Ordinanza del 5 marzo 2020 del GIP del Tribunale di Monza/ Ordinanza del 22 giugno 2020 del Tribunale di Milano/ Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 12/11/2020) 24-03-2021, n. 11429
IL CASO
Un avvocato viene sottoposto dal GIP del Tribunale di Monza alla misura cautelare del divieto di esercitare la propria attività professionale per un anno, poiché gravemente indiziato del delitto continuato di atti persecutori (art. 81 c.p., comma 2, e art. 612-bis c.p.), commesso mediante il ricorso sistematico e strumentale ad incessanti e infondate azioni giudiziarie in pregiudizio di alcuni soggetti.
L’appello cautelare viene respinto e, nelle more della stesura delle motivazioni del rigetto di tale appello, l’avvocato subisce la condanna in primo grado per il reato di stalking.
La Corte di Cassazione si pronuncia, successivamente alla sentenza di primo grado, sulla misura cautelare disposta nei confronti dell’avvocato, confermandola.
In particolare, i Giudici di legittimità rimarcano la numerosità dei contenziosi aperti dall’avvocato contro le sue vittime (in numero di almeno 39), e valorizzano la motivazione della Corte di appello sulla strumentalità delle azioni giudiziarie instaurate, in ragione del fine ultimo perseguito di aggredire e molestare i destinatari delle azioni.
Dal punto di vista cautelare, è stato ritenuto rilevante che il titolo professionale e l'abilitazione all'esercizio della professione forense avessero costituito uno degli strumenti utilizzati dall’avvocato per agire, di modo che la misura del divieto di esercizio della professione stessa era necessaria per impedire la strumentalizzazione della qualifica, non ostando a ciò il fatto che tale cautela sarebbe stata facilmente aggirabile, tramite l’incarico, per continuare a perpetrare lo stalking giudiziario, ad altro professionista.
Ma la Cassazione obietta che l'inadeguatezza di una misura può piuttosto indurre il giudice competente ad applicarne una più gravosa, non certo a revocare tout court quella in essere o a modificarne in melius le modalità esecutive, e che la anche soltanto velata “minaccia” di continuare lo stalking mediante altro avvocato può costituire di per sé la dimostrazione di una radicata volontà di reiterazione dell'agire illecito.
IL REATO
Il reato di atti persecutori si realizza attraverso la commissione di minacce e molestie reiterate nel tempo, che vadano a cagionare alla vittima un perdurante e grave stato di ansia o paura oppure un fondato timore per l'incolumità propria o di un proprio congiunto, o, infine, un'alterazione delle abitudini di vita della persona offesa.
Lo stalking va qualificato come fattispecie causale, caratterizzata da condotte alternative e da eventi disomogenei, ciascuno dei quali idoneo ad integrarla, i quali devono essere oggetto di rigoroso e puntuale accertamento da parte del giudice.
In particolare, mentre l'evento consistente nel fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona legata all'agente da relazione affettiva deve essere desunto da una ponderata valutazione della gravità delle condotte e della loro idoneità a rappresentare una minaccia credibile di un pericolo concreto e incombente, la fattispecie alternativa del grave stato di ansia o di paura deve identificarsi in una condizione emotiva negativa, accompagnata da uno senso di tensione, oppressione e perdita di controllo razionale sugli eventi che deve essere grave e costante, non dovendosi peraltro tradurre necessariamente in precise sindromi “canonizzate” dalla scienza medico-psicologica.
Non è indispensabile, in altri termini, che si verifichi un pregiudizio alla salute sotto il profilo del danno biologico, bensì è sufficiente che si realizzi un'alterazione del normale equilibrio psichico–fisico della persona offesa.
Si tratta di un reato abituale, dove l’abitualità non è un dato puramente “quantitativo”, ma un nesso che lega le diverse condotte esprimendo un disvalore ulteriore rispetto a quello espresso della singola molestia o minaccia.
Ciò significa che, da un lato, non può integrare il reato di atti persecutori una sola condotta di molestia o minacce (che a quel punto configurerà, eventualmente, diversa fattispecie penale) - per quanto tale condotta possa essere eccezionale e da sola capace, in linea teorica, di determinare il grave e persistente stato di ansia e di paura o un altro degli eventi naturalistici del reato -; dall’altro, anche due sole condotte tra quelle descritte dall’articolo 612-bis del codice penale, reiterate o meno in un arco di tempo ristretto - purché si tratti di atti autonomi -, sono sufficienti a determinare la lesione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice de qua (che è da ravvisarsi sia nella libertà morale della vittima che nel suo stato di salute e "tranquillità" psicologica).
Per quanto concerne il dolo, lo stesso è generico, e consiste nella volontà e coscienza di porre in essere (attuare volontariamente) ogni singolo atto e la condotta risultante dall’insieme di tutti i comportamenti.
Ciò significa, in pratica, volontà di sottoporre abitualmente la vittima ad una condotta offensiva.
Non occorre un particolare animus e nemmeno che entri nell’orizzonte di volizione del soggetto agente uno degli eventi descritti dalla norma, come, ad esempio, il grave e perdurante stato di ansia, oppure il cambiamento delle abitudini della vita quotidiana.
Vi è infine da evidenziare che, in virtù della clausola di riserva espressa contenuta nell’incipit dell’art. 612-bis c.p. (“salvo che il fatto costituisca più grave reato”), l’eventuale sovrapposizione della fattispecie di atti persecutori con condotte punite più gravemente – come avviene, ad esempio, nel caso di molestie e minacce commesse nell’ambito coniugale o familiare stretto – esclude l’applicabilità, in concorso formale o materiale tra di loro, di entrambi i reati.
Si applicherà dunque il principio di specialità, ad eccezione delle ipotesi in cui le due fattispecie (ad esempio, maltrattamenti e stalking), pur costituendo l’iter di una condotta complessiva volta a vessare la vittima, siano separate tra di loro da una significativa "cesura" fattuale e cronologica (si pensi al marito arrestato e condannato per maltrattamenti, che, una volta uscito dal carcere, e ormai fuori dal tetto coniugale, ricominci a perseguitare la sua ex moglie).
Normalmente, il delitto di atti persecutori nasce nell'ambito di fenomeni di degenerazione dei rapporti affettivi, ma l'orientamento giurisprudenziale più recente ha segnato una evoluzione dell'ambito applicativo del reato in esame, fino a ricomprendere anche quelle condizioni di prossimità di vita tipiche, ad esempio, dei rapporti di vicinato.
Di qui la creazione della figura dello stalking c.d. "condominiale" inteso a reprimere le reiterate azioni persecutorie messe in atto nei confronti dei vicini.
E’ stato infine "coniato" anche il reato di "stalking giudiziario" – oggetto delle pronunce in commento -, inteso come abuso del diritto giudiziario, utilizzato come strumento di intimidazione o persecuzione, assimilabile alla condotta prevista e punita dall'art. 612-bis c.p., tale da ingenerare nella vittima timori, ansie e perturbamenti.
Al riguardo, è stato chiarito che al fine di ritenere sussistente tale peculiare condotta criminosa occorre, in primo luogo, verificare la fondatezza o meno delle iniziative giudiziarie assunte, tenendo conto di quelle che non hanno avuto esito positivo (si pensi, ad esempio, ad una serie di querele poi archiviate), atteso che intanto sarà possibile attribuire astrattamente il carattere e la finalità di molestia ad un atto di denuncia, in quanto lo stesso sia carente del requisito di fondatezza in fatto, poiché in caso contrario si rientrerebbe quantomeno nel legittimo esercizio di un diritto, da parte di chi ricorre alle vie legali per contrastare un fatto ingiusto.
Peraltro, anche laddove sia verificato il prerequisito dell'insuccesso delle iniziative adottate, questo solo fatto non esclude di per sé la possibilità di considerare le iniziative come scriminate dall'esercizio di un diritto, dovendosi riconoscere il carattere di strumentalità dell'azione giudiziaria intrapresa solo a quelle che non avevano alcun riferimento alla realtà, del tutto infondate anche nel fatto denunciato, poiché è proprio in questa strumentalità che si individua l'espressione della esclusiva volontà dell'agente di recare disturbo, di danneggiare e non invece di chiedere giustizia per sé.
In altri termini, la reiterazione delle iniziative giudiziarie, che poi non abbiano esito positivo, possono integrare molestie ai fini che qui interessano, solo se appaiono del tutto strumentali e perciò, appunto, aventi una sola finalità persecutoria, per cui, in assenza di tale specifica condizione, il ricorso ripetuto agli strumenti giuridici dovrà intendersi legittimo esercizio del diritto di tutelare i propri interessi a fronte di situazioni che sono o che appaiono effettivamente illegittime (in applicazione dell'esimente di cui all'art. 51 c.p.).
E’ necessario, poi, trattandosi di reato di evento, un rigoroso accertamento processuale del nesso di causalità tra la condotta persecutoria e l’eventuale patologia accusata dalla vittima di tale condotta, o comunque rispetto agli altri eventi alternativi previsti dalla norma penale.
Certo, si potrebbe dire che l’aggressione giudiziaria – anche soltanto per la necessità dell'aggredito di difendersi nelle singole cause – comporta di per sé l’alterazione delle proprie abitudini di vita, trattandosi ordinariamente di “vittime” che non hanno consuetudine con Tribunali, avvocati e giudici, e risultando spesso gravosi gli oneri economici conseguenti alla difesa in giudizio.
Ma si potrebbe parimenti sostenere che intraprendere cause e citazioni civili è a sua volta un atto lecito, anch’esso dispendioso economicamente e defatigante per chi le intenta e promuove.
Si tratta dunque di una valutazione di “merito” che il Giudice penale deve effettuare e che non è affatto scontata, in cui non basta valorizzare il dato quantitativo (il numero spropositato di cause potrebbe infatti derivare da altri fattori, quali, ad esempio, pessimi rapporti di vicinato o una relazione sentimentale finita male) ma occorre necessariamente analizzare anche il dato qualitativo della fondatezza delle singole azioni giudiziarie, magari mentre le stesse sono ancora “in trattazione”.
Nel caso esaminato dal Tribunale di Monza – e successivamente vagliato anche dal Tribunale di Milano e dalla Cassazione in materia di provvedimenti
de libertate -, la valutazione è stata probabilmente più facile, perché, da un lato, il soggetto agente è un avvocato egli stesso, e quindi ha maggiore facilità di accesso (e strumentalizzazione) alle iniziative giudiziarie, dall’altro, sono apparsi nitidi i ruoli di persecutore e vittime, che possono invece essere a volte “offuscati” dal rilievo che anche le persone offese abbiano nel frattempo reiterato denunce e citazioni contro il presunto
stalker.