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Abuso di ufficio e abuso di potere

18 aprile 2021

Sentenza del 26 luglio 2018 del Tribunale di Nuoro, confermata dalla Corte di Appello di Cagliari - Cassazione penale sez. VI, n. 8057 del 2021


IL CASO 

Il Tribunale sardo di primo grado condannava l'imputato per il reato di cui all'art. 323 c.p., ritenendo accertata la condotta a lui ascritta, così riassumibile: avere affidato direttamente a un'impresa "amica', in qualità di responsabile della polizia municipale, un servizio di misurazione elettronica della velocità media dei veicoli in un tratto stradale pubblico, senza esperire una previa gara e omettendo di inserire, a tali fini, nel contratto e nella relativa determinazione di affidamento, un bilancio preventivo degli altri costi di servizio, inerenti ai singoli verbali che sarebbero stati contestati a seguito della messa in esercizio delle apparecchiature di misurazione della velocità, da sommare dunque a quelli in base ai quali era stato stabilito l'affidamento diretto.

Con la vecchia formulazione del reato di abuso di ufficio, la condotta dell'imputato aveva integrato - ad esito dell'istruttoria dibattimentale - sia l'elemento oggettivo che l'elemento soggettivo del reato (cosiddetta doppia ingiustizia e intenzionalità dell'abuso).

In particolare, era stata dimostrata la violazione della disciplina legislativa all'epoca vigente (art. 125 del d.lgs. n. 163 del 2006: l'importo contrattuale, se correttamente calcolato, avrebbe superato la soglia oltre la quale era obbligatoria la gara), sia i'evento del vantaggio patrimoniale ingiusto, in quanto non spettante in base al diritto oggettivo (vantaggio per l'affidatario da cui è derivato anche un danno per il Comune coinvolto, che ha dovuto avviare dispendiosi procedimenti volti all'annullamento del contratto di appalto e all'invalidazione in autotutela dei verbali di accertamento delle contravvenzioni elevate), sia infine l'elemento soggettivo, sulla base di una serie di indizi gravi, precisi e concordanti che hanno attestato la volontà inequivoca di volere favorire quel determinato titolare di azienda, posto che nel reato di abuso di ufficio la prova del dolo intenzionale non presuppone l'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende avvantaggiare, ma può essere desunta anche dalla macroscopica illegittimità dell'atto e da ulteriori elementi concordemente dimostrativi dell'intento di conseguire un vantaggio patrimoniale o di cagionare un danno ingiusto.

Tuttavia, in Cassazione, il processo penale de quo ha dovuto confrontarsi con l'intervenuta (ennesima) modifica normativa della condotta di abuso di ufficio, che impone di accertare anche se il fatto contestato all'imputato, a seguito della modifica legislativa introdotta dal decreto legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito dalla legge 11 settembre 2020, n. 120, sia ancora da considerarsi un reato, con eventuale depenalizzazione in parte qua della fattispecie criminosa e retroattività favorevole dell'effetto depenalizzante.

Nel caso di specie, ha assunto rilievo, ai fini di una possibile abolitio criminis, la circostanza per cui la necessaria violazione di norme di legge o di regolamento non è più sufficiente a determinare la punibilità del reato, poiché, da un lato, la violazione di norme regolamentari non è sicuramente più rilevante, dall'altro, anche la violazione di norme di legge può essere irrilevante, se le norme violate non prevedano espressamente specifiche regole di condotta dalle quali non residuino per l'agente margini di discrezionalità.

La Corte di Cassazione ha negato l'irrilevanza penale, nell'ipotesi esaminata, della condotta posta in essere dall'imputato, sulla base della distinzione, seppure non chiaramente esplicitata, tra discrezionalità tecnica e accertamento tecnico.

Posto che l'esercizio di discrezionalità amministrativa resta sicuramente  escluso dall'ambito di applicazione della nuova formulazione dell'abuso di ufficio - in quanto la comparazione tra l'interesse pubblico e l'interesse privato afferisce senz'altro al merito dell'azione amministrativa - non possono parificarsi a tale esercizio, secondo i Giudici di legittimità, operazioni di natura tecnico-contabile che non lascino margini di scelta all'amministratore pubblico tra due soluzioni ugualmente compatibili con il fine pubblico perseguito.

La differenza è labile - e rinvenibile da un punto di vista teorico nella differenza tra discrezionalità tecnica e accertamento tecnico, in quanto tale basata sulla opinabilità o meno della scienza e delle regole tecniche da applicare al caso concreto - e viene sintetizzata dalla Corte di Cassazione nella formula secondo cui, qualora la disposizione di legge che si assume violata detti criteri tecnici che vincolano la stazione appaltante ad adottare una determinata scelta amministrativa all'esito dell'accertamento preliminare da eseguire, il funzionario responsabile non possiede alcun margine di discrezionalità e dunque può rispondere di abuso di ufficio.

Ma la Corte di cassazione va oltre, evidenziando che la nuova formulazione della norma incriminatrice ricomprende anche i casi "riguardanti l'inosservanza di una regola di condotta collegata allo svolgimento di un potere che, astrattamente previsto dalla legge come discrezionale, sia divenuto in concreto vincolato per le scelte fatte dal pubblico agente prima dell'adozione dell'atto (o del comportamento) in cui si sostanzia l'abuso di ufficio".

In altri termini, una volta che l'agente abbia preventivamente rinunciato alla discrezionalità che pure la legge gli avrebbe teoricamente concesso, la sua scelta dovrebbe considerarsi vincolata e dunque assimilabile, da un punto di vista penale, alla violazione ritenuta già astrattamente punibile.

Nel caso di specie, la scelta del funzionario pubblico di non considerare gli ulteriori costi connessi all'elevazione delle contravvenzioni conseguenti all'installazione del misuratore di velocità per determinare il valore dell'appalto era stato il frutto non di una consentita valutazione discrezionale, ma di una deliberata decisione dell'imputato di non osservare le  vincolanti prescrizioni di legge in materia, che si sarebbero dovute tradurre in una mera attività di accertamento tecnico, a cui avrebbe fatto seguito l'esercizio di un potere vincolato.

In altri termini, secondo i Giudici di legittimità, ove mai l'imputato avesse usufruito di un potere discrezionale nella scelta dei dati tecnici da valutare per determinare l'importo contrattuale rilevante ai fini della determinazione della soglia di appalto, il cattivo uso di tale potere lo avrebbe mandato assolto dall'accusa di abuso di ufficio soltanto ove non fosse stato frutto di maliziosa preordinazione.


IL REATO E LA NUOVA FORMULAZIONE

Il reato di cui all'art. 323 c.p. ha avuto una vita molto travagliata, probabilmente perché posto al confine tra l'illecito penale, l'illecito amministrativo, l'illecito civile e l'illecito disciplinare.

Si tratta di una fattispecie incriminatrice che ha sempre "agitato" la politica, e gli amministratori pubblici in generale, per la sua capacità, in un sistema in cui la giustizia penale ha spesso operato un ruolo di supplenza rispetto ai controlli di natura amministrativa sull'esercizio dei pubblici poteri, di andare a colpire in modo generico e indeterminato condotte di "contorno" rispetto alla commissione di altri reati "maggiori" contro la pubblica amministrazione (in particolare, corruzione), rispetto ai quali non era stata raggiunta una prova idonea a sostenere l'accusa in giudizio.

Prima della riforma del 1997, la condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio consisteva in un mero abuso "del suo ufficio" (che nella formulazione precedente era tradotta come abuso "dei poteri inerenti alle sue funzioni", in quanto riferito al solo pubblico ufficiale), con il dolo specifico di volere procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio non patrimoniale o di volere arrecare ad altri un danno ingiusto.

Dopo la riforma del 1997, il reato in esame è stato trasformato da reato di mera condotta a reato di evento e di danno.

Il dolo specifico di volere avvantaggiare o danneggiare è divenuto un vero e proprio oggetto materiale della condotta - "ingiusto vantaggio patrimoniale" o danno (patrimoniale o non patrimoniale) ingiusto -, condotta che è stata maggiormente tipizzata nella "violazione di norme di legge o di regolamento" - così da escludere dall'area dei vizi penalmente rilevanti il vizio di eccesso di potere -, ovvero nell' "omissione di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti".

Sotto il profilo del nuovo elemento oggettivo del reato di abuso di ufficio, è divenuto così necessario l'accertamento della cosiddetta doppia ingiustizia, consistente, da un lato, nell'ingiustizia della condotta, in quanto connotata da violazione di legge, e, dall'altro, nell'ingiustizia  dell’evento di vantaggio o di danno, in quanto non spettante in base al diritto oggettivo regolante la materia.

Con la precisazione che ad escludere l’ingiustizia non è sufficiente che il destinatario della condotta abusiva sia titolare di una posizione giuridica astrattamente tutelabile ma occorre che questa lo sia in concreto, con riguardo cioè alle condizioni normativamente previste, anche per l’ipotesi di concorso con la posizione di altri titolari di diritti analoghi.

Sotto il profilo del nuovo elemento soggettivo, il dolo generico è stato trasformato in dolo intenzionale ("intenzionalmente procura a sé o ad altri"), anche se la giurisprudenza ha in qualche modo attenuato l'incidenza di tale modificazione sulla punibilità in concreto del reato, chiarendo che l'intenzionalità del dolo non è esclusa dalla compresenza di una finalità pubblicistica nella condotta del pubblico ufficiale, dovendosi ritenere necessario, per escludere la configurabilità dell'elemento soggettivo, che il perseguimento del pubblico interesse costituisca l'obiettivo principale dell'agente, con conseguente degradazione del dolo di danno o di vantaggio da dolo di tipo intenzionale a mero dolo diretto od eventuale.

Ma neanche questa formulazione ha messo al riparo l'amministratore pubblico dall'imputazione "indiscriminata" del delitto di abuso di ufficio, dal momento che nella violazione di legge la giurisprudenza ha ricondotto pacificamente anche la violazione dei principi di buon andamento e imparzialità, quali valori fondanti dell'azione della pubblica amministrazione ai sensi dell'art. 97 della Costituzione, che dunque andava a costituire, sotto questo profilo, l'oggetto della massima  violazione di legge perpetrabile.

Il requisito della violazione di legge poteva dunque essere integrato anche dall'inosservanza del principio costituzionale di imparzialità della p.a., nella parte in cui, esprimendo il divieto di ingiustificate preferenze o di favoritismi, impone al pubblico ufficiale e all'incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione, fermo restando che la stessa deve comunque attenere all'esercizio dei poteri attribuiti al destinatario del precetto.

Il legislatore del 2020 ha così cercato di ridimensionare ulteriormente l'operatività della fattispecie, eliminando, da un lato, la violazione di norme secondarie dall'ambito della condotta punibile, e limitando, dall'altro, le norme di legge rilevanti, ai fini della violazione sanzionabile, alle sole regole cogenti per l'azione amministrativa, specificamente disegnate in termini completi e puntuali.

Tali regole, per essere rilevanti, non devono consentire al  pubblico funzionario di agire in un contesto di discrezionalità amministrativa o tecnica, anche se l'esercizio del potere discrezionale, per fungere da limite all'applicazione del precetto penale, non può in ogni caso trasmodare in una vera e propria distorsione funzionale dai fini pubblici, laddove cioè risultino perseguiti, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, interessi oggettivamente difformi e collidenti con quelli per i quali soltanto il potere discrezionale è attribuito.

La riforma non ha esplicato invece alcun effetto con riguardo all'altra ipotesi di condotta di rilievo penale prevista dall'art. 323 c.p. (quella sostanziatasi nell'inosservanza dell'obbligo di astensione "in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti"), rispetto alla quale la fonte normativa della violazione è da individuarsi nella stessa norma penale, salvo che per il rinvio agli altri casi prescritti, rispetto ai quali non è sostenibile la limitazione alle sole fonti primarie di legge, trattandosi della violazione di un precetto vincolante già descritto dalla norma penale, sia pure attraverso il rinvio, ma solo per i casi diversi dalla presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto, ad altre fonti normative extra-penali che prescrivano lo stesso obbligo di astensione.

In definitiva, l'abuso di ufficio, così come tratteggiato oggi dalla fattispecie incriminatrice, è lontanissimo dal vecchio e tradizionale "abuso di potere" del funzionario pubblico.

La differenza è plasticamente rappresentata dalla vicenda di cui si è occupata la Corte di Cassazione nella sentenza n. 442 pubblicata l'8 gennaio 2021.

Un atto di riorganizzazione delle strutture e dei servizi di un'Azienda ospedaliera non adottato dal titolare del potere deliberativo in situazione di interessi in conflitto, né connotato da una oggettiva distorsione dai fini pubblici di buon andamento, efficienza ed economicità perseguiti dallo stesso ente, è da considerarsi, secondo la Corte, tra quelle scelte di merito che, nel contesto della discrezionalità amministrativa, la nuova formulazione dell'art. 323 c.p. sottrae al sindacato del giudice penale, anche se in concreto è stato provato che tale atto è stato preordinato a dequalificare illegittimamente uno dei Servizi interni dell'Azienda ospedaliera, con la inevitabile conseguenza di demansionare la posizione giuridica ed economica del Direttore di tale Servizio.


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