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Il cambio di passo. Coprifuoco e altri rimedi

dalla Redazione • 18 marzo 2021

(Regole e ragionevolezza ai tempi del covid)


Una delle espressioni più usate nell’ultimo periodo è stata quella del “cambio di passo”. Si tratta di un’espressione che, ad esempio, è stata inizialmente abusata anche per indicare le caratteristiche dell’incedere del nuovo Governo, rispetto al ritmo del Governo precedente.

Vi sono vari indici utilizzabili per verificare se sussista o meno un “cambio di passo”, a seconda dell’attività umana coinvolta nella definizione, ma resta fondamentale, per una corretta comprensione e certificazione del fenomeno, riferirsi non tanto alla sostituzione fisica di alcuni dei protagonisti, quanto ai risultati concreti prodotti dalla nuova gestione.

Nel caso delle attività connesse alla leadership di un Paese, vi sono due possibili parametri di valutazione del cambio di passo, uno più immediato (produzione di nuove norme), un altro più a lungo termine (impatto effettivo e migliorativo sulla vita dei cittadini).

Fermiamoci ad un’analisi del primo parametro, che è anche la sola ad oggi possibile. 

Con riferimento alla produzione di nuove norme di contenimento del virus (e coesistenza con la malattia), l’interprete che si aspettava, da parte del Governo Draghi, l’utilizzo di un diverso “strumentario” e di un diverso bilanciamento tra i vari interessi coinvolti, è rimasto deluso.

Sono stati reiterati gli stessi DPCM del passato, già di per sé molto limitativi delle libertà personali, doppiati da decreti-legge se possibile ancora più restrittivi, sulla falsa riga di quanto già realizzato dal precedente Governo a partire dalle festività natalizie.

Ed è stato sostanzialmente abbandonato il criterio scientifico dei parametri di “selezione” chirurgica delle chiusure, in base all’andamento locale dell’epidemia.

Fatta eccezione per la Sardegna – che costituisce con evidenza caso a sé -, tutte le Regioni sono state forzatamente colorate di “arancione” ed è stata decisa la “chiusura pasquale” con quasi 25 giorni di anticipo sulla data delle festività, in contrasto con il principio elementare secondo cui le chiusure devono essere decise sulla base di dati attuali o comunque in virtù di una proiezione statistica non troppo lontana nel tempo.

Viene da dire che dal legittimo principio di precauzione, si è passati al principio di paura. Ed è purtroppo venuta meno, nel frattempo, anche l’unica spiegazione razionale che poteva essere addotta per giustificare nuove e più estese chiusure, variante inglese a parte: un’accelerazione nella campagna vaccinale. 

Né sono state espunte dall’ordinamento, come vedremo, per sospetta irrazionalità e mancanza di fondamento scientifico, alcune norme di chiusura del sistema di contenimento architettato; ciò che è cambiata, invece - almeno apparentemente – è la reazione dell’opinione pubblica e dei movimenti politici che prima erano all’opposizione, che hanno smesso “magicamente” di protestare.

Il che è molto pericoloso, in quanto la storia insegna che le forme di protesta e di scontento esistenti nella popolazione, quando non vengono “canalizzate” in un dibattito pubblico, tendono a nascondersi e poi a riemergere tramite episodi di violenza e rabbia improvvisi, solitari e incontrollati, come tali deleteri per la stabilità del sistema democratico.


Regole ed emergenza covid 

Secondo il significato comune che ne dà il vocabolario italiano, la norma è la regola di condotta, stabilita d’autorità o convenuta di comune accordo o di origine consuetudinaria, che ha per fine di guidare il comportamento dei singoli o della collettività, di regolare un’attività pratica, o di indicare i procedimenti da seguire in casi determinati.

Sappiamo anche che norma, nel senso giuridico del termine, sta ad indicare una regola o un insieme di regole formulate in termini generali e astratti, che riconoscono, facoltizzano, impongono o proibiscono determinati comportamenti.

Parametro di valutazione “politica” di una norma è la sua razionalità e funzionalità, ovvero la sua rispondenza a principi di logica e di non contraddizione, oltre che di coerenza rispetto all’obiettivo perseguito.

Ma la razionalità e la ragionevolezza di una norma entrano anche sotto la lente di ingrandimento del giudice, quando il contrasto con le regole della logica e del buon senso è talmente forte da arrecare ingiustificatamente una lesione a posizioni soggettive dei consociati degne di tutela.

A volte, basta un’interpretazione “orientata” di un testo ambiguo per ricondurre a coerenza interna una disposizione che sembra, se interpretata alla lettera, irrazionale/irragionevole.

Tuttavia, quando la regola non lascia spazio a dubbi, sulla sua formulazione e sulle sue finalità, e prevede un comando secco a cui corrisponde, in caso di trasgressione, una sanzione, occorre chiedersi fino a quale punto è possibile per il Giudice sindacarne la ragionevolezza.

Il problema si pone in particolare per quelle regole che siano applicative di una norma di legge (o che siano state esse stesse previste da una fonte avente rango legislativo) e che non si pongano in diretto contrasto con una norma dell’Unione europea con efficacia diretta.

Se il potere dell’amministrazione – nel fondare la regola in esecuzione del precetto legislativo – è di tipo discrezionale, il sindacato di ragionevolezza può essere effettuato da un giudice qualsiasi che si trovi ad applicare quella determinata regola.

Ma se il potere costituisce diretta applicazione di una norma di legge, non rimane altra strada al cittadino, se non quella di rivolgersi, per mezzo del giudice adito, alla Corte costituzionale, per vedere espunta dall’ordinamento la norma di legge illegittima da cui discende il vincolo.

Di tutto il poderoso armamentario di norme che il potere esecutivo (e il legislatore) hanno introdotto nel nostro ordinamento per contenere la diffusione dell’epidemia, ci sono in particolare due regole sulla cui genesi, evoluzione, rispondenza ai dati di fatto e funzionalità rispetto all’obiettivo perseguito dal decisore politico, è opportuno che il giurista si interroghi: il c.d. coprifuoco e l’obbligo di indossare la mascherina in tutti i luoghi all’aperto.


Gli strumenti di controllo “logici”

Tre sono i potenziali strumenti di controllo della regola, in sé e per sé considerata, in un ordinamento democratico: il controllo di razionalità astratta, il controllo di ragionevolezza e il controllo di proporzionalità.

Il primo si riferisce alla verifica di razionalità sillogistico-deduttiva di tipo matematico, e si può definire come un sindacato di coerenza interna e di “non contraddizione” dell’ordinamento.

Il secondo, invece, pur non appartenendo alla razionalità logico-formale di tipo deduttivo, esprime una ragione potenziata e più adeguata all’ambito dei comportamenti umani che essa è chiamata a conoscere attraverso il diritto.

In altri termini, il sindacato di ragionevolezza, specie di fronte all’ampiezza dei principi costituzionali e nei giudizi sui diritti fondamentali, si svolge attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti.

In tal caso, la ragione/razionalità astratta non resta chiusa in sé ma viene “aperta” dall’impatto che su di essa esplica il dato di realtà e di esperienza viva, di modo che il controllo di ragionevolezza significa, per certi versi, sottomettere la ragione all’esperienza.

Si potrebbe dunque definire la ragionevolezza – e la nostra Corte costituzionale lo ha fatto in più occasioni - come una forma di razionalità pratica.

C’è poi il controllo di proporzionalità della regola.

Si tratta di una nozione di origine tedesca, che ha preso piede come tratto fondamentale del neo-costituzionalismo contemporaneo, e che ha avuto un particolare successo nei giudizi di legittimità costituzionale relativi alla tutela dei diritti fondamentali e al loro bilanciamento.

Il sindacato di proporzionalità – il cui principio è spesso stato ritenuto fungibile con quello di ragionevolezza dalla Corte costituzionale italiana - consiste in un controllo in fasi delle scelte operate dal legislatore; parte da una valutazione della “connessione razionale” tra i mezzi predisposti dal legislatore e i fini che questi intende perseguire, si estende ad una verifica della “necessità” (ottenimento dell’obiettivo prefissato con il minor sacrificio possibile di altri diritti o interessi costituzionalmente protetti) e si chiude infine con un esame degli effetti della regola, che metta cioè a raffronto e soppesi i benefici perseguiti e i costi imposti (in termini di sacrifici che si chiedono ad altri diritti e interessi in gioco) per raggiungere l’obiettivo che la regola si è prefissa (la cosiddetta proporzionalità in senso stretto).


Il coprifuoco

Declinata in funzione anti covid-19 (almeno così è stata “venduta”), è la regola secondo cui, salvo particolari esigenze, è vietato uscire di casa tra le 22 di sera e le 5 del mattino successivo.

E’ una regola che è stata imposta a tutti (senza distinzione di “zone”) a partire dal 6 novembre 2020, con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. Ed è una regola che trae la sua stessa definizione e origine da un’antica usanza, secondo cui, in epoca medievale, al fine di prevenire gli incendi, veniva imposto in alcune città lo spegnimento di ogni fiamma, sia per il riscaldamento che per l'illuminazione, durante le ore notturne, in modo da ridurre i rischi di incendi accidentali che, durante la notte, avevano maggiori probabilità di propagarsi e di causare ingenti danni.

Nell’accezione contemporanea, poi, coprifuoco è traducibile come “divieto straordinario di uscire durante le ore serali e notturne imposto dall’autorità per motivi di ordine pubblico, in situazioni di emergenza”.

La regola si risolve, oggi, in una sorta di detenzione domiciliare part-time. Entra quindi in tensione, nel nostro ordinamento, con alcuni diritti fondamentali di libertà.

E’ nata per impedire assembramenti serali e notturni ed è stata sempre reiterata, da quasi cinque mesi, in combinato disposto con la chiusura serale generalizzata di locali e ristoranti e il divieto di asporto e di consumazione di cibi e bevande dopo le 22.

Il Governo Draghi ha riprodotto sic et simpliciter il divieto nel DPCM del 2 marzo 2021, senza un apparente approfondimento tecnico degli effettivi benefici della regola ai fini del contenimento della diffusione del virus.

In costanza di emergenza epidemiologica, bisogna dunque tornare indietro, all’adozione del DPCM del 3 novembre 2020, per capire le origini e gli obiettivi del divieto.

Al riguardo, occorre senz’altro partire dai verbali redatti nell’imminenza dell’imposizione della regola dal Comitato tecnico scientifico, ovvero dall’organo di consulenza tecnica nominato dal Capo del Dipartimento della Protezione civile per la realizzazione degli interventi necessari a “fronteggiare l’emergenza”.

Tale organo deve essere “sentito” per “i profili tecnico- scientifici e le valutazioni di adeguatezza e proporzionalità” delle misure di contenimento da adottare (art. 2, comma 1 del d.l. n. 19 del 2020).

Verbale del CTS del 31 ottobre 2020. Dopo avere ribadito in più punti la necessità di “un maggior grado di diligenza” nell’applicazione delle raccomandazioni e di “un rigoroso e sistematico controllo dei provvedimenti emanati relativi alle misure di contenimento”, con “sicuro sanzionamento delle inosservanze alle norme vigenti”, il CTS consiglia l’adozione delle misure restrittive indicate nel documento “Prevenzione e risposta a COVID-19: evoluzione della strategia e pianificazione della fase di transizione per il periodo autunno-invernale”, e rinvia alla successiva riunione del 3 novembre per il parere sui criteri di individuazione delle aree territoriali “che richiedono un eventuale inasprimento delle misure di contenimento”.

E’ dunque necessario esaminare il documento denominato “Prevenzione e risposta a Covid-19” e il successivo verbale del CTS – quello redatto nell’imminenza dell’approvazione del DPCM che ha introdotto il “coprifuoco” – per verificare quale sia stata l’analisi tecnica compiuta sugli effetti di tale misura nel contenimento dell’epidemia.

Nel primo documento (“Prevenzione e risposta a Covid-19”) non c’è nulla di specifico sulla misura del “coprifuoco” (scenario, necessità, effetti), salvo il generico riferimento a misure di contenimento più o meno “aggressive” a seconda della recrudescenza dell’epidemia.

Dal secondo documento (verbale del CTS del 3 novembre 2020) emerge il sostanziale recepimento, salvo un grido di dolore per il diritto all’istruzione negato agli adolescenti, di una bozza di DPCM già redatta altrove, con zero osservazioni sulla nuova misura del “coprifuoco”.

Sul punto, d’altra parte, neanche i “visti” e i “considerati” del DPCM ci aiutano, in quanto vi si legge la seguente formula beffarda: “Visti i verbali nn. 122 e 123 delle sedute del 31 ottobre e del 3 novembre 2020 del Comitato tecnico-scientifico”.

Il DPCM che ha introdotto in via (di fatto) permanente il “coprifuoco” è stato cioè adottato sulla base di pareri del CTS che nulla hanno detto sul punto. 

Quale è stata allora la genesi decisionale di una misura di contenimento così importante e così restrittiva della libertà di circolazione, che ha imposto la desertificazione serale delle città e un regime di semi-detenzione domiciliare?

A volere essere maliziosi, nei giorni precedenti all’introduzione del divieto, si sono verificate due tipologie di eventi connessi al futuro divieto, che hanno avuto molto risalto sui media: l’introduzione del coprifuoco da parte della vicina Francia e le “rivolte sociali” contro le nuove restrizioni nelle grandi città italiane.

Viene dunque il sospetto che, eliminata la motivazione “imitativa” del modello francese (ma non eravamo noi il modello?), la misura del coprifuoco sia stata in realtà una misura di ordine pubblico mascherata da misura sanitaria.

E questo possibile sviamento di potere fa già traballare la legittimità della regola, in quanto soltanto la legge può limitare la circolazione dei cittadini e nel d.l. n. 19 del 2020 la possibile limitazione dei diritti fondamentali tramite DPCM è concepita come misura per contenere e contrastare i rischi sanitari derivanti dalla diffusione del virus, non come misura per prevenire i disordini sociali. 

Esaminiamo in ogni caso la razionalità, ragionevolezza e proporzionalità della regola in sé, come peraltro richiesto per la sua legittimità dallo stesso legislatore (“secondo principi di adeguatezza e proporzionalità al rischio effettivamente presente”).

“Dalle ore 22:00 alle ore 5:00 del giorno successivo sono consentiti esclusivamente gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative, da situazioni di necessità ovvero per motivi di salute” (secondo l’ultima modulazione della regola contenuta nel DPCM del 2 marzo 2021 a firma Draghi).

La coerenza e non contraddittorietà ordinamentale della norma deve essere innanzitutto indagata nel confronto con le altre disposizioni a cui si accompagna, nell’ambito cioè della stessa regolamentazione di materia.

Scopriamo così che l’orario stabilito non è casuale, ma legato alle attività di ristorazione (che devono chiudere, quanto all’asporto, alle ore 22); scopriamo altresì che, anche se si può acquistare cibo da asporto entro quell’ora, vi è poi il “divieto di consumazione sul posto o nelle adiacenze”. 

Prima riflessione. Se l’asporto è consentito fino alle ore 22, chi prende cibo da portare a casa poco prima di quell’orario, non potendolo tra l’altro consumare sul posto, incappa quasi certamente nella violazione del “coprifuoco”.

Quindi, di fatto, vi è una sovrapposizione illogica di orari.

Seconda riflessione. Se dalle 22 in poi è tutto chiuso (locali, ristoranti, negozi) e se l’obiettivo è impedire gli assembramenti (peraltro già autonomamente vietati per tutto il giorno, in relazione all’obbligo di mantenere la distanza interpersonale), quale è il rischio di diffusione del virus da contrastare? Una passeggiatina, una corsetta notturna o un giro in auto espongono la popolazione all’epidemia? La risposta sarebbe sì, se il virus fosse nell’aria che respiriamo. Ma il rischio sono i droplets, secondo la comunità scientifica. E il contagio via droplet si produce con un’aggregazione continuativa e ravvicinata, in un ambiente senza adeguato ricambio di aria, e tra una o più persone prive di dispositivi di protezione, di cui almeno una infetta. La risposta è dunque no.

Si potrebbe dire, allora, che la regola è stata fissata per impedire alle persone di recarsi in abitazioni private dopo le 22, al fine di fare “festini” e creare situazioni di assembramento senza controllo.

A parte il fatto che è massima di esperienza comune che i “festini” possono essere organizzati a qualsiasi orario, e comunque tranquillamente con inizio entro le 22 (come sta in effetti avvenendo), anche in questo caso la regola del coprifuoco rischia di essere un inutile doppione di un’altra norma già esistente, secondo cui, nelle zone gialle e arancioni, “lo spostamento verso una sola abitazione privata abitata è consentito, una volta al giorno, in un arco temporale compreso fra le ore 5:00 e le ore 22:00, e nei limiti di due persone ulteriori rispetto a quelle ivi già conviventi”.

Basterebbe semplicemente estendere quest’ultima regola su tutto l’arco delle 24 ore, anche perché non vi è alcun motivo oggettivo o scientificamente plausibile che evidenzi un aggravamento del rischio di contagio nelle ore serali e notturne rispetto alle ore diurne, di modo che risulta irragionevole stabilire, a fronte di situazioni uguali, un aggravamento della misura di contenimento. 

Ma veniamo al controllo di ragionevolezza e proporzionalità (i due parametri possono essere utilizzati congiuntamente, nel caso di specie).

Sottoponiamo la ragione all’esperienza, e bilanciamo tra di loro i diritti fondamentali che vengono in rilievo.

E’ proporzionale il mezzo prescelto dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti?

Se considerato unitamente alle altre misure previste e alla necessità di diminuire il rischio di contagio la risposta è no, perché abbiamo già visto che si risolve in un doppione di altri strumenti di controllo della diffusione del virus.

Ma anche se consideriamo il coprifuoco come clausola di “chiusura” del sistema, la risposta resta ugualmente negativa, perché il bilanciamento tra libertà di circolazione e diritto alla salute individuale e collettiva pende decisamente, nelle ore notturne, in favore della prima, in considerazione del limitatissimo numero di occasioni di contagio, del lockdown serale delle attività di svago e commercio e del più facile controllo del territorio.

D’altra parte, così come è stata costruita, la regola non supera il vaglio di ragionevolezza e proporzionalità né sotto il profilo dell’adeguatezza rispetto al rischio generico da affrontare (invece di vietarsi lo spostamento verso le abitazioni private prima dell’ora di cena, luogo e momento in cui avviene un’importante percentuale dei contagi, si vieta anche soltanto lo stare all’aria aperta dopo l’ora di cena), né sotto il profilo della proporzionalità in senso stretto rispetto al rischio effettivamente presente sui singoli territori, applicandosi indiscriminatamente in tutte le realtà comunali e provinciali, a prescindere dal grado di diffusione locale del virus, e condizionatamente ad una incidenza settimanale dei contagi calcolata su base regionale.

In altri termini, sembra con tutta evidenza mancare, nella genesi e nell’applicazione del divieto, sia la connessione razionale tra mezzi e fini, sia la “necessità” dello strumento utilizzato.


L’obbligo di indossare la mascherina all’aperto

Introdotto nell’ordinamento giuridico nazionale dal 7 ottobre 2020 in poi con il DPCM adottato in attuazione del decreto legge n. 19 del 2020, così come modificato dal d.l. n. 125 del 2020, l’obbligo in discorso è stato recentemente confermato dal Governo Draghi con la seguente formulazione: “È fatto obbligo sull'intero territorio nazionale di avere sempre con sé dispositivi di protezione delle vie respiratorie e di indossarli nei luoghi al chiuso diversi dalle abitazioni private e in tutti i luoghi all'aperto. Non vi è obbligo di indossare il dispositivo di protezione delle vie respiratorie quando, per le caratteristiche dei luoghi o per le circostanze di fatto, sia garantito in modo continuativo l’isolamento da persone non conviventi (…)”. 

Anche in questo caso, si è trattato della semplice reiterazione di un obbligo già vigente, senza alcun approfondimento tecnico degli effettivi benefici della regola ai fini del contenimento della diffusione del virus.

In costanza di emergenza epidemiologica, dunque, bisogna ancora una volta tornare alle origini, ai criteri logici e alle basi scientifiche che hanno portato all’elaborazione della regola.

Verbale del CTS n. 112 del 5 ottobre 2020.

Stavolta l’organo di consulenza tecnica ci aiuta. Nel verbale si legge a chiare lettere che il corretto impiego dei dispositivi di protezione delle vie respiratorie contribuisce, in assenza delle condizioni di sicurezza rappresentate dalle misure di distanziamento interpersonale, al “compito di riduzione della proiezione di droplets”, con connessa delimitazione dell’obbligo di usare la mascherina anche all’aperto, limitatamente ai seguenti luoghi:

- spazi di pertinenza dei luoghi e locali aperti al pubblico;

- negli spazi pubblici, all’entrata e uscita da scuole, strutture sportive, esercizi commerciali, luoghi di lavoro, eventi pubblici e privati, attrazioni turistiche e/o di svago;

- fermate di autobus, tram e metropolitane di superficie.

Questi luoghi, secondo il CTS, sono tutti caratterizzati dal comune denominatore di avere “caratteristiche fisiche” in cui è più agevole “il formarsi di assembramenti anche di natura spontanea e/o occasionale”.

Le considerazioni del CTS sono razionali e coerenti con lo stato di conoscenze scientifiche sulle modalità di diffusione del virus: la misura di prevenzione dell’uso della mascherina può essere necessaria o comunque utile non solo nei luoghi al chiuso ma anche in quelli all’aperto in cui sia impossibile mantenere continuativamente la distanza di sicurezza, che ciò dipenda da circostanze strutturali o da situazioni contingenti poco importa.

Ma il Governo, nello scrivere la norma, eccede in prudenza e trasforma l’eccezione nella regola: obbligo di avere sempre con sé dispositivi di protezione delle vie respiratorie e di indossarli “in tutti i luoghi all'aperto”, a meno che non sia garantito “l’isolamento da persone non conviventi”.

Doppia sproporzione, si direbbe. Da un lato, la contrapposizione incoerente e normativamente sgrammaticata tra luoghi al chiuso e luoghi all’aperto.

Dai luoghi al chiuso in cui vige l’obbligo sono escluse le abitazioni private (ma non, ad esempio, i veicoli privati); nei luoghi all’aperto, invece – non rinvenendosi nella regola alcuna specificazione del regime proprietario del bene situato “all’aperto” – vige “sempre” l’obbligo, anche se per assurdo si tratti di un terreno privato.

Sotto altro profilo, l’equiparazione, incoerente con l’obiettivo da raggiungere – ovvero impedire un assembramento casuale e non protetto in luoghi “sensibili” -, di situazioni tra di loro del tutto diverse (sosta all’aperto ad una fermata dell’autobus e spostamento individuale a piedi), non sanata dall’eccezione della condizione di “isolamento”, condizione che implica, sotto un profilo concettuale, una irrazionale dilatazione della regola del distanziamento personale proprio nei luoghi meno a rischio (vale a dire i luoghi all’aperto).

La sensazione è che, per questo obbligo, così come per quello del “coprifuoco”, sia prevalsa, sull’esigenza di ragionevolezza e proporzionalità delle misure imposte, la necessità di raggiungere l’obiettivo, anche se con un mezzo eccessivo rispetto a quello necessario, al fine di facilitare il lavoro delle forze dell’ordine e di rendere più difficile al cittadino la possibilità di elaborare escamotage e giustificazioni.

Ma questo tipo di impostazione presuppone due motivazioni di fondo esterne alla ragionevolezza della singola regola, entrambe peraltro stigmatizzabili: una sostanziale sfiducia nell’autoresponsabilità di ciascuno di noi (che trasforma in potenziali sudditi anche coloro che le regole normalmente le rispettano) e uno sgravio ingiustificato di lavoro e di responsabilità in favore di chi quelle regole le dovrebbe fare rispettare per mestiere.

Il sistema di contenimento della diffusione del virus dovrebbe essere rivisto dalle fondamenta, possibilmente su basi razionali e non emotive, ma la sensazione è che “questo” cambio di passo non ci sarà.

Continueremo tutti a vivere nella paura l’uno dell’altro, alimentata da una sostanziale cappa di sfiducia del sistema su di sé e sui suoi consociati, fino a quando il possesso di una green card per viaggiare ci darà la sensazione di essere usciti dall’incubo.

Nel frattempo, sarebbe bello che fosse almeno corretto l’illuminante errore contenuto nell’incipit del decreto-legge che sta regolando da un anno le vite di tutti: “Per contenere e contrastare i rischi sanitari derivanti dalla diffusione del virus COVID-19 (…)” (art. 1, comma 1 del d.l. n. 19 del 2020).

COVID-19 è il nome di una malattia, non di un virus.


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