philosophy of Sport (IAPS), fondata nel 1972 .

Le riflessioni di Weiss intorno alle tematiche sportive hanno contribuito a dare quasi immediata credibilità allo studio filosofico dello sport, ponendo le basi per le maggiori linee di ricerca: la definizione di sport, il rapporto tra mente e corpo, le potenzialità formativo-pedagogiche dell’attività sportiva, la relazione tra dilettantismo e agonismo e il ruolo delle donne nello sport.

L’istituzione della IAPS è stata seguita dalla nascita del Journal of the Philosophy of Sport nel 1974, nonché dalla fondazione delle prime due società nazionali di ricerca della materia: la Japanese Society for Philosophy of Sport and Physical Education, nel 1978, e la British Philosophy of Sport Association nel 2002. 

Grazie alle iniziative e all’impegno della IAPS, la filosofia dello sport è stata inserita nei programmi di studio di diverse facoltà di Scienze Motorie, soprattutto in Università nordamericane e inglesi, e ha avuto una grande diffusione. Nonostante ciò, la filosofia dello Sport non ha raggiunto ancora una vera e propria autonomia e non è riuscita a sganciarsi dall’influenza di altre discipline, in particolare dalla pedagogia, che anzi tende a inglobarla nuovamente nel suo ambito.

La IAPS è il nucleo centrale di questo processo, protagonista dell’organizzazione di conferenze e meeting in Nord America e in Europa, primi fra tutti l’International Congress on Sport Science and Physical Education e il Congresso Mondiale di Filosofia dello sport.

Alla fine degli anni Ottanta risalgono, invece, le prime opere atte a sistematizzare la disciplina e i vari ambiti di ricerca, soprattutto con l’obiettivo di fornire una guida introduttiva agli studenti. [3] 

Negli studi condotti in ambito politico-sportivo si colloca l’analisi di problemi sociali e educativi come la discriminazione, la pace, il dialogo interculturale, il rapporto tra uomo e ambiente, i principi della solidarietà, della reciproca comprensione e del fair play.

L’ambito etico è senza dubbio la sfera di studio privilegiata dagli studiosi di filosofia dello sport, che si concentrano su questioni come il doping, l’inganno, la violenza, il rischio dell’abuso di nuove tecnologie (bioetica). In questo campo di ricerca devono essere discussi i confini tra legalità e moralità nello sport; gli effetti e le conseguenze di pratiche illecite/immorali sia sulle persone sia sullo sport stesso; la validità dei fini e degli obiettivi; la delimitazione delle responsabilità delle varie figure coinvolte; la valutazione del rischio di traumi e infortuni. L’etica dello sport si occupa, inoltre, di analizzare le implicazioni economiche dell’attività sportiva, ormai coinvolta nel processo si mercificazione che interessa i vari ambiti della società contemporanea.

In tale contesto, l’essenza dello sport è stata snaturata dalla spasmodica ricerca della prestazione e dei record disumani, inquadrata in un’ottica del profitto ottenibile con ogni mezzo. Infine, un tema a metà strada tra la dimensione socio-politica e la dimensione etico-morale è sicuramente quello relativo all’educazione, dato il potenziale pedagogico riconosciuto allo sport, difficile da gestire e preservare dalle contaminazioni del professionismo e della ricerca esasperata del risultato.

Di fronte alle questioni poste dalla pratica sportiva è evidente la necessità di un ripensamento dello sport, di uno sforzo di comprensione, che parta dalle discipline umanistiche (ed in particolare dalla filosofia), volto alla ricerca del valore umano dello sport. Se nel contesto accademico anglosassone e americano, la filosofia dello sport sembra essere in continuo sviluppo, in altre realtà accademiche l’evoluzione di questa disciplina è molto lenta e faticosa, se non addirittura completamente bloccato. [4]

D’altra parte, un dialogo tra sport e filosofia non è solo possibile ed auspicabile, ma assolutamente necessario per osservare lo sport da una prospettiva diversa e fornire un’interpretazione razionale di un fenomeno unico e travolgente, ma sempre più a servizio della realtà economica e commerciale.


ORGANIZZAZIONE SPORTIVA E ORDINAMENTO. RIFLESSIONI CONCLUSIVE 

Sotto l'aspetto istituzionale, e dunque quello giuridico-legislativo, l'organizzazione sportiva internazionale è una costruzione articolata e complessa dove si intersecano e si intrecciano le competenze dei soggetti che la compongono, i quali, comunque, perseguono fini propri. La caratteristica originale che contraddistingue tutta la costruzione è quella che vuole gli organi direttivi, ai diversi livelli, 'eletti' dai propri amministrati e non piuttosto 'nominati' da potentati politici o da lobby economiche. Altra peculiarità, rispetto ad altre strutture extranazionali (ONU, UNESCO, OMS, FAO ecc.), riguarda l'assoluta mancanza di sovvenzioni per gli organismi sportivi internazionali. Questi devono procurarsi i mezzi per operare e realizzare i compiti istituzionali tramite i ritorni economici della propria attività, i cui principali flussi viaggiano sul doppio binario delle sponsorizzazioni e delle concessioni televisive. 

L'organizzazione sportiva internazionale può essere paragonata a un edificio piramidale, il cui vertice è rappresentato dal Comitato olimpico internazionale. A partire da questo, scendendo, si hanno i Comitati organizzatori dei Giochi Olimpici, i Comitati olimpici nazionali, le Federazioni sportive internazionali, le Federazioni sportive nazionali, le Società sportive e infine la solida base costituita dagli atleti (a fianco dei quali operano i tecnici e i giudici). L'insieme di tutti questi soggetti costituisce il Movimento Olimpico. 

Secondo quanto previsto dalla Carta Olimpica (la completa raccolta dei principi cui devono conformarsi tutti gli aderenti e la cui ultima versione è stata elaborata nel corso della Sessione del CIO tenutasi l'11 dicembre 1999), l'obiettivo principale che il Movimento Olimpico persegue è la costruzione di un mondo migliore, "educando i giovani alla pratica sportiva senza discriminazione e nel segno dell'ideale olimpico che pretende amicizia, solidarietà e fair play". In base a tali dettami, l'olimpismo può essere definito come una filosofia di vita, in grado di esaltare, combinandole, le migliori qualità del corpo, della volontà e dello spirito. Per di più, esso pretende di essere 'internazionale e democratico' rifiutando ogni forma di disparità o di preclusione, sia tra le diverse discipline sportive sia tra i singoli praticanti. [5]

All'universo sportivo che non fa riferimento al Movimento Olimpico appartiene lo sport di squadra statunitense di matrice professionistica (quello di natura olimpica si inquadra, di norma, nell'ambito delle high schools e delle università). Si tratta di un fenomeno del tutto particolare che, pur muovendo grandi interessi sportivi ed economici, resta per lo più racchiuso entro i confini nazionali degli Stati Uniti. Organizzato con ferree logiche di mercato (gli stipendi ai giocatori non superano in nessun caso il 55% del fatturato, vale a dire ammontano a circa il 10-15% in meno di quanto percepiscono i calciatori professionisti europei) e sostenuto da un larghissimo favore popolare, gode di enormi profitti derivanti, per lo più, dai diritti delle riprese televisive e dalla commercializzazione dei marchi. [6]

Ben più arretrata è l'organizzazione dello sport italiano invece, che attualmente, in attesa di una 'Legge-quadro' di riordino generale della materia, annunciata da decenni da governi di ogni tendenza ma mai concretamente perseguita, vede ancora il CONI in posizione di centralità rispetto alle altre realtà che agiscono nel microcosmo sportivo nazionale: Federazioni sportive, enti di promozione, enti locali, scuola, forze armate ecc..

La struttura si configura dunque come una costruzione virtuale al vertice della quale opera il CONI, mentre la base è costituita dalle circa 70.000 società sportive. In posizione mediana si pongono le Federazioni nazionali che fungono da raccordo fra CONI e società sportive. 

Non è quindi sorprendente che proprio sul CONI si siano appuntate, a più riprese, le attenzioni del legislatore, a partire dal 16 febbraio 1942, quando venne decretata la legge istitutiva dell'organismo (Legge 426/42), che ne definiva i compiti e ne sanciva l'ordinamento quale 'Federazione delle Federazioni sportive', concentrando in esso tutta l'attività sportiva italiana, a qualunque livello e titolo svolta (anche se il regolamento di attuazione sarebbe stato emanato più di quarant'anni dopo, con il d.p.r. n. 157 del 28 marzo 1986). Nel merito, la legge imponeva al CONI di "incrementare e proteggere l'olimpismo e lo sport dilettantistico, nonché di incoraggiare e sviluppare l'educazione fisica, morale e culturale della gioventù del paese per migliorarne il carattere, la salute e il senso civico". 

Negli ultimi anni della sua trentennale gestione, il CONI subì però gli effetti frenanti della Legge. n. 70 del 20 marzo 1975 che lo inserì quale 'ente preposto ad attività sportive' nel riordino del Parastato, inceppandone la funzionalità amministrativa, sino ad allora caratterizzata da notevole dinamismo e autonomia (si ricordino, al riguardo, le due edizioni dei Giochi Olimpici di Cortina del 1956 e di Roma del 1960, organizzate quasi integralmente a carico del CONI e con il ricorso a modesti contributi pubblici).

Di fatto, l'ingresso del CONI nel comparto parastatale innescò una spirale di successive riforme e di parziali interventi legislativi che, alla lunga, hanno finito con il modificare il quadro originario, riducendo progressivamente la capacità imprenditoriale dell'intero settore sportivo. 

Malgrado le notevoli disponibilità prodotte dal Totocalcio negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta, per il CONI e le Federazioni i tempi nuovi imponevano esigenze di ammodernamento, purtroppo disattese dai vertici che si sono avvicendati nel corso degli anni.

Tra le opportunità mancate, al primo posto figura l'improvvida cessione, avvenuta nel 1996, del concorso Enalotto (la cui gestione era stata inizialmente affidata al CONI), trasformato da altri soggetti nel ricchissimo SuperEnalotto, con un disastroso effetto boomerang sugli stessi concorsi Totocalcio. 

Le trasformazioni in atto nella pratica sportiva, pur con gli squilibri tra sport olimpico e sport professionistico, imponevano comunque un riordino della intera materia che, mancata dagli 'sportivi', venne affrettatamente imposta dai 'politici' con una riforma legislativa che si può ritenere non ancora conclusa.

Il primo atto è stato il Decreto Legislativo del 23 luglio 1999, n. 242, emanato dal ministro Melandri, che abrogava la legge del 1942. Nelle intenzioni del legislatore esso avrebbe dovuto dare attuazione al riordino del CONI, introducendo nelle 'stanze' del potere sportivo una consistente rappresentanza dei tecnici e degli atleti, in quota non inferiore al 30% dei componenti dei consigli di amministrazione delle Federazioni e dello stesso CONI. Nello stesso tempo, i presidenti delle Federazioni, cui era stata da sempre affidata la gestione collegiale del CONI, venivano allontanati dagli organi direttivi. In buona sostanza, il provvedimento, se non avviò a soluzione i problemi dell'intera organizzazione, produsse l'effetto deleterio di tranciare di netto il legame che per novant'anni e con successo aveva caratterizzato il rapporto tra CONI e Federazioni. [7]

Come atto conclusivo, il CONI si vedeva costretto a elaborare un nuovo Statuto (predisposto il 26 gennaio 2000 dalla riunione n. 166 del suo Consiglio nazionale), approvato con d.m. del 19 aprile 2000 e in via definitiva con d.m. del 28 dicembre 2000. In base al dettato di riordino, gli organi centrali del CONI (che durano in carica quattro anni) sono attualmente: Consiglio Nazionale, Giunta Nazionale, Presidente, Segretario Generale, Comitato nazionale dello sport per tutti, Collegio dei revisori dei conti. Completano la struttura gli organi periferici, che sono i 20 Comitati Regionali, i 104 Comitati Provinciali e i Fiduciari locali. 

Dopo il d.l. n. 242, un successivo intervento legislativo (d.l. 8 luglio 2002, n. 138, emanato dal ministro dell'Economia e delle Finanze Tremonti), ha affiancato al CONI una società per azioni ‒ 'CONI Servizi spa' ‒ con il compito di gestire tutte le sue attività economiche: impianti, immobili, personale ecc..

Di competenza del CONI 'pubblico' restano i compiti conformi ai principi dell'ordinamento sportivo internazionale: preparazione olimpica, indirizzo e controllo delle Federazioni, diffusione della pratica sportiva, prevenzione e repressione del doping. Nello stesso tempo è stata decisa la ridefinizione, a partire dal 1° luglio 2003, anche degli scenari economici: la gestione dei concorsi Totocalcio e assimilati passò dal CONI all'Agenzia dei Monopoli dello stesso Ministero dell'Economia, il quale contribuirà al finanziamento con una quota parte degli incassi, da stabilire secondo appositi 'piani industriali', il primo dei quali predisposto dal CONI per il triennio 2003-2005. 

Il vento del cambiamento in atto ha investito anche gli organismi di base dello sport nazionale: le società, sia professionistiche (quelle di calcio in prima fila) sia dilettantistiche. Per il settore professionistico (già interessato dalla l. n. 91 del 23 marzo 1981) un primo intervento è stato l'emanazione della L. 18 novembre 1996, n. 586, che sanciva il 'fine di lucro' per le società sportive professionistiche, consentendo loro di trasformarsi in società di capitali. Da tale provvedimento dovevano principalmente trarre vantaggi (anche tramite la possibile quotazione in borsa) i 38 club calcistici di serie A e B, ma i possibili effetti sono stati vanificati da una dissennata gestione economica che, malgrado un aumento esponenziale delle risorse provenienti dalle TV, ha creato in otto anni un indebitamento collettivo superiore a 1.300 milioni di euro, così elevato da convincere il Parlamento ad approvare, nel febbraio 2003, un decreto che consentiva alle stesse società di rateizzare in 10 anni di bilancio la svalutazione del proprio patrimonio. 

Ma tutto questo susseguirsi di norme che facevano gli interessi "di quella o questa bottega" mancavano di una "visione" più complessa, più profonda; mancava in particolare un riconoscimento legislativo ordinamentale che rappresentasse sintesi e peso valoriale specifico in termini di principi culturali intoccabili ed immodificabili.

L'attuale maggioranza ha inteso disciplinare finalmente l'annosa questione giuridico-culturale. Sulla base di un assunto di principio che ha trovato largo consenso parlamentare, che si è erto su tale pilone concettuale: "Lo sport in tutte le sue forme, praticato a livello agonistico e dilettantistico, rappresenta un importante strumento formativo d’integrazione sociale e di dialogo culturale, nonché un volano per la diffusione di valori fondamentali quali la lealtà, l’impegno, lo spirito di squadra e il sacrificio. La diffusione della pratica sportiva nel mondo contemporaneo è il segno evidente dell’importanza che lo sport ha assunto anche da un punto di vista civile, sociale e culturale."

Per anni nella Costituzione italiana l’unico riferimento allo sport è stato posto all’articolo 117 comma 3, che inseriva l’Ordinamento Sportivo (già presente nella legislazione ordinaria) tra le materie di legislazione concorrente. La Costituzione non annoverava però alcun riferimento specifico all’attività sportivo-agonistica o allo sport in generale.

L’idea di inserire lo sport all’interno della nostra Carta Costituzionale arriva tuttavia da lontano. Già nel 2009 (XVI legislatura), con la proposta di legge dell’on. Di Centa (campionessa olimpica) come prima firmataria, si sottopose il tema all’attenzione delle Camere. Successivamente, sia durante la XVII che la XVIII legislatura, sono state presentate delle proposte di legge col medesimo intento, senza riuscire a scalfire il fortino armato dell'indifferenza alla "istituzionalizzazione" dello sport, che bombardava sistematicamente la necessità o quanto meno l'importanza dell'intervento in Costituzione.

Possiamo certamente dire che lo Sport in Costituzione rappresenta la prima tappa di un percorso che concentra, in poche parole, un significato profondo e un valore inestimabile, che possiamo sintetizzare nell'auspicio dello ‘sport per tutti e di tutti’, parte delle indispensabili ‘difese immunitarie sociali’ e importante contributo per migliorare la qualità della vita delle persone e delle comunità. Dentro questa sintesi c'è tutta la forza programmatica delle attività che dobbiamo svolgere, a ogni livello e nel rispetto dei ruoli, per trovare un equilibrio tra la soddisfazione delle vittorie, che spesso rappresentano l'unico metro di valutazione dell'efficienza del sistema sportivo, e l'allargamento della base dei praticanti e, comunque, l'aumento del beneficio di fare attività motoria, di promuovere la cultura del movimento, che invece nel nostro Paese non è stata ancora pienamente garantita. 

La Costituzione da oggi riconosce il valore e determina un diritto in astratto indispensabile, ma sarà responsabilità precipua della classe dirigente, quella politica, ma anche quella sportiva, trasformare il riconoscimento del valore in un diritto sostanziale, da garantire a tutti, partendo dalle persone più in difficoltà e dalle periferie urbane e sociali.

Dunque, la norma di rango costituzionale in questo caso ha reso corpo materiale non strumentalizzabile, ha obiettivizzato in concezione "assoluta" la definizione di sport. In tutta sostanza, ha sanato un vulnus, ha coperto un vacuum iuris più che una vacatio. Ne ha rafforzato i connotati, ne ha solidificato i confini, ne ha cristallizzato le ambizioni e gli orizzonti. Meglio tardi che mai, verrebbe da dire.

L'auspicio è che tale fonte normativa, ancorandolo, assicurandolo a bene giuridico di misura costituzionale, serva a tutelarlo, a proteggerlo da una cultura dell'antisportività dilagante nel nostro Paese, spesso sostenuta da presunti professionisti della materia. Ma questa è un'altra storia, che merita un approfondimento a parte.






[1] A livello europeo la normativa è sempre più protesa a dare rilevanza allo sport, strumento di contrasto di tutte le forme di esclusione sociale, riconoscendo un’intima connessione tra sport e diritti sociali, cioè quei diritti che sono di interesse della collettività. In questo senso è orientato il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea che, all’articolo 165, afferma che «L’Unione contribuisce alla promozione dei profili europei dello sport, tenendo conto delle sue specificità, delle sue strutture fondate sul volontariato e della sua funzione sociale ed educativa » e, con la sua azione, mira tral’altro a « sviluppare la dimensione europea dello sport, promuovendo l’equità e l’apertura nelle competizioni sportive e la cooperazione tra gli organismi responsabili dello sport e proteggendo l’integrità fisica e morale degli sportivi, in particolare dei più giovani tra di essi»

[2] Lo storico olandese Johan Huizinga è stato uno dei primi pensatori ad affrontare questo argomento nella celeberrima opera Homo Ludens e si è interrogato sulla natura della relazione esistente tra gioco e sport. In un capitolo, intitolato Gioco e gara come funzioni creatrici di cultura, Huizinga analizza il rapporto tra sport e gara, tra gioco e agon, chiedendosi in prima istanza se la competizione possa essere considerata un gioco e, dopo aver risposto affermativamente a tale interrogativo, si concentra sulle caratteristiche dell’agon, categoria nella quale rientrano anche i giochi sportivi. Vent’anni dopo, anche il sociologo francese Roger Caillois, nell’opera I giochi e gli uomini, include lo sport nella sua classificazione delle pratiche ludiche, confermando l’esistenza di un rapporto molto stretto tra gioco e sport.

Nel 1967 viene pubblicato dal filosofo Bernard Suits l’articolo What Is a Game?, seguito nel 1988 da The Tricky Triad: Games, Play and Sport, dove l’autore analizza più da vicino i punti di contatto tra gioco e sport, delineando i contorni della pratica sportiva agonistica e non. 

Sempre nel 1967 Howard Slusher collega la riflessione sul fenomeno sportivo all’Esistenzialismo nel testo Man, Sport and Existence, fornendo alla filosofia dello sport uno strumento determinante per lo sviluppo successivo: gli approcci fenomenologico ed esistenzialista saranno tra i più usati dai pensatori dediti alle ricerche sullo sport.

[3] A tale proposito occorre citare il contributo dato dal testo di William J. Morgan e Klaus Meier, Philosophic Inquiry in Sport., pubblicato nel 1988. Da questi studi emergono tre settori principali della filosofia dello sport: metafisico, politico ed etico. L’obiettivo fondamentale delle ricerche metafisiche è stabilire quali sono il senso e il ruolo dello sport nell’esistenza umana, soprattutto in quanto attività ludica e agonistica. Alla riflessione metafisica appartengono anche la questione relativa alle regole, che avranno un risvolto importantissimo in ambito morale e sociale; la complessa questione mente-corpo; il rapporto tra sport e arte.

[4] In Italia, per esempio, nonostante la presenza del Professor Emanuele Isidori, che è uno dei più importanti filosofi dello sport a livello mondiale, le ricerche e gli studi in questo ambito non sono molto sviluppati. Come afferma lo stesso Isidori, la ricerca filosofico-sportiva in Italia è stata rallentata in primo luogo dalla presenza di una tradizione idealistica fortemente improntata all'apoteosi del particulare, che ha contribuito a creare un clima di diffidenza verso i temi della corporeità e della pratica sportiva; in seconda istanza, dall’assenza di un approccio scientifico allo sport in ambito accademico, dato che la facoltà di Scienze motorie in Italia è stata istituita nel 1998, mentre nel resto d’Europa già esistevano dei curricula universitari specializzati nello sport.

[5] Il CIO fu fondato alla Sorbona nel corso del Congrès International Athlétique de Paris, in programma dal 16 al 23 giugno 1894. Al congresso presero parte una decina di membri del comitato promotore e 78 delegati in rappresentanza di 37 organismi sportivi, in massima parte francesi. Gli stranieri, provenienti da otto paesi, non furono più di una ventina. Tra loro figurava il trentaquattrenne conte napoletano Ferdinando Lucchesi Palli (1860-1922), un diplomatico che si trovava a Parigi come viceconsole del Regno e che divenne il primo membro italiano del CIO, anche se non restò in carica più di tre mesi: tanto bastò, tuttavia, a fare dell'Italia uno dei paesi fondatori dell'organismo internazionale.

[6] Gli sport coinvolti sono i quattro più seguiti dall'americano medio: la pallacanestro (organizzato nella National basket association), lo hockey su ghiaccio (nella National hockey league), il baseball (nella Major league baseball) e il football americano (nella National football league). I criteri sportivi sono più o meno analoghi. Le squadre vengono ammesse nelle Leghe in base a severi parametri che privilegiano sostanzialmente la solidità economica. Non ci sono retrocessioni e l'acquisto dei giocatori risponde a precise regole tendenti a non sfavorire i club meno ricchi e, di conseguenza, a mantenere un sostanziale equilibrio sportivo. Lo svolgimento dei campionati, considerata la dimensione del paese, si articola in sezioni geografiche (conferences o divisions) con finali nazionali disputate con il sistema dei play-off. I club appartengono di norma a importanti imperi economici. Un parametro significativo per comprendere l'entità finanziaria posta in gioco è fornito dagli stipendi annui percepiti dai migliori giocatori di basket, quasi mai inferiori ai 20 milioni di dollari.

[7] Il decreto era stato emanato in virtù della delega contenuta nell'art. 11 della l. 15 marzo 1997, n. 59 (cosiddetta 'Legge Bassanini'), la quale affidava al governo il compito di riordinare gli enti pubblici operanti in settori diversi, imponendogli di trasformare in associazioni di diritto privato gli enti per il cui funzionamento non appariva necessaria la personalità di diritto pubblico.

In tal modo il fenomeno della privatizzazione investiva il comparto pubblico dell'organizzazione sportiva, con la conseguenza di trasformare le Federazioni da organi del CONI in associazioni di diritto privato. Contemporaneamente veniva confermata la personalità giuridica di diritto pubblico del CONI, che passava sotto la vigilanza del Ministero per i Beni e le attività culturali, con la conseguente sottrazione delle funzioni di vigilanza sullo sport alla Presidenza del Consiglio dei ministri. A seguito di tale trasformazione il CONI poteva definirsi ente pubblico costituito da 'persone giuridiche private'.




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