“Nella paralisi del Parlamento, l’intervento diretto del popolo è la situazione considerata dalla Costituzione” (Gustavo Zagrebelsky)
PREMESSA STORICA
Il legislatore del 1930 ha ritenuto di dovere sanzionare con pene severe ogni forma di cooperazione al suicidio altrui.
L’abdicazione volontaria alla propria vita era intesa, nella visione del regime fascista, come un atto intriso di elementi di disvalore, in quanto contrario al principio di sacralità e indisponibilità della vita, oltre che in disarmonia con gli obblighi sociali dell’individuo.
Nel vigente codice penale – rimasto sul punto inalterato per quasi 90 anni -, l’art. 579 punisce l’omicidio del consenziente con la reclusione da sei a quindici anni e l’art. 580 punisce l’istigazione o l’aiuto al suicidio con la reclusione da cinque a dodici anni.
E’ inoltre legalmente equiparato all’ipotesi di omicidio volontario l’omicidio a cui ha consentito una persona minore degli anni diciotto, una persona inferma di mente, che si trova in condizioni di deficienza psichica o il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno (art. 579, comma 3 c.p.).
Questa scelta rigorosa di fondo ha dovuto però fare i conti, dopo l’approvazione della Costituzione repubblicana, con la diversa prospettiva (di libertà) di quelle sfortunate persone che, pur volendo consapevolmente porre fine ad una esistenza fonte di sofferenze e privazioni, erano restate prigioniere dei progressi della scienza medica e intrappolate in un corpo che non permetteva loro neppure la possibilità di farla finita in autonomia.
Il diritto alla vita si è così contrapposto al diritto a vivere e a morire dignitosamente, ed è cominciata la ricerca normativa e giurisprudenziale di un punto di necessario bilanciamento tra esigenze diverse, nascoste nelle pieghe della Costituzione, così come interpretata dal Giudice delle leggi, e in presenza di un Parlamento incapace di normare compiutamente – per mancanza di volontà e sussistenza di pressioni esterne – un passaggio esistenziale così delicato.
Riletta peraltro alla luce della Costituzione repubblicana, l’interpretazione rigorosa delle norme penali sopra enunciate contrasterebbe sia con il principio personalistico enunciato dall’art. 2 – che pone l’uomo e non lo Stato al centro della vita sociale – che con quello di inviolabilità della libertà personale, affermato dall’art. 13, dai quali discenderebbe la libertà della persona di scegliere quando e come porre termine alla propria esistenza.
In questa evoluzione, peraltro, incide anche la valorizzazione del diritto all’autodeterminazione individuale, previsto dall’art. 32 Cost. con riguardo ai trattamenti terapeutici, così come espressa nei casi giurisprudenziali Welby ed Englaro e dalla recente legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), che sancisce in modo esplicito il diritto della persona capace di rifiutare qualsiasi tipo di trattamento sanitario, ancorché necessario per la propria sopravvivenza (compresi quelli di nutrizione e idratazione artificiale), nonché il divieto di ostinazione irragionevole nelle cure, individuando come oggetto di tutela da parte dello Stato la dignità nella fase finale della vita.
D’altra parte, anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha conosciuto una evoluzione, il cui approdo finale pare rappresentato dall’esplicito riconoscimento, sulla base degli artt. 2 e 8 CEDU (che garantiscono, rispettivamente, il diritto alla vita e il diritto al rispetto della vita privata), del diritto di ciascun individuo di decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita finirà.
Con la sentenza n. 242 del 2019, la Corte costituzionale, dopo avere inutilmente rinviato il suo giudizio di un anno per concedere al Parlamento la possibilità di intervenire in questa delicatissima materia, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della citata legge n. 219 del 2017, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
Nella sua decisione, la Corte costituzionale ha dovuto prendere atto dell’orientamento giurisprudenziale (per la verità espresso da un risalente precedente) secondo cui la condotta di aiuto al suicidio punisce chiunque agevola, in qualsiasi modo, tale suicidio, e dunque anche chi, come nel caso Cappato, offra un minimo aiuto materiale necessario (accompagnamento in auto alla clinica dove eseguire il suicidio assistito), in quanto le condotte di agevolazione, incriminate dalla norma penale in via alternativa rispetto a quelle di istigazione, devono ritenersi punibili a prescindere dalle loro ricadute sul processo deliberativo dell’aspirante suicida e la nozione di aiuto penalmente rilevante deve essere intesa nel senso più ampio, comprendendo ogni tipo di contributo materiale all’attuazione del progetto della vittima, come fornire i mezzi, offrire informazioni sul loro uso, rimuovere ostacoli o difficoltà che si frappongono alla realizzazione del proposito e via dicendo, ovvero anche omettere di intervenire, qualora si abbia l’obbligo giuridico di impedire l’evento.
LA BATTAGLIA DI MARIO
La sentenza della Corte costituzionale ha però lasciato fuori dal suo perimetro tutte le condotte che non consistano in un mero aiuto al suicidio (di un soggetto che è dunque ancora in grado di provvedere da solo all’ultimo fatale atto soppressivo) ma che implichino una forma di eutanasia per mano di un terzo.
Non è stata in altri termini considerata l’ipotesi confinante a quella del suicidio assistito, e cioè l’omicidio del consenziente.
La differenza tra le due fattispecie è più legata a dettagli esecutivi, che ai valori di libertà in gioco: l'aiuto al suicidio, diversamente dall'omicidio del consenziente, richiede che l'atto finale (come bere il veleno mortale o schiacciare il pulsante che attiva l'introduzione della sostanza letale) venga compiuto da chi vuole morire e non dal terzo che lo assiste.
Tuttavia, quando è accertata inequivocabilmente la consapevolezza e la libertà di chi ha deciso di morire, non vi dovrebbe essere alcuna differenza tra le due ipotesi, con riguardo al grado di autonomia riconosciuto alla persona nel decidere come e quando morire.
D’altra parte, la Corte costituzionale, nel suo pur apprezzabile intervento, ha ritagliato in limiti ristretti l’area fattuale in cui lo Stato rispetta l'autonomia della persona.
Quanto ristretti siano questi limiti, è facilmente desumibile dalla vicenda di Mario (nome di fantasia), un quarantenne tetraplegico marchigiano che ha dovuto ingaggiare una vera e propria battaglia legale contro l’Azienda sanitaria competente per ottenere l’applicazione al suo caso della sentenza n. 242 del 2019 sul caso Cappato.
Inizialmente, il Tribunale di Ancona ha respinto in sede cautelare la domanda avente ad oggetto la prescrizione del farmaco letale, ricordando che i principi stabiliti dalle recenti pronunce della Corte costituzionale devono ritenersi confinati ad ipotesi di esclusione della responsabilità penale, che la questione del “fine vita” attende ancora un’adeguata regolamentazione da parte del legislatore e che non sussiste il diritto del paziente di ottenere la collaborazione dei sanitari nell’attuare la decisione di porre fine alla propria esistenza.
In sede di reclamo avverso l'ordinanza cautelare (*), peraltro, lo stesso Tribunale adito, stavolta in composizione collegiale, pur condividendo il ragionamento secondo cui non può essere accolta la richiesta di ordinare all’azienda sanitaria di provvedere alla somministrazione/prescrizione del farmaco letale prescelto – in assenza di accertamento della sussistenza dei presupposti indicati dalla Corte costituzionale ai fini della non punibilità penale di un aiuto al suicidio e in assenza di un obbligo giuridico di provvedere in tal senso a carico della struttura sanitaria pubblica -, ha precisato che è senz’altro tutelabile il diritto ad ottenere dalla struttura sanitaria pubblica competente l’accertamento dei presupposti necessari e sufficienti, secondo la Corte delle leggi, a permettere al malato di accedere al suicidio assistito in piena legalità e senza che nessuno sia accusato di aiuto illecito al suicidio.
E’ stato pertanto riconosciuto a Mario sia il diritto di pretendere dall'Azienda sanitaria competente l'accertamento dell'esistenza, nel caso di specie, dei presupposti richiamati nella sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale, ai fini della non punibilità di un "aiuto al suicidio" praticato in suo favore da un soggetto terzo, sia il diritto di pretendere - dalla stessa struttura pubblica - la verifica sull'effettiva idoneità ed efficacia delle modalità, della metodica e del farmaco prescelti dall'istante per assicurarsi la morte più rapida, indolore e dignitosa possibile, previa acquisizione del parere del Comitato etico territorialmente competente.
Dopo una denuncia per tortura e omissione di atti di ufficio sporta dall’interessato, ormai esasperato dalla condotta ostruzionistica tenuta dagli organi sanitari individuati come competenti dal Tribunale di Ancona, e a distanza di più di un anno dall’inizio del contenzioso con la sua Azienda sanitaria di riferimento, il Comitato etico regionale ha infine individuato nella situazione del tetraplegico marchigiano la sussistenza delle condizioni richieste dalla sentenza della Corte Costituzionale, e un comitato di esperti incaricato dall’Azienda sanitaria procedente ha validato la scelta del farmaco individuato per il suicidio medicalmente assistito e le modalità di somministrazione di tale farmaco.
Mario può dunque finalmente porre fine alle sue sofferenze, quando lo vorrà, senza che nessuno dei “collaboranti” al suo suicidio assistito venga perseguito per il reato di cui all’art. 580 c.p..
IL REFERENDUM ABROGATIVO
Nel frattempo, il Parlamento continua a discutere in ordine alla regolamentazione del “fine vita” – con un testo imperniato sugli stessi limiti angusti già individuati dalla Corte costituzionale, e limitato all’ipotesi del suicidio assistito – e i sostenitori dell’eutanasia attiva hanno provato ad eliminare, tramite referendum abrogativo, la perdurante discriminazione esistente nei confronti di coloro che devono essere aiutati da un medico per ottenere di porre fine alla propria vita senza soffrire, non potendolo fare con un atto autonomo.
Poiché tale discriminazione non può essere posta nel nulla senza il previo superamento del reato di omicidio del consenziente, così come attualmente previsto dall’art. 579 del codice penale, i promotori del referendum hanno costruito un quesito con la cosiddetta tecnica del ritaglio, ossia chiedendo l’abrogazione di frammenti lessicali della disposizione di interesse, in modo da provocare la saldatura dei brani linguistici che permangono. Per effetto del ritaglio e della conseguente saldatura tra l’incipit del primo comma e la parte residua del terzo comma, la disposizione dell’art. 579 c.p. risultante dall’abrogazione parziale sarebbe stata così riformulata: «Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso: 1) contro una persona minore degli anni diciotto; 2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; 3) contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno».
Il referendum abrogativo in Italia è l’unico strumento di esercizio diretto ed esclusivo della sovranità popolare, come richiamata dall’art. 1 della Costituzione, ed è regolato nei suoi tratti essenziali dall’art. 75 della Costituzione, che pone specifici paletti all’ammissibilità del referendum abrogativo (1).
Secondo l’art. 2 della legge costituzionale n. 1 del 1953, spetta alla Corte costituzionale giudicare se le richieste di referendum abrogativo presentate a norma dell'art. 75 della Costituzione siano ammissibili ai sensi del secondo comma dell'articolo stesso.
LA SCELTA DELLA CORTE
La Corte costituzionale ha bocciato il referendum abrogativo di parte dell’art. 579 c.p. (2) attraverso un ragionamento giuridico complesso, ma sulla base di un argomento molto semplice. Il bene primario della vita umana non può ammettere vuoti di tutela.
Sopprimere sic et simpliciter il delitto di omicidio del consenziente creerebbe una falla non desiderabile nel complessivo sistema della protezione del diritto alla vita, dal momento che, quando viene in rilievo tale diritto, la libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente sulle ragioni di tutela del medesimo bene, risultando, al contrario, sempre costituzionalmente necessario un bilanciamento che assicuri una sua tutela minima.
Discipline come quella dell’art. 579 cod. pen., poste a presidio della vita, non potrebbero, pertanto, essere puramente e semplicemente abrogate, facendo così venir meno le istanze di protezione di quest’ultima a tutto vantaggio della libertà di autodeterminazione individuale.
La soluzione della Corte è tecnicamente criticabile sotto una serie di profili, tra di loro concatenati, e il cui diverso apprezzamento avrebbe potuto portare all'ammissibilità del quesito.
Occorre innanzitutto premettere che la proposta dei referendari era quella di una soppressione "chirurgica" del reato di omicidio compiuto nei confronti di chi avesse validamente espresso, al riguardo, un consenso di cui poteva disporre.
Sarebbero restate fuori dall'ambito della depenalizzazione - continuando ad essere punite penalmente con il più severo delitto di omicidio volontario - tutte le condotte di soppressione di minorenne o di infermo mentale, o comunque di individuo in situazione di minorazione psichica o il cui consenso fosse stato estorto con violenza o inganno, secondo i rigidi paletti (*) già imposti dalla giurisprudenza di legittimità per fattispecie analoghe.
Ancora, occorre tenere bene a mente che l'impianto stesso del quesito referendario (abrogazione parziale di norma penale) non implicava, quale conseguenza dell'abrogazione, il rilascio di una patente di liceità ad ogni atto consapevolmente consentito di omicidio, ma soltanto la non punibilità a livello penale di tale condotta.
È infatti del tutto normale e ammissibile per il nostro ordinamento giuridico che la stessa fattispecie possa produrre conseguenze diverse in termini di liceità, risultando sanzionabile sotto il profilo civilistico o amministrativo ma non sotto il profilo penale.
Si potrebbe allora obiettare che, in questo caso, si tratta di aggressione a un diritto fondamentale, e che tale aggressione non può restare per definizione sprovvista di una tutela anche penale.
Tuttavia, è la stessa Corte costituzionale ad aver negato in un recente arresto (sentenza n. 37 del 2019 *) la sostenibilità in assoluto di questo argomento, a proposito della depenalizzazione dell’ingiuria, quando ha ritenuto che il legislatore è sempre libero di valutare se sia necessario apprestare tutela penale a un determinato diritto fondamentale, o se, invece, il doveroso obiettivo di proteggere il diritto stesso dalle aggressioni provenienti dai terzi possa essere efficacemente assicurato mediante strumenti alternativi, e a loro volta meno incidenti sui diritti fondamentali del trasgressore, nella logica di ultima ratio della tutela penale che ispira gli ordinamenti contemporanei.
D'altra parte, la soppressione del reato di cui all'art. 579 c.p. non avrebbe implicato, dal punto di vista civilistico, il venire meno dell'art. 5 del codice civile, secondo cui “gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica”, e l'omicidio del consenziente, nella sua ipotesi '"pura" (consenso libero e consapevole) è soltanto uno strumento per così dire accessorio ed eventuale, in aggiunta alle necessarie repressioni penali dell'omicidio volontario, dell'omicidio colposo e dell'istigazione al suicidio, apprestate dall'ordinamento per proteggere da aggressioni ingiustificate il bene-vita.
Ancora, per una fattispecie del tutto affine - quanto meno nello "spirito referendario" -, ovvero il suicidio assistito, la Corte ha già posto in discussione - seppure, come visto, a determinate condizioni - la tenuta costituzionale della norma penale incriminatrice “accessoria”.
Si tenga conto, poi, che la sanzione penale in presenza di un consenso liberamente prestato è una deviazione rilevante dai principi generali del nostro ordinamento e in particolare del diritto penale, che trova giustificazione soltanto nella fondamentale importanza del bene protetto ma che non rinviene alcuna sponda diretta nella Costituzione repubblicana, dove il diritto alla vita e il diritto alla dignità della persona sono posti implicitamente sullo stesso piano, tra i diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 della Costituzione.
E qui giungiamo all'ultimo motivo di perplessità - forse il più democraticamente sensibile - della scelta operata dalla Corte.
Il referendum abrogativo è uno dei modi attraverso i quali viene esercitata la sovranità popolare. La norma dell'art. 75 della Costituzione viene subito dopo le disposizioni in materia di esercizio della funzione legislativa da parte delle Camere ed è ricompresa nell’unitaria sezione denominata “formazione delle leggi”.
Tra i limiti di ammissibilità riguardanti le materie oggetto di referendum non vi è il divieto di abrogazione di sanzioni penali.
Tale divieto non è neanche desumibile dagli ulteriori limiti enucleati nel tempo dalla Corte costituzionale, ovvero dalla necessità di tutelare, escludendone la possibile abrogazione per referendum, quelle norme a contenuto costituzionalmente vincolato, da cui promanano valori di ordine costituzionale, e la cui esistenza garantisce la mancata lesione di specifici disposti della Costituzione.
In particolare, è stato lo stesso Giudice delle leggi a premettere, nella sentenza che ha dichiarato l'inammissibilità del quesito referendario, che la sua valutazione preliminare è volta a verificare se il venir meno di una determinata disciplina non comporti ex se un pregiudizio totale all’applicazione di un precetto costituzionale.
Secondo la Corte, questo pregiudizio non c'è, se ci fermiamo alle implicazioni più naturali derivanti dalla sussistenza di una normativa costituzionalmente necessaria.
In particolare, non si tratta, nel caso dell'art. 579 del codice penale, né di legge ordinaria che contiene l’unica necessaria disciplina attuativa conforme alla norma costituzionale che protegge il bene della vita umana, né di legge ordinaria la cui eliminazione ad opera del referendum priverebbe totalmente di efficacia un principio o un organo costituzionale la cui esistenza è invece voluta e garantita dalla Costituzione.
Tuttavia, la Corte ha fatto leva su quei precedenti (in particolare, sentenza n. 35 del 1997 e sentenza n. 49 del 2000) in base ai quali esistono leggi ordinarie la cui mera eliminazione determinerebbe la soppressione di una tutela minima per situazioni che tale tutela esigono secondo la Costituzione, e che tali sono le leggi volte a rendere effettivo un diritto fondamentale della persona.
Questi precetti normativi, una volta venuti ad esistenza, possono essere soltanto modificati o sostituiti dal legislatore con altra disciplina, pena la violazione diretta di quel medesimo precetto costituzionale della cui attuazione costituiscono strumento.
Tra tali precetti secondo la Corte vi è anche la norma penale incriminatrice dell'omicidio del consenziente, la quale riconosce alla libertà di autodeterminazione individuale una incidenza limitata, che si risolve nella mitigazione della risposta sanzionatoria, in capo all’autore del fatto di omicidio, in ragione del consenso prestato dalla vittima.
Insomma, secondo la Corte, non è una norma a contenuto costituzionalmente vincolato, trattandosi di una disciplina non necessariamente da modularsi nel senso fatto proprio dal legislatore del 1930, per essere conforme a Costituzione, ma non può neanche essere semplicemente abrogata, "perché non verrebbe in tal modo preservato il livello minimo di tutela richiesto dai referenti costituzionali ai quali" si salda.
SOVRANITA’ POPOLARE E BILANCIAMENTO DEI VALORI
Il ragionamento della Corte non convince appieno.
Innanzitutto, la categoria delle leggi non costituzionalmente necessarie ma non semplicemente abrogabili sembra introdurre un ulteriore limite, questo sì, incompatibile con la sovranità popolare diretta, che è già stata di per sé limitata dal Costituente alla sola abrogazione, senza possibilità di modifica, delle leggi.
La conseguenza astratta di tale limitazione è che tutta una serie di referendum astrattamente ammissibili sono subordinati per la loro celebrazione alla sensibilità del momento della Corte e condizionabili per sempre dalla volontà del legislatore, che potrebbe comodamente restare inerte e non modificare mai la disciplina oggetto del referendum.
In secondo luogo, colpisce l'argomentazione implicita secondo cui il bilanciamento tra il valore del bene vita e il valore della libertà di autodeterminazione individuale sarebbe già stato correttamente operato dal legislatore fascista con una rigorosa sanzione di natura penale, quando è invece chiaro che tale bilanciamento andrebbe cercato nella Costituzione repubblicana e in un'ottica di più ampio respiro ordinamentale.
D'altra parte, se è vero che "l’effetto di liceizzazione dell’omicidio del consenziente oggettivamente conseguente alla vittoria del sì non risulterebbe affatto circoscritto alla causazione, con il suo consenso, della morte di una persona affetta da malattie gravi e irreversibili", potendo afferire anche a situazioni di disagio di natura del tutto diversa (affettiva, familiare, sociale ed economica, sino al mero taedium vitae), è altresì vero che andare a guardare dallo spioncino i possibili e invero residuali risvolti distorsivi dell'abrogazione della norma penale (come il caso del consenso prestato per errore spontaneo o l'uccisione tramite l'uso di arma da fuoco) è un po' come pronunciare l'incostituzionalità di una norma di favore ragionevole perché qualcuno può sfruttarne illecitamente i benefici.
Sarebbe a quel punto, come normalmente accade nelle democrazie moderne, senz'altro onere del legislatore porre rimedio a tali effetti distorsivi.
Perché allora i cittadini sono stati privati della possibilità di scegliere di abrogare una norma non costituzionalmente necessaria, in costanza di una formidabile inerzia del legislatore?
Sfiducia e paura.
Che sia un caso di sfiducia nei confronti di una rappresentanza popolare ai minimi termini o un caso di sfiducia nei confronti della capacità di decidere degli elettori, resta l'amara sensazione che la Corte abbia fatto una scelta, pur comprensibile, di paura, invece che una scelta di coraggio.
Mentre il mondo dei diritti va avanti, si complica e si arricchisce, in Italia viviamo e moriamo ancora alle condizioni imposte dal legislatore penale degli anni '30, dopo lunghe battaglie legali per avere un farmaco, e soltanto se resta al malcapitato la possibilità di compiere da solo l'atto finale di assunzione di quel farmaco.
Nel frattempo, però, la Corte costituzionale tedesca, con sentenza del 26 febbraio 2020 (3), ha dichiarato illegittima la disposizione penale interna che puniva l'aiuto offerto come "opportunità commerciale" al soggetto avente intenti suicidari.
Il ragionamento della Corte, seppure limitato ad una ipotesi affine a quella del nostro art. 580 c.p., e non a quella dell'omicidio del consenziente, è dotato di ampio respiro, con riferimento al bilanciamento dei valori coinvolti da questo tipo di scelte.
Le ragioni poste alla base della invalidità della norma penale esaminata sono riconducibili, infatti, alla limitazione sproporzionata del pieno ed effettivo esercizio del diritto della persona ad auto-determinarsi alla morte.
Questo diritto, secondo la Corte tedesca, trova diretto addentellato nel più ampio diritto inviolabile della personalità individuale, il cui rispetto implica che un soggetto in grado di agire responsabilmente non debba subire condizionamenti esterni nelle proprie scelte esistenziali, specie se tali condizionamenti lo costringano a scelte inconciliabili con l'idea che ha di sé.
E la scelta di porre fine alla propria vita, sempre secondo la Corte, è la massima espressione, seppure drammatica, del diritto di autodeterminarsi, a cui è connessa una valutazione circa il significato dell'esistenza in cui nessuno può sostituirsi al singolo: in questa prospettiva, non vi è condizione di salute, fase della vita o giudizio di valore - sui motivi della volontà suicidaria - che possano costituire ostacolo al pieno realizzarsi del diritto a una morte auto-determinata, né alla libertà di cercare e avvalersi dell'aiuto prestato da terzi.
L’ex Presidente della Corte costituzionale, Gustavo Zagrebelsky, nel commentare questa pronuncia (4), prima del giudizio di ammissibilità negativo sul quesito referendario, si era così espresso: ”(…) una limpida sentenza della Corte costituzionale tedesca (…) ha considerato centrale il tema riguardante la qualità della decisione di morire, la cui maturità, consapevolezza e libertà sono non solo necessarie, ma anche alla fine sufficienti. Poiché lo Stato è tenuto a mettere in opera ogni mezzo per escludere vizi di quella drammatica decisione, offrendo anche alternative utili (…), ma non spetta allo Stato sostituirsi alla persona nel valutarne le ragioni e ancor meno nel decidere in quali situazioni rispettare la volontà della persona e in quali no. La sentenza della Corte tedesca non può essere ignorata in Italia: il tema dei diritti fondamentali della persona e la circolazione degli argomenti è tanto più importante nell’area d’Europa. I quesiti che con il referendum si pongono al voto popolare tendono al superamento dell’attuale incostituzionale limitazione della autonomia delle persone.
Nella paralisi del Parlamento, l’intervento diretto del popolo è la situazione considerata dalla Costituzione”.
(1) “L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. (art. 1 della Costituzione)
“È indetto referendum popolare per deliberare la abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali.
Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali.
Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati.
La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi.
La legge determina le modalità di attuazione del referendum” (art. 75 della Costituzione).
(2) Corte costituzionale, sentenza n. 50 del 15 febbraio 2022, depositata il 2 marzo 2022.
(3) Bundesverfassungsgericht, Corte costituzionale federale tedesca, 26 febbraio 2020 (2 BvR 2347/15, 2 BvR 2527/16, 2 BvR 2354/16, 2 BvR 1593/16, 2 BvR 1261/16, 2 BvR 651/16).
(4) "Perché sul fine vita deve decidere il popolo" - articolo apparso su La Stampa del 27 giugno 2021