Nel microsistema delle disposizioni di contrasto al malaffare della pubblica amministrazione, la progressione legislativa recente [1] ha consapevolmente perseguito, attraverso l’introduzione del reato di traffico illecito di influenze -in accordo del resto ad una più intensa vocazione repressiva d’insieme-, il risultato di estendere l’area della penalità a condotte apparentemente distanti dalle tradizionali, e prasseologicamente ricorrenti, matrici comuni di incriminazione, compendiabili nel binomio corruzione/concussione e nelle figure ad esse intermedie.
Si tratta di “nuove” condotte penalmente rilevanti che sono percepite -ed osservate criminologicamente- quali potenziali fattori di indebito condizionamento dell’agire amministrativo e, in astratto, fattispecie prodromiche rispetto alle più gravi forme di aggressione all’imparzialità e al buon andamento della pubblica amministrazione [2].
All’interno dello statuto penale degli illeciti contro la pubblica amministrazione, il reato di cui all’art. 346 bis c.p. si pone, quindi, idealmente, quale norma di apertura protesa ad incriminare l’azione di quanti -variamente denominati nella pratica: portaborse, faccendieri et similia-, attraverso la propria rete relazionale, operino quali reali -o sedicenti- fattori di condizionamento dei pubblici poteri, al di fuori della legittima attività di lobbying [3].
Nella versione originaria, il reato di cui all’art. 346 bis c.p. incriminava, contemplando la pena della reclusione da uno a tre anni, la condotta di quanti “fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 319 e 319-ter, sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente [ricevessero per] sé o altri, [anche solo la promessa di] denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all'omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio”; la stessa pena, peraltro, era applicabile a chi indebitamente avesse versato o promesso il denaro o altro vantaggio patrimoniale.
L’introduzione del reato de quo aveva comportato, in prima battuta, la necessità di comprensione dell’esatta delimitazione dall’ambito fattuale dell’incriminazione rispetto al reato di millantato credito (disposizione del resto topograficamente finitima a quella di nuova introduzione).
Tale reato, infatti, nel reprimere il vanto di relazioni privilegiate, reali o meno, con un pubblico ufficiale, e la prospettazione di una mediazione nell’interesse della controparte presso il pubblico ufficiale quale causa di un’attribuzione patrimoniale in favore del millantatore, ictu oculi interferiva con l’area precettiva presidiata dal nuovo delitto.
Sul punto, la prassi giurisprudenziale, sin dai primi arresti, ebbe ad assestarsi su una linea interpretativa che riconduceva alla disposizione di nuovo conio le condotte -in precedenza attratte all’alveo precettivo di cui all’art. 346 c.p.- di colui che vantasse “un'influenza effettiva verso il pubblico ufficiale”, e che, in relazione a tale influenza, ricevesse anche solo la promessa di denaro o altra utilità come prezzo della propria mediazione o col pretesto di dover comprare il favore del pubblico ufficiale [4]; attesa la continuità normativa tra le due disposizioni, i profili di diritto intertemporale non potevano che essere disciplinati in accordo alla disciplina dettata dall’art. 2, comma II, c.p., con prevalenza, quindi, del trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 346 bis c.p., alla luce del più favorevole compasso edittale recato dalla nuova disposizione.
In dottrina, peraltro, non si mancò di rilevare come l’introduzione dell’art. 346 bis c.p. segnasse, a dispetto delle intenzioni del legislatore, un obiettivo arretramento della disciplina repressiva, alla luce dei più miti limiti edittali -rispetto alla forbice sanzionatoria del millantato credito- associati alla nuova fattispecie, limiti peraltro insufficienti ai fini dell’adozione di misure custodiali o anche ai fini del ricorso alle operazioni di intercettazioni [5], rilievi tanto più condivisibili alla luce del disvalore implicito alla fattispecie, il cui perfezionamento, a differenza della venditio fumi, postulava una relazione effettiva tra il faccendiere e il pubblico funzionario, e la preordinazione dell’intesa tra l’intermediario e il privato ad una fattispecie corruttiva cd. propria, come fatto palese dalla clausola di sussidiarietà posta all’incipit della disposizione.
La revisione del reato attuata dalla legge cd. spazzacorrotti ha definitivamente allineato l’ordinamento alle prescrizioni internazionali [6], che non prevedono differenziazioni, nella censura del comportamento di chi si proponga di esercitare un’influenza illecita sul pubblico ufficiale, con riguardo all’effettività o meno dei rapporti tra il faccendiere e il funzionario pubblico, al contempo ponendo riparo -attraverso l’abrogazione del delitto di cui all’art. 346 c.p.- all’evidente irragionevolezza dell’ineguale trattamento sanzionatorio che l’introduzione del reato di traffico di influenze aveva determinato con riferimento, in specie, al deteriore range edittale associato alla -apparentemente- meno grave fattispecie di millantato credito.
Con questo intervento legislativo, in realtà, il millantato credito non è fuoriuscito dal circuito dell’incriminazione ma è stato, almeno apparentemente, trasfuso nel riformulato articolo 346 bis c.p., il cui ambito precettivo è stato ampliato sino a includervi anche le condotte di millanteria di relazioni in realtà non effettive con il pubblico agente, le quali, come ricordato, successivamente all’introduzione del reato di cui all’art. 346 bis c.p., rimanevano sanzionabili, nell’applicazione giurisprudenziale, ai sensi dell’art. 346 c.p..
Pur a fronte di una non perfetta riproduzione, nella riscrittura dell’art. 346 bis c.p., del precetto descrittivo della fattispecie di cui all’ (abrogato) delitto di millantato credito, l’orientamento che, con riguardo ai profili intertemporali, sembra consolidarsi nella giurisprudenza di legittimità afferma la continuità normativa tra le due incriminazioni, alla luce del comune nucleo di incriminazione che “apparenta” le due fattispecie [7], in linea del resto con l’intentio legis [8]. In una all’inasprimento dello spessore sanzionatorio associato al reato, il legislatore ha previsto senza eccezioni l’incriminabilità del privato committente (cioè di colui che indebitamente dà o promette denaro o altra utilità per la mediazione illecita), il quale è chiamato a rispondere del reato, quand’anche il trafficante abbia “venduto fumo”, millantando relazioni non effettive, ma solo “asserite” [9].
Il punto segna un elemento di forte discontinuità rispetto al millantato credito, che riconosceva alla controparte il ruolo di vittima dell’altrui prospettazione millantatoria [10]; la distonia di sistema correlabile alla incriminabilità del committente, vittima del “raggiro” del trafficante, in realtà, non svanisce neppure alla luce dell’oggettività giuridica della fattispecie, posta a presidio della credibilità e della trasparenza della pubblica amministrazione, vulnerabile dalla causa illecita dell’intesa, obiettivamente considerata, a prescindere dalla decettività della pattuizione.
Invero, è stato efficacemente osservato che l’incriminazione del committente «è priva di reale consistenza materiale», in quanto espressione di un «diritto penale dell’atteggiamento interiore», in contrasto con il principio di offensività che, come insistentemente ribadito dalla Consulta [11], impone al legislatore «di prevedere fattispecie che esprimano in astratto un contenuto lesivo, o comunque la messa in pericolo, di un bene o interesse oggetto della tutela penale» [12].
L’obiezione, pur suggestiva, per cui l’incriminabilità del committente si giustificherebbe alla luce della pacifica irrilevanza della riserva mentale del pubblico ufficiale che, nelle fattispecie corruttive, si riprometta di non dare esecuzione al patto [13], non sembra risolutiva, atteso che, nell’ipotesi del traffico “truffaldino” di influenze, la “riserva mentale” del trafficante che dispieghi una condotta idonea a sorprendere la credulità della controparte, non si esaurisce nel foro interiore dell’agente ma, assurgendo a ragione di condotta, racchiude in sé il disvalore dell’illecito, a differenza di quanto accade nelle fattispecie corruttive, laddove il disvalore di fattispecie è nell’illiceità dell’accordo; la conclusione rassegnata, del resto, sembra in linea con le fattispecie truffaldine, rispetto alle quali la ragione dell’incriminazione, in effetti, si protende a sanzionare il contegno decettivo finalizzato a mascherare la riserva mentale dell’autore che, nel dar corso alla condotta ingannatoria, si ripromette di sorprendere l’altrui buona fede negoziale: appare evidente a chi scrive che, nei reati di truffa, lato sensu intesi, disconoscere il rilievo della riserva mentale significherebbe disconoscere il presupposto razionale -e relazionale- dell’incriminazione. In tale cornice sintattica, la punibilità della controparte -e, quindi, della vittima della truffa- introdurrebbe elementi di evidente problematicità, fortemente asistematici. Come è stato efficacemente osservato, l’estensione della punibilità, nei reati-accordo, ad entrambe le parti contraenti non è soluzione neutra ai fini dell’equilibrio valoriale e della oggettività giuridica espressa dalla fattispecie.
In tale prospettiva, acquistano pregio, ad avviso di chi scrive, i tentativi, emersi in dottrina, che circoscrivono l’area applicativa della fattispecie, e leggono nel traffico di influenze reali o “asserite” una fattispecie chiamata a incriminare le sole relazioni in cui le parti contino di poter influire sul pubblico ufficiale, alla luce dei pregressi rapporti che il trafficante abbia intessuto con il pubblico agente ovvero in ragione della condivisa -ed effettivamente ritenuta- capacità di influenza del trader sul pubblico agente, rimanendo, di contro, entro il perimetro del delitto di truffa le condotte interamente decettive ordite nei confronti della controparte ignara dell’altrui inganno [14]. In tale cornice, del resto, si inscrive con tratti di maggiore linearità la natura progressiva delle fattispecie in materia di corruzione -emblematicamente evocata dalla disposizione in parola, che, nell’incipit, pone una clausola di sussidiarietà, per cui essa non trova applicazione in ipotesi di concorso nei reati di cui agli artt. 318, 319, 319-ter e nei reati di corruzione di cui all'articolo 322-bis c.p.- che dal traffico di influenze sino al perfezionamento delle fattispecie corruttive, passando per il tramite delle figure istigatorie, vengono a descrivere un sottoinsieme il cui comune denominatore attiene alla inviolabilità –ed al presidio- dell’imparzialità della trasparenza e buon andamento delle pubbliche amministrazioni, rispetto al quale apparirebbe obiettivamente eccentrica una fattispecie precettiva che sanzionasse anche i contegni francamente decettivi agiti nei confronti del privato, come tali inidonei, sin dall’origine, ad esporre a repentaglio -neppure nelle forme anticipate di tutela apprestate dal reato in commento, che lambiscono, propriamente, il bene della credibilità e del prestigio della pubblica amministrazione- il bene finale di categoria.
L’interpretazione proposta, nel differenziare il traffico di influenze dal “traffico di fumo”, sembra accordarsi alla complessa stratificazione normativa posta a tutela, anche indirettamente, della pubblica amministrazione, e che rinviene, in una sede codicistica apparentemente eccentrica, un ulteriore tassello precettivo. Il riferimento è alla truffa aggravata dall’aver ingenerato nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario (art. 640, comma II, n. 2, c.p.). L’interazione della fattispecie truffaldina con il traffico di influenze apparirebbe quanto mai problematica, laddove si trascurassero i profili differenziali che, in sede di tipizzazione, distinguono i due formanti precettivi: invero, apparirebbe del tutto irrazionale e ingovernabile applicativamente un sistema penale che, da un lato, sanzionasse ex art. 346 bis c.p. l’acquirente del “fumo” spacciato dal trafficante, e dall’altro, lo esonerasse da pena, quando la venditio fumi assumesse i contorni descritti dall’art. 640 c.p., allorchè la parte, ad esempio, sia stata indotta ad una dazione in ragione della ingannevole prospettazione, da parte del deceptor, della consuetudine maturata in seno a un ufficio pubblico, per cui la retribuzione del funzionario infedele è fattore atto a influenzare positivamente l’emissione dell’atto divisato dal privato.
La tipicità espressa dal reato di cui all’art. 346 bis c.p. rivendica, quindi, uno spazio applicativo del tutto marginale, stretto, nel limite “inferiore”, dalle incriminazioni dei contegni francamente truffaldini, e nel limite “superiore”, dalle fattispecie lato sensu corruttive, che, pur quando si arrestino al tentativo, incorporano necessariamente nel proprio disvalore la riprovevolezza del traffico di influenze, la cui sanzionabilità, quindi, per espressa previsione normativa, sbiadisce sino a regredire ad un ante factum.
[1] Il riferimento è alla legge n. 190 del 2012, alla legge n. 69 del 2015 e, da ultimo alla legge n. 3 del 2019 -cd. spazzacorrotti-.
[2] GAMBARDELLA, L’incorporazione del delitto di millantato credito in quello di traffico di influenze illecite (l. n. 3 del 2019) ha determinato una limitata discontinuità normativa, facendo riespandere il reato di truffa, in Cass. pen., 2020, 1539.
[3] Cfr. MAIELLO, Il delitto di traffico di influenze indebite, in AA.VV., La legge anticorruzione, a cura di Mattarella e Pelissero, Torino, 2013, p. 419 ss.; CONSULICH, Millantato credito e traffico di influenze illecite, in Reati contro la pubblica amministrazione, a cura di Grosso e Pelissero, Milano, 2015, p. 622 ss.
[4] Cass., Sez. VI, 28 novembre 2014 n. 51688, Rv. 267622 - 01; id., Sez. VI, 14 dicembre 2016 -dep. 2017 n. 4113, Rv. 269735 - 01.
[5] Da ultimo, CANTONE - MILONE, Verso la riforma del traffico di influenze illecite, in Dir. pen. cont., 3 dicembre 2018; cfr. altresì GAROFOLI, Il contrasto alla corruzione: il percorso intrapreso con la l. 6 novembre 2012, n. 190, e le politiche ancora necessarie, in Dir. pen. cont., 22 febbraio 2013.
[6] Cfr., tra gli altri, l’art. 12 della Convenzione penale sulla corruzione del Consiglio d’Europa adottata il 27 gennaio 1999 e l’art. 18 della Convenzione Onu contro la corruzione adottata dalla Assemblea generale il 31 ottobre 2003 con risoluzione n. 58/4 e ratificata con L. 116 del 2009. L’interpolazione dell’art. 346 bis c.p. del resto rispondeva anche alle sollecitazioni del Greco che nel report dedicato all’Italia del 2018 invitava il legislatore nazionale a criminalizzare il privato acquirente a prescindere dalla pre-esistenza di una effettiva relazione tra il trafficante e l’intraneus: cfr. GRECO, Addendum to the Second Compliance Report on Italy “Incriminations (ETS 173 and 191, GPC 2)”, 18-22 giugno 2018, in www.coe.int.
[7] Cass., Sez. VI, 14 marzo 2019 n. 17980, Rv. 275730 – 01, a giudizio della quale “sussiste continuità normativa tra il reato di millantato credito, formalmente abrogato dall'art. 1, comma 1, lett. s), legge 9 gennaio 2019, n. 3, e quello di traffico di influenze di cui al novellato art. 346-bis cod. pen., atteso che in quest'ultima fattispecie risultano attualmente ricomprese le condotte di chi, vantando un'influenza, effettiva o meramente asserita, presso un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, si faccia dare denaro ovvero altra utilità quale prezzo della propria mediazione”; in termini conformi, Cass., Sez. VI, 7 ottobre 2020 -dep. 2021 n. 1869, in attesa di massimazione; contra, Cass., Sez. VI, 18 settembre 2019 -dep. 2020 n. 5221, Rv. 278451 – 01. In dottrina, a favore della continuità normativa si schierano tra gli altri : GAMBARDELLA, Considerazioni sull’inasprimento della pena per il delitto di corruzione per l’esercizio della funzione e sulla riformulazione del delitto di traffico di influenze illecite nel Disegno di Legge Bonafede, in Cass. pen., 2018, 3587; CUCINOTTA, Traffico di influenze illecite, corruzione e dintorni, in Dir. pen. proc., 2021, 239; contra, tra gli altri, MONGILLO, Il traffico di influenze illecite nell’ordinamento italiano dopo la “spazzacorrotti”: questioni interpretative e persistenti necessità di riforma, in Giavazzi - Mongillo - Petrillo (a cura di), Lobbying e traffico di influenze illecite, Torino, 2019, 285; PRANDI, Questioni d diritto intertemporale e continuità normativa tra millantato credito e traffico di influenze illecite, in Dir. pen. proc., 2020, 1244.
[8] Cfr. la Relazione illustrativa al Disegno di Legge n. 1189, Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici, 24 settembre 2018, p. 16.
[9] Invero, a mente dell’art. 346 bis, comma I, c.p., allo stato vigente: “chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 318, 319, 319-ter e nei reati di corruzione di cui all'articolo 322-bis, sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite con un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all'articolo 322-bis, indebitamente fa dare o promettere, a se' o ad altri, denaro o altra utilita', come prezzo della propria mediazione illecita verso un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all'articolo 322-bis, ovvero per remunerarlo in relazione all'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, e' punito con la pena della reclusione da un anno a quattro anni e sei mesi”.
[10] Del resto, in giurisprudenza era ricorrente l’affermazione per cui il millantato credito rappresentava una species del delitto di truffa, caratterizzata dalla peculiarità dell’oggetto della pattuizione: cfr. Cass. 12 luglio 2017 n. 40940, Rv. 271352 – 01, ad avviso della quale “il delitto di truffa è assorbito in quello di millantato credito previsto dall'art. 346, comma secondo, cod. pen. non potendo essere configurato il concorso formale tra i due reati in quanto la condotta sanzionata dall'art. 346, comma secondo, cod. pen., a differenza di quella prevista dal primo comma, consiste in una forma di raggiro nei confronti del soggetto passivo che viene indotto da una falsa rappresentazione della realtà ad un accordo che lo impegna ad una prestazione patrimoniale”; in termini conformi, cfr. altresì Cass. 28 dicembre 2016 -dep. 2017 n. 9960, Rv. 269755 – 01, a giudizio della quale “i reati di millantato credito e di truffa possono concorrere - stante la diversità dell'oggetto della tutela penale, consistente, per il primo delitto, nel prestigio della P.A. e, per il secondo, nel patrimonio - qualora allo specifico raggiro considerato nella fattispecie di millantato credito, costituito dal ricorso a vanterie di ingerenze o pressioni presso pubblici ufficiali, si accompagni un'ulteriore attività diretta all'induzione in errore del soggetto passivo, al fine di conseguire un ingiusto profitto con altrui danno”.
[11] Cfr. ex multis Corte cost., 23 giugno 2005, n. 265, in Giur. cost., 2005, 2432 ; Corte cost., 6 luglio 2000, n. 263, in Giur. cost., 2000, 2064.
[12] CINGARI, Sull’ennesima riforma del sistema penale anticorruzione, in Leg. pen., 2 agosto 2019.
[13] CUCINOTTA, Traffico di influenze illecite, cit., 242.
[14] Cfr. P. ASTORINA MARINO, L’unificazione di traffico di influenze e millantato credito: una crasi mal riuscita, in Sist. pen., 26 maggio 2020; M. GAMBARDELLA, Il grande assente nella nuova «legge spazzacorrotti»: il microsistema delle fattispecie di corruzione, in Cass. pen., 2019, 44.
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